Legamenti. Ipertesto

di Mario Emanuele Fevola

© Roberto De Ruvo

Le parti non vivono isolate

di Mario Emanuele Fevola

Ogni tentativo di comprendere la coscienza si muove lungo una soglia instabile. In questo spazio liminale si dispiega la ricerca – antica e sempre rinnovata – di un linguaggio che sia capace di connettere la materia e la psiche, la percezione e il significato, la struttura e il vissuto.

Nel corso del XX secolo, due linee speculative apparentemente distanti si sono mosse in parallelo: da un lato, le scienze dure hanno progressivamente minato l’immagine deterministica della realtà, introducendo elementi di indeterminazione, coerenza non locale e simmetrie temporali invertite; dall’altro, la psicologia del profondo ha portato alla luce forme simboliche universali, strutture inconsce non riducibili né all’individuo né al presente, bensì radicate in una dimensione collettiva e transpersonale.

È nel punto di contatto tra queste due derive che si colloca la teoria della coscienza, nota come Orchestrated objective reduction (Orch OR), che ipotizza che il pensiero cosciente non emerga dalla dinamica neuronale classica fatta di scambi sinaptici e bioelettrici, ma da collassi quantistici non computazionali nei microtubuli neuronali. Si tratta di un modello che non solo scardina la metafisica meccanicista, ma apre la possibilità che la coscienza non sia derivata dalla materia, bensì co-originaria con essa. Il pensiero non è un effetto ma un evento. 

Parallelamente, Carl Gustav Jung e il fisico teorico Wolfgang Pauli, nel loro fitto epistolario, si interrogavano sulla natura del reale e sull’emergere dei significati non causali attraverso le sincronicità. Per entrambi, la realtà è strutturata anche semanticamente. Il concetto di archetipo – nella sua accezione più profonda – designa forme psico-energetiche universali, presenti non come rappresentazioni ma come strutture pre-formali, analoghe a potenzialità quantistiche in attesa di collasso.

«Tutto è vero e niente è vero.»Ingmar Bergman, Persona

Nel film Persona (1966), l’identità personale – persona, in senso etimologico – è trattata come una maschera (dal latino per-sonare, ciò che risuona attraverso): un’interfaccia fra interno ed esterno, un filtro. Ma nel momento in cui la maschera cede, ciò che emerge non è l’autenticità di un soggetto, ma un vuoto, una struttura in sovrapposizione. Il film non racconta, mette in atto un fenomeno: la soggettività come campo d’interferenza. L’io come evento quantico.

Elisabeth e Alma non sono due personaggi; sono due stati dell’essere, due possibilità della psiche che collassano l’una nell’altra. Si mette in scena un sistema in entanglement: i due soggetti, una volta interagito, non possono più essere descritti separatamente. L’identità è funzione della relazione.

Nel modello Orch OR, ogni collasso quantistico nei microtubuli comporta una scelta non computazionale tra diversi futuri possibili. Allo stesso modo, Persona esibisce biforcazioni ontologiche non risolte: lo spettatore non sa più chi parla, chi sogna, chi ricorda. Ogni scena è un’interferenza. La coscienza narrativa implode, sostituita da un evento affettivo. La pellicola stessa si brucia, si interrompe, mostra i margini della finzione. Siamo nello spazio dell’esperimento. 

A questo livello, la persona non è più soggetto psicologico, ma nodo dinamico, funzione di una topologia relazionale e transpersonale. Jung, in Tipi psicologici, parlava della persona come compromesso tra individuo e collettività, un adattamento necessario e, al tempo stesso, una potenziale trappola. Bergman la porta al limite, mostrandone la disintegrazione non come perdita, ma come condizione di accesso al campo originario.

Alma ed Elisabeth sono due configurazioni di una stessa funzione. La loro interazione collassa in una forma instabile, tragica, ma vera nel suo manifestarsi. Il trauma è il punto d’innesco di questa transizione di stato. La coscienza, in questa lettura, non è qualcosa che ha luogo, ma qualcosa che è luogo. È il punto in cui le maschere cadono, e ciò che resta non è il volto, ma la luce che lo attraversava. Alma ed Elisabeth sono modulazioni simboliche di un Sé che, esposto alla frattura, manifesta le proprie simmetrie interne.

Il fenomeno del doppelgänger, qui, non si riduce al doppio come minaccia o alter ego. Il doppio non è solo l’altro, è ciò che avviene quando il Sé si guarda dal punto di vista dell’Altro. È uno stato in cui l’identità non può più essere isolata. Alma, osservando Elisabeth, è gradualmente osservata da sé stessa in una forma nuova. Le due figure iniziano a condividere sogni, visioni, linguaggi, fino alla sovrapposizione facciale più radicale del film: un’immagine composita in cui i loro volti si fondono. Questa è una rappresentazione precisa dell’archetipo nella sua funzione bifronte: organizzatore e perturbatore dell’identità cosciente.L’inconscio appare, allora, non come archivio o stratificazione, ma come campo quantico. È uno spazio multidimensionale in cui gli stati psichici non sono localizzati, ma distribuiti; non determinati, ma probabilistici.

«Tutto ciò che avviene nel tempo, avviene anche fuori dal tempo.»
Carl Gustav Jung, Lettere a Pauli

Il tempo, in Persona, vibra, si interrompe, si sovrappone. Sequenze si ripetono, si fratturano, si guardano indietro. La narrazione lineare cede a favore di strutture circolari, temporaneamente sospese. Questo non è un espediente estetico, ma un’indicazione ontologica: il tempo vissuto nella coscienza profonda non è il tempo cronologico, bensì il tempo simbolico – multidirezionale, reversibile, stratificato.

Nella teoria quantistica, il tempo non è unidirezionale per definizione. Diversi modelli – da quello di Wheeler-Feynman a quello di Huw Price – ipotizzano che i fenomeni a livello quantistico possano ammettere retrocausalità: cioè che un evento futuro influenzi, in forma non classica, uno stato passato. È proprio questa possibilità che riapre la riflessione sul tempo psichico: se la coscienza è legata a processi quantistici non locali, è lecito pensare che anche la memoria, l’immaginazione, il trauma, non si distribuiscano lungo una linea, ma lungo un campo. 

In questa direzione si muove il concetto junghiano di sincronicità. Non si tratta di coincidenze casuali, ma di correlazioni significative tra eventi interni ed esterni, che non possono essere spiegate da una causa materiale, ma da un significato condiviso. Il tempo della sincronicità non è il tempo dell’orologio ma il tempo del senso. In Bergman, il tempo smette di misurare: diventa risonanza.

Nel contesto del film, l’apparizione ricorrente di immagini – il chiodo conficcato nel piede, il bambino che accarezza il volto sfocato – non è spiegabile nella cronologia dei fatti. Sono segni che appaiono come strani attrattori simbolici all’interno del campo psichico. Il trauma di Elisabeth – mai chiaramente detto – sembra attraversare Alma come probabilità, non come un ricordo. Ciò che avviene tra le due non è comunicazione, ma interferenza temporale.

Il recente esperimento citato nel Corriere della Sera (07/03/2025) fornisce un modello teorico a questa intuizione: la possibilità che particelle correlate restino legate anche quando una di esse «viaggia indietro nel tempo» apre la via a una psicologia in cui l’inconscio non è il passato, ma un altro modo del tempo. Non ciò che è stato rimosso, ma ciò che ancora sta accadendo, in un campo psico-fisico dove la freccia del tempo non ha direzione fissa.

Nella psicologia clinica, questo si manifesta come ricorsività simbolica: i sogni che precedono eventi, le emozioni che anticipano decisioni non ancora prese, le immagini che si impongono prima dei fatti. Il soggetto non narra cosa è successo, ma accede a configurazioni simboliche che stanno accadendo fuori dalla linea del tempo. In questa luce, il lavoro clinico non è ricostruzione, ma collasso: si osserva un campo di potenzialità e, attraverso il linguaggio, la relazione, l’ascolto, lo si fa collassare in nuove forme di senso.

Ogni parola detta – e ancor più quelle non dette –genera una traiettoria, modifica il campo. 

Il trauma si comporta come un’informazione quantistica non localizzata: attraversa il tempo, si distribuisce, ritorna, si manifesta in forma simbolica. Il tempo è un tempo deformato, dove il futuro agisce sul presente e il presente riscrive il passato.La sincronicità, allora, non è un’eccezione, ma la regola profonda di una psiche intesa come campo. Ogni incontro significativo, ogni immagine che si impone al soggetto, è potenzialmente un’espressione di questa logica: non causale, non arbitraria, ma significativa. L’ordine profondo della realtà, come suggerivano Jung e Pauli, non è fatto di materia o di mente, ma di senso.

«Io non so se quello che accade è accaduto davvero o l’ho solo sognato.»
Alma, Persona

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