di Ramiro Padilla Atondo
Traduzione di Silvia Dammacco

© Domitilla Verga
Loro la coppia perfetta. Loro che hanno fatto della pianificazione un sacro mantra. Ho pensato che, secondo i miei calcoli, avranno un’agenda fitta di emozioni. Forse una tabella a colori per assicurarsi che i loro stati d’animo corrispondano a quanto richiesto dal loro terapeuta. Guardate, essere giù di corda una volta al mese è abbastanza sano. Serve per riavviarsi. Immagino la vicina andare a letto la sera preparandosi al malumore del terzo venerdì di ogni mese. E immagino la tabella dei colori necessaria a verificare che tutto sia in ordine. Le emozioni positive vanno in blu, l’indifferenza in giallo, il cattivo umore in rosso. Devono mantenere un equilibrio tra il giallo e il blu mentre il rosso va usato come eccezione. È così che li vedo da quando sono i miei vicini. Dio li fa e poi li accoppia. In lui vedo le qualità perfette dell’uomo sottomesso.
Forse a questo punto potrei parlare di un ponte che unisce Freud e Sartre. L’edipico con il codipendente. L’uomo ha bisogno della sua donna per esistere. Questo è decisamente sartriano. L’uomo la chiama mami per tutto. So che sto facendo delle ipotesi, è che mi piacciono le ipotesi. È parte del divertimento. D’altro canto però deve essere terribile vivere così. E vivere così ha ovviamente delle conseguenze. Lo dico perché ho appena finito di aiutare il mio vicino a preparare i bagagli. Lei gli ha chiesto il divorzio. Lui ha trattenuto le lacrime in mia presenza, fosse stato per me l’avrei abbracciato per farlo sfogare un po’. La vicina si è sistemata da sua madre in attesa che lui se ne vada. Mi ha raccontato che quelle vacanze in montagna hanno fatto saltare in aria il loro matrimonio. E io penso alle parole saltare in aria. Se un matrimonio è una bolla costruita di un materiale che può esplodere, siamo fregati. Me lo dice mentre carica uno scatolone di libri. Lui ama il miglioramento personale e l’ispirazione. Ha tutti i libri di Dale Carnegie, quello di Napoleon Hill, Eckart Tole e tutti questi personaggi. Improvvisamente mi sembra di comprendere il suo atteggiamento. È tutto un mantra.

© Domitilla Verga
La questione non mi è del tutto nuova; ho una collega di lavoro che mi dice che dovremmo decretare. Che sta leggendo un’autrice metafisica straordinaria. Meta che? Metafisica. Cosa vuoi che ne sappia tu, mi dice. Non ti interessi a nulla. Io credo che parte di questo messaggio mi sia rimasto impresso perché so cos’è un decreto. Non so, è come se questi autori di auto-miglioramento fossero diventati una specie di santi laici. Come il mio amico Rafa e la foto del fondatore degli Alcolisti Anonimi nella zona più a vista del suo salotto, i dodici passi e il “solo per oggi”. Credo siano varianti dello stesso argomento. Il vicino mi aveva parlato di questi temi con particolare devozione, del coaching e dei corsi sulla tua vita in azione. Non sembra però gli siano stati molto d’aiuto. Mentre si dirigeva verso l’auto gli cadde un libro dalla scatola. Raccogliendolo noto tantissime note. A me personalmente non piace scarabocchiare i libri. Leggo frasi del tipo “che emozione, questa cosa sta succedendo a me proprio adesso”.
E cose così. Lo seguo mentre penso alla casa. È strano.
Quando hai vissuto in un luogo molti anni, quel luogo raggiunge un punto di equilibrio. Le sue cose, le cose che appartenevano a uno spazio specifico, ora cambiano posto. Metà armadio è stato svuotato, alcuni quadri, i suoi libri. Sul letto i sui vestiti sono chiusi in sacchi di plastica. Per un po’ la casa apparirà mezza vuota e l’energia di questi oggetti che avevano un proprietario svanirà. Almeno questo è ciò che penso. Quando esco lui è appoggiato alla sua macchina. Si regge allo sportello. La testa è adagiata sull’avanbraccio. Il suo sguardo è rivolto verso il sedile posteriore senza guardarlo. Faccio il giro verso l’altro sportello e lancio il libro. Gli chiedo se ha voglia di una birra e accetta. Vivo a un paio di case più in là, quindi vado e torno in un attimo. Ci sediamo sul marciapiede. Lui fa un paio di sorsi e crolla. Piange sui suoi occhiali. Ogni tanto li toglie e li pulisce con la parte inferiore della camicia che sta fuori dai pantaloni. Questo è il segno del cedimento. Probabilmente è la persona più ordinata che conosca.

© Domitilla Verga
Nonostante la pancia sia già un po’ pronunciata, le magliette che indossa sotto le camicie sono gloriosamente bianche. Un bianco in contrasto con il pelo del petto che, indisciplinato, arriva fino al collo. All’inizio piange sommessamente. Esattamente una settimana fa erano in procinto di partire per le vacanze. Lo so perché la routine era la stessa da diversi anni. Conoscevo anche le manie di lei. Il suo inseparabile taccuino, importante quanto la borsetta dei cosmetici, le sue penne bic colorate per segnare tutto e persino il correttore per cancellare. Mi racconta che tutto è stato esattamente identico a ogni anno tranne che per il repellente per zanzare. Che quando arrivarono alla baita, sua moglie ha capito che i suoi programmi erano andati a rotoli perché aveva dimenticato il repellente per zanzare.
Raggiungere la baita non è cosa da poco, perché il viaggio dura quattro ore. Per raggiungere quella collina è necessario un mezzo a quattro ruote motrici. Tornare giù a recuperare il repellente non è un’opzione possibile. Mi racconta che all’inizio non diede particolare peso alla cosa perché esistono problemi ben peggiori. Penso che anche questo atteggiamento sia conseguenza di quello strano ottimismo quasi psicotico appreso dai libri di auto-miglioramento.
Tu puoi tutto, tu sei l’artefice del tuo destino, sei uno tosto e lo sai e nessun repellente per zanzare ti impedirà di goderti queste vacanze in compagnia di un adolescente che per la prima volta in vita sua sarà disconnesso dai social network e da una donna la cui minima variazione della routine le provocherà un attacco d’ansia.
È questo a cui penso mentre mi parla. Non avevano ancora finito di scaricare che uno sciame di feroci zanzare li attaccò, assetate di sangue umano, minuscoli vampiri affamati. Lei cercava freneticamente nelle borse etichettate per tutto. Siero, vitamine, antiveleno. C’era tutto, assolutamente tutto. Sarebbero sopravvissuti a un’apocalisse di zombie ma non di certo a un attacco di zanzare. E mentre cercava e tirava tutto alle sue spalle, alcuni oggetti cadevano per terra, con il vicino che cercava di razionalizzare la cosa. Nel frattempo realizza che la baita è totalmente sprovvista di zanzariere e che nonostante stia per fare buio, il ritorno alla civiltà è impossibile. Non c’è segnale né elettricità. L’idea è quella di allontanarsi dalle comodità del mondo civilizzato. Bene. L’idea era esattamente questa.


© Domitilla Verga
Tra i singhiozzi mi racconta che sua moglie ha avuto un attacco psicotico. Che si è girata verso di lui e ha iniziato a tirar fuori cose accadute dieci anni prima, quindici anni prima. Mi dice che l’unica cosa che riusciva a vedere era suo figlio più in là che guardava un telefono totalmente privo di segnale. Suo figlio non sa come far fronte a una madre che lo controlla fin nei minimi dettagli. Nei cassetti i vestiti sono addirittura disposti per colore. Posa la birra sul marciapiede e ripete il gesto di pulizia delle lenti. Divenne buio tra il rumore infernale del ronzio. Fa troppo caldo per coprirsi anche solo con un lenzuolo. Sono completamente sudati e il tempo è diventato statico. Lei ha continuato a gridargli contro ma lui ha fatto un patto con se stesso per non alzare mai la voce contro sua moglie. Non sa come.
Detesta le discussioni, ha preferito assecondare le sue parole per mantenere un certo equilibrio. Ma non ha funzionato. Suo figlio era sdraiato su una brandina all’altro estremo della baita. Non ha un posto dove andare, ha paura di uscire perché non sa se lì fuori ci sono animali notturni e velenosi. Lo ha detto la mamma. Poi il vicino mi dice che dopo quattro o cinque ore di discussione un sentimento sconosciuto si è impossessato di lui. Lo dice cercando di controllare il pianto. Qualcosa che è emerso dal profondo, una furia cieca, uno zampillo di parole articolate, concepite per provocare il maggior danno possibile, parole accumulate lì, nel subconscio, che si battevano per venir fuori, parole custodite sotto il lucchetto del falso giubilo del benessere venduto dai suoi libri di auto-miglioramento. Un rancore in perfetto stato di salute che, come un fantasma di un racconto, appare nel momento meno opportuno. Una energia maligna, una energia che lo tenne sveglio fino all’alba.
Lei dovette tacere. Lei che prima lo ha guardato stupita, poi indignata, lei che ha cercato di rispondere ma la rabbia ha avuto la meglio, piange, si strappa i capelli. Resta in silenzio per pochi istanti guardando al cielo. Si sente sollevato. Poi il mio vicino si alza. È tutta una menzogna, dice. Con calma scarica il cartone dei libri sul miglioramento personale e li butta in un bidone. Nel retro del furgone ci sono gli arnesi per il barbecue. Tira fuori il liquido per il carbone e li bagna uno per uno. Mentre lo fa, sorride. Avvicina un cestino e li butta via. Poi prende un foglio di giornale e li incendia. Mi alzo e guardo il bidone. Un rito ancestrale, i maschi intorno al fuoco. È tutta una fottuta menzogna, ripete. Non piange più.
Il racconto originale, in spagnolo, pubblicato in novembre 2023, può essere letto su Anestesia – revista de literatura, a questo link: https://revistaanestesia.com/una-nube-de-mosquitos/
Ramiro Padilla Atondo è nato a Ensenada Baja California, Messico. Collabora regolarmente per i portali nazionali Sinembargo e SDP Noticias. Scrive saggi letterari per il supplemento culturale El Vigía de Ensenada e la rivista Espiral de Tijuana.





Lo spettro della luce bianca è composto da sette colori: rosso, giallo e blu sono i primari, e verde, arancio, indaco e violetto sono i complementari.
Già Aristotele nel IV secolo a. C. credeva che tutti i colori fossero contenuti nel bianco.
Anche quando divisi dalla proiezione prismatica, è per via di questa stessa sorgente che continuano a influenzarsi, ben oltre un imperativo estetico, per una deriva di intimità.
I pittori e le pittrici ci insegnano che l’intensità di un colore dipende da quello che gli si pone accanto più che dalla propria tinta e da caratteristiche immutabili. Secondo la leggenda Tiziano valutava un buon colorista dalla sua capacità di far apparire il rosso veneziano come vermiglio, quindi dalla sua abilità di misurare l’influenza reciproca dei colori per ottenere un certo livello di brillantezza.
Intorno all’uso dei colori per esprimere e suscitare sensazioni emotive ruotano, poi, alcune tra le più interessanti riflessioni degli artisti, da chi non fa ancora a meno di un soggetto figurativo, come Van Gogh1, agli esponenti dell’espressionismo astratto, come Rothko2. Quest’ultimo credeva certamente nella forza emotiva del colore ma, oltre a essere interessato al loro rapporto, dava massima importanza all’interazione tra il quadro e lo spettatore con una consapevolezza mistica di ciò che con il colore (e con le dimensioni del quadro) in pittura poteva comunicare.
In un primo momento, osservando i lavori di Domitilla Verga, la nostra visione è avvolta dal colore, come se fosse predominante rispetto alla figura. Questa emerge gradualmente all’occhio e sembra conservare un’indecisione: staccarsi dal fondo o restare lì dove l’artista ha voluto collocarla sui materiali di tela, legno, carta, con incursioni nel digitale. In alcuni tratti – brevi, quasi impercettibili – la linea di contorno della figura sparisce come risucchiata dal colore: una sorta di punto di rottura con il definito della composizione. La rigidità delle forme geometriche si attenua, ma dietro l’armonia si inizia a percepire una tensione: le figure umane vengono colte nel momento dello slancio, mentre gli oggetti perdono la loro immobilità in un movimento tensivo generato proprio dalla vivacità e dalla voracità del colore.
Maria Teresa Rovitto
Domitilla Verga (Roma 1965). Vive fra Roma e il borgo medievale dell’abbazia di Fossanova, in provincia di Latina, dove da molti anni lavora organizzando eventi, occupandosi di arte e ristorazione creativa. Scrive e dipinge da autodidatta sin da bambina. A diciannove anni, e fino ai ventinove, disegna una sua linea di moda, Quadretti e Righine, di abiti femminili, da bambino e complementi di arredo. Per otto anni crea e progetta a Fossanova oggetti di arredamento per la sua bottega Cose di borgo prendendo spunto da archivi fotografici di famiglia e lavorazione di materiali locali di recupero. Tra il 2010 e il 2017 è docente di cucina professionale presso la Fondazione Il Faro di Susanna Agnelli. Dal 2013 espone in diverse mostre collettive. Predilige la tecnica acrilica e a olio, sperimenta l’uso di materiali e supporti differenti: tela, legno, carta, utilizzando collage, cucito e tecniche miste di assemblaggio per passare anche dal digitale. Sente forte il richiamo per le atmosfere intimiste, gli oggetti inanimati, le vedute d’interno disabitate, le pose e gli slanci del corpo umano quando lo sospendono in attimi che diventano l’eterna attesa del cambiamento. Tende a recuperare i materiali e sovrapporre tecniche e strati sul fondo. Attraverso i suoi lavori lavori restitituisce soggestioni e stati d’animo.
- «Mio dio, certo, se prendi della sabbia secca in mano, e se la guardi da vicino, anche l’acqua, anche l’aria, così considerate sono incolore. Non c’è blu senza giallo e senza arancione, e se fai il blu fai perciò anche l’arancio, il giallo, vero!», Lettera di Van Gogh a Bernard, Arles 6-11 giugno 1888, in Tutte le lettere di Van Gogh, vol. III, B6, p. 500, Silvana editoriale, Milano, 1959 ↩︎
- «Le persone che piangono davanti ai miei quadri hanno la stessa esperienza religiosa che ho avuto io dipingendoli. E se, come dici, sei commosso solo dalla relazione tra i colori, allora non hai colto il punto della questione», in Rodman, S., Conversations with artists , Capricorn Books, New York , 1961, p. 93 ↩︎
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