Kill your personal branding: uccidi il tuo io social prima che ti uccida. Ipertesto

di Mario Emanuele Fevola

© Felice Vino, Nyan Cat

Cortocircuiti identitari

La narrazione di sé nell’era digitale

di Mario Emanuele Fevola


Nella comunicazione faccia a faccia, il corpo rappresenta l’essenza dell’individuo; nell’interazione mediata dal computer, l’individuo si trasforma in ciò che comunica. «Essere digitali significa diventare ciò che le nostre dita lasciano trasparire attraverso lo schermo […]. Il corpo è temporaneamente depositato dietro la tastiera, mentre ci estendiamo oltre noi stessi con il cursore. Tabula rasa: possiamo fare e dire di noi ciò che desideriamo» (Pravettoni, 2002). Così l’identità si intreccia con l’impulso verso la scoperta e l’acquisizione di consapevolezza del proprio messaggio. Si prende forma all’interno di una dimensione autobiografica, nella trama narrativa che ciascuno tesse attorno alla propria esistenza. Jerome Bruner ha definito tale processo con il termine di pensiero narrativo, una struttura essenziale che organizza l’esperienza vissuta e consente l’interpretazione dei mondi della mente.

Eppure sorgono interrogativi inediti: nell’epoca della tecnologia, può ancora mantenersi viva la concezione della narrazione di sé? Il dilagare delle relazioni mediate dai nuovi strumenti digitali ha accresciuto l’impulso di riconoscere e definire sé stessi attraverso le narrazioni e le validazioni altrui. Ci troviamo di fronte a una soggettività inedita, che sembra poter prendere forma solo grazie al riflesso che l’altro restituisce. In questo nuovo panorama, l’altro mediato diventa il veicolo imprescindibile attraverso cui l’identità e l’esperienza trovano il proprio riscontro e si fanno reali.

Grazie agli strumenti digitali, la coerenza interiore non è più un imperativo: si possono abbracciare diverse dimensioni di sé, ciascuna costruita con un profilo ad hoc, modellato come un prodotto da proporre in un mercato di attenzioni sempre più frammentato. La rete amplifica questo fenomeno, permettendo a ciascuno di proiettare parti del proprio Io attraverso i social network.

Tuttavia, l’anonimato cede il passo all’iper-personalizzazione, trasformando la pagina personale in una vetrina di sé. Le persone non solo condividono frammenti della loro intimità, ma anche l’umore del momento, creando istantanee del proprio stato emotivo. La virtualità non è più solo una fuga dal reale, ma una dimensione che si intreccia con la realtà, riorganizzando profondamente la struttura della mente. I social inaugurano uno spazio sociale ibrido, l’interrealtà, in cui i legami virtuali e quelli reali si sovrappongono e si rimodellano, molto più fluidi rispetto alle reti sociali tradizionali. Alcuni studiosi hanno distinto tra identità virtuale e identità digitale: la prima, un’identità possibile, immaginata ma non tangibile; la seconda, un riflesso diretto di ciò che siamo offline, veicolato dagli strumenti digitali.

Facebook, in particolare, ha segnato il passaggio dall’identità virtuale, rappresentata da pseudonimi, all’identità digitale, legata al nome e cognome reali. Oggi, la rete non è più separata dalla vita reale, ma ne diviene un’estensione diretta, in cui foto, video e persino la nostra posizione fisica sono condivisi in tempo reale. Facebook rappresenta un ambiente di relazioni ancorate, dove i legami online si intrecciano con quelli offline, creando un contesto di non-anonimato, o nonymity (Zhao et al., 2008). In questo spazio, emergono i cosiddetti sé auspicati (Yurchisin et al., 2005), versioni ideali di noi stessi che si desidera incarnare offline, ma che, per vari motivi, non sono ancora realizzati.

Galimberti parla di intersoggettività enunciativa, sottolineando come la soggettività non sia mai isolata, ma si costruisca nell’interazione continua con gli altri. Questo diventa particolarmente evidente sui social network, dove le dinamiche identitarie si articolano in modo diretto, attraverso i commenti e le interazioni, o in modo indiretto, attraverso il tagging: si associano immagini o testi a una persona, modificando così la percezione pubblica di quella identità (Riva, 2010). Le ripercussioni sono evidenti: l’identità diventa nebulosa, costantemente riscritta da sé stessi e dagli altri. E la nebulosità si accompagna a una profonda instabilità: se da un lato le identità digitali possono essere rimodellate con facilità, dall’altro diventano vulnerabili, soggette a mutamenti incontrollati nel modo in cui vengono percepite dagli altri.

L’individuo rischia di perdersi in un continuo moltiplicarsi di sé. 

Se i nuovi media consentono di plasmare la propria identità, rendendo visibili determinate caratteristiche, è altrettanto vero che la tracciabilità delle identità virtuali facilita la ricostruzione del sé reale. Gli utenti si trovano distribuiti su diverse piattaforme, ciascuna con la propria specificità, e la gestione di molteplici identità diventa una forma avanzata di personal branding (Centenaro, Sorchiotti, 2010). Il personal branding consiste nella capacità di differenziarsi, mettendo in evidenza un tratto memorabile e distintivo, che comunichi efficacemente competenze e talenti. Attraverso i social media, diventa possibile non solo promuovere sé stessi, ma anche modificare la propria immagine pubblica. 

La rete diventa un vero e proprio terreno di cortocircuiti identitari, dove i confini tra pubblico e privato si dissolvono. Ciò che un tempo apparteneva a cerchie ristrette di intimi ora si trasforma in un diario pubblico, in cui l’autore dell’output digitale (foto, post, reel) rischia di perdere il controllo su chi osserva, entrando in una rete sociale senza più barriere tra i diversi mondi che abita.

Editing di Viola Carrara

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