di Mihnea Mihalache-Fiastru
Traduzione dal romeno di Clara Mitola

© Biagio Di Niquilo
Il racconto 8 gennaio 1999 è un estratto dalla raccolta di prose brevi Expres di Mihnea Mihalache-Fiastru edito nel 2019 da Curtea Veche Publishing, Bucarest e qui tradotto in italiano da Clara Mitola. Su In allarmata radura ne è già stato pubblicato qui un primo estratto, sempre tradotto da Clara Mitola. Purtroppo, nel febbraio 2025, l’autore è venuto a mancare. Il nostro modo di ricordarlo passa attraverso le sue parole.
D’inverno si fa buio pesto già alle 16:30 e rimane così fino alle 7:30 del mattino. Dopo che la città è stata abbandonata dai comunisti nel 1989, non si è occupato più nessuno delle sue notti. Le luci dei lampioni si sono fulminate una dopo l’altra. Prima, i bambini giocavano con gli slittini nei parchi bui, mentre i loro genitori se ne stavano tappati in casa. Adesso anche le lampadine dei portoni e delle scale dei palazzi si sono fulminate. Automobili brutte e vecchie riempiono i parcheggi intorno ai bloc, e ogni automobilista della città, il giorno dopo, al risveglio, si aspetta che la sua auto non parta più. O di non trovarla più. Alcuni si difendono dai ladri con allarmi cinesi e antifurto che legano il volante al pedale della frizione. Stupidaggini. Alle 22:30, i bambini sparano gli ultimi petardi. Poi tutto si ferma. Dai chioschi di lamiera i neon pulsano non-stop. Anche i negozianti si sono addormentati nel loro mondo senza speranza. I motori dei camion della spazzatura che passano di tanto in tanto, sono i soli a tenere la città viva fino all’alba.
Il pacchetto di gomme Wrigley’s scivola per circa 20 secondi sul bordo lungo e lucido del cruscotto, fino a raggiungere il margine destro e cadere accanto alla presa dell’aria condizionata, tra i piedi di Rățoi:
– Ecco qua, sono cadute pure le gomme, bravo il nostro autista di merda! scherza Rățoi e si piega a prendere il pacchetto, estrae una lamella, la scarta piano, ne morde una metà, riavvolge l’altra metà con cura e la rimette nel pacchetto che lancia di nuovo sul bordo del cruscotto, dove ricomincia a scivolare.
– Hai soldi addosso? chiede a Șevciuc, ma quello è già sudato e nervoso al volante.
– Per cosa? gli risponde.
– Beh, se questi stronzi ci beccano e non riusciamo a concludere.
– Ho 1700 o 1800 dollari e credo di avere anche 300 o 400 marchi in tasca, qui dietro. Stacca la mano sinistra dal volante e cerca di infilarla nella tasca posteriore dei pantaloni, ma ci rinuncia per paura che il volante gli sfugga, e lo riprende con entrambe le mani.
Sono le 2:10. Rățoi e Șevciuc sfrecciano sulla BMW 750i nera con targa diplomatica che hanno rubato dall’Ambasciata del Vietnam. A 220 km all’ora su piazza Obor. La macchina è stata in visita ufficiale, nel senso che non hanno fatto in tempo nemmeno a staccare le bandierine dal cofano. Rățoi aveva puntato da molto quell’auto e pianificava di rubarla. Ha dato dei soldi alle ragazze che battono sulla strada dell’Ambasciata del Vietnam per farsi avvisare quando l’auto fosse entrata nel cortile, per andare a prenderla se non la chiudevano da qualche altra parte. Si è fatto accompagnare da Șevciuc, uno dei migliori piloti della città, e vogliono fottere Murtaza, un trafficante arabo, prendergli i soldi e la droga e poi lasciare la macchina agli zingari, quelli ripuliscono il telaio e ci fanno quello che vogliono. Rățoi si becca circa 30 mila o 40 mila dollari se la cosa funziona.

© Biagio Di Niquilo
Dietro di loro, quattro Vento della stradale si tengono salde in linea retta e con tanto di sirene accese, e Șevciuc deve infilarsi in qualche stradina o fregarli su qualche curva stretta per toglierseli da dietro.
La paura di Rățoi è che, se la polizia dovesse raggiungerli, bloccarli e portarli in caserma, lui perderebbe i soldi, l’arabo e la macchina. Il padre di Rățoi è stato segretario di stato agli Interni e conosce molta gente in Romania e dintorni, ma ha sempre evitato le apparizioni pubbliche. Per un periodo, in città si diceva che Rățoi ti faceva uscire di galera per cento dollari. Se lo arrestano, ci rimarrà solo per qualche ora e Șevciuc per un giorno, fino a quando non tirerà fuori anche lui.
– Ehi, cerca nella giacca e dammi le pillole, gli dice Șevciuc ma Rățoi gli parla sopra.
– Vai sui binari del tram, mettiti tra i pali! Che pillole?
Rățoi si piega oltre il suo sedile e comincia frugare nella giacca di Șevciuc sul sedile posteriore, alla fine trova un flacone. Ha gli occhi puntati sul lunotto dell’auto:
– Questi ci stanno proprio attaccati, vai più veloce, maledetti bastardi!
– Oh, hai trovato le pillole?
Rățoi si risistema sul sedile anteriore e guarda il flacone da entrambi i lati:
– Che pillole sono?
– Xanax, però nuove e migliori, mi aiutano molto, mi calmano, dormo bene, non ho più pensieri. Dammene due!
– E perché le vuoi adesso?
– Per calmarmi, ragionare meglio e non pensare al peggio. Ora, ad esempio, ho voglia di schiantarmi contro un palo!
Șevciuc sterza bruscamente, prende una curva a 90 gradi ed entra sui binari del tram, tra i pali di alimentazione della corrente elettrica, tra i due sensi di circolazione dei tram.
Riduce la velocità a 180 e si lancia a zig-zag tra i pali piantati a 50 metri l’uno dall’altro.
– Sbrigati a darmi le piccole, che prendo in pieno un palo, cazzo!
Rățoi ride, prende due pillole dal flacone e gliele porge. Șevciuc butta la testa all’indietro e le ingoia.
– Prendo velocità, in fondo spengo i fari e ci infiliamo sotto il ponte, nel parcheggio della fabbrica di pane.

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Șevciuc proviene da una famiglia modesta, sua madre non ha più trovato lavoro dopo la Rivoluzione mentre il padre ripara televisori. Il suo unico vantaggio a questo mondo è stato abitare sempre in centro, nella metà di una vecchia casa assegnata alla sua famiglia dai comunisti. Șevciuc, nome proprio Marius ma tutti lo chiamavano per cognome, all’epoca di Ceaușescu ha frequentato la scuola in centro, dove ha conosciuto ragazzi che avevano genitori vicini al potere e che sono diventati imprenditori, politici e personaggi influenti dopo la caduta del comunismo. Șevciuc ha sempre cercato di essere come loro, senza capire che una cosa del genere fosse in sostanza impossibile, anche se i ragazzi del centro gli volevano bene e lo rispettavano. Ma fino a un certo punto. Esisteva un momento dopo il quale, Șevciuc diventava solo uno strumento nelle loro mani. Come per Rățoi adesso: non è che abbandonerebbe Șevciuc al commissariato se ci arrivassero, o che non l’aiuterebbe a ottenere una sentenza leggera ma, se le cose si mettessero male, se il padre di Rățoi scoprisse la sua amicizia con Șevciuc o se fosse necessario appellare ad altre persone, Rățoi rinuncerebbe subito a Șevciuc, che allora dovrebbe cavarsela da solo, in libertà o in galera. Șevciuc ha avuto richiami disciplinari in due licei, in nona e in decima classe, e poi è stato espulso definitivamente e ha rinunciato agli studi. Quando era piccolo, se ne stava col padre in giardino a riparare la Lada gialla che avevano, e a 12 anni ha iniziato anche a rubarla, la sera, quando il padre dormiva o beveva in casa. Molti ragazzi hanno imparato a guidare da Șevciuc e sempre lui è stato complice nei primi furti d’auto, quando i figli della nomenklatura cominciavano a rubare le auto dei loro stessi genitori e degli amici dei loro genitori. All’inizio degli anni ’90, Șevciuc aveva guidato Lada e Ferrari, Lincoln e Pontiac e tra il ’95 e il ’96 era stato il miglior pilota della banda di ladri delle auto di lusso, che alla fine di tutto erano rivendute agli zingari, i più esposti in assoluto. Molti dei ragazzi del gruppo rubavano automobili per divertimento, per fama ed esperienza. E nemmeno Rățoi aveva bisogno di soldi, rubava auto solo perché gli piaceva guadagnare, così come gli era stato insegnato a casa, che la cosa più importante è guadagnare. Non era però anche il caso di Șevciuc, che era ladro di mestiere e voleva fare soldi rubando. Lui era sempre stato un ragazzo privo di charme, che desiderava disperatamente accumulare cose. Adesso ha 21 anni. È un uomo robusto, perché ha fatto rugby da bambino, biondo, con gli occhi azzurri e la riga al lato, come i bagnini dei telefilm.

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Sono le 2:25 e mancano un paio minuti al ponte. Le auto della polizia sono piuttosto lontane, a circa 400 metri, e una ha anche forato in una buca tra le pietre del selciato:
– Spegni i fari, grida Rățoi.
Șevciuc esce dai binari del tram, spegne i fari, preme l’acceleratore in linea retta, ingrana la quinta. A 235 all’ora, solleva il piede dall’acceleratore e si butta completamente a destra, cerca di uscire dalla strada principale senza usare il freno, per far sparire la macchina senza lasciare tracce, perché la polizia dietro di loro creda abbiano preso il ponte o che ci siano passati sotto. Esce dalla strada principale, preme il pedale del freno, perché sono dietro un angolo e gli stop non si vedono, entrano nel cortile della fabbrica di pane e si fermano tra due camion. Guardano tra la cabina e il rimorchio di un camion cosa fa la polizia.
Murtaza ha finito Ingegneria edile nel ’91 e sempre da allora, dopo la Rivoluzione, si è fatto conoscere in città. Ha iniziato a vendere eroina e hashish nei dormitori studenteschi di Regie e Grozăvești. Ne sono morti tanti allora, nei primi anni ’90, con la roba di Murtaza, che si diceva fosse la migliore di Bucarest. Erano quasi tutti all’inizio, nessuno sapeva esattamente quanta farsene e come. Murtaza spiegava come fare, ma qualcuno non ascoltava o non capiva. E all’ospedale non sapevano che fare se arrivavi in overdose. Si è saputo presto di lui e ha iniziato a vendere anche ai vecchi consumatori, che si facevano già dall’epoca di Ceaușescu. Gli arabi importavano da molto tempo l’eroina in Romania, ma durante il comunismo esisteva un gruppo ristretto, selezionato e segreto di drogati. Non appena si facevano con la roba di Murtaza, abbandonavano le altre fonti e se lo tenevano stretto. Prima di compiere 20 anni, aveva all’attivo decine di migliaia di dollari in merce e ha iniziato ad assoldare venditori che spacciassero l’eroina per lui. All’epoca non erano apparse le biglie, Murtaza la dava in bustina. Vendeva bustine belle piene, mezzo grammo l’una. Se ti facevi per la prima volta e ti sparavi tutta la bustina in vena, era impossibile non andare in overdose, visto quant’era forte e quanta ce n’era in una dose. Negli studentati R2, R3 si vendeva solo la roba di Murtaza, costava 30.000 lei a dose e poteva mettere al tappeto quattro uomini. È arrivato in Romania nel 1986, suo padre ci era venuto all’inizio degli anni ’80, come ingegnere edile. Murtaza era iraniano ma quando si ubriacava oppure era fatto, cominciava a dire di essere persiano, che veniva dalla Persia. Suo padre si faceva da 25 anni e tramite lui era entrato in contatto con certi turchi che trasportavano la merce in Romania attraverso il passaggio doganale per gli ortaggi di Voluntari. Aveva sempre molto contante perché vendeva droga e così ha conosciuto un bel po’ di ragazzi che a casa avevano una situazione migliore della sua ma non avevano mai molto contante in tasca. Murtaza offriva sempre a tutti, e in quel modo si avvicinava a molte persone e ogni tanto prestava anche soldi. Così ha conosciuto Rățoi, Șevciuc e molti altri. Chi rimaneva senza soldi e aveva bisogno urgente di due, cinque, dieci mila dollari, li prendeva da Murtaza invece che dagli zingari, perché Murtaza non chiedeva gli interessi, anche se prestava soldi solo a persone che conosceva davvero oppure che voleva agganciare con uno scopo. Nel ’96 è riuscito a uscire completamente dal mercato della droga locale, ha lasciato il posto ad altri arabi che hanno iniziato a usare spacciatori zingari nei vari quartieri. Così è apparsa la prima eroina anche a Crangași, Ferentari, Dristor, all’inizio con pochi venditori. Murtaza è diventato trafficante internazionale ma non è mai uscito personalmente dalla Romania perché aveva paura, coordinava gli altri e qualche volta trasportava la merce per il paese. Prendeva la roba dai turchi e dai bulgari, a 8.000 dollari al kg e la rivendeva in Olanda a 25.000 dollari al kg.

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Murtaza però non era riuscito a entrare davvero nei giri locali che contano. Era conosciuto ma i ragazzi non lo rispettavano. Era un dritto e conosceva il mondo ma non era come loro. E visto che i rapporti erano quelli, a Rățoi è venuta l’idea di beccare Murtaza e mettere le mani sulla droga che diceva avrebbe avuto con sé quella notte.
Il suono delle sirene della polizia si disperde man mano che le auto scendono dal ponte e si dirigono verso l’uscita nord della città. È di nuovo buio pesto, da qualche parte in lontananza, sotto il ponte, si vedono le luci accese di un nuovo hotel. Il silenzio taglia come il gelo all’esterno e il freddo si sente ancora di più nel deserto in cui si sono fermati:
– Oh, accendi il motore! dice Rățoi, e Șevciuc è già con la mano sulla chiave.
Rățoi tira fuori dalla tasca sinistra del petto due sigari Puro e ne porge uno a Șevciuc:
– E ora dobbiamo solo prenderci la roba e che vada a farsi fottere l’arabo! Rățoi rompe con i denti la testa del sigaro e la sputa dal finestrino.
– Come, non hai preso un tagliasigari?! ironizza Șevciuc che, con il sigaro in bocca, fa inversione a fari spenti sotto il ponte e va dritto verso l’Ambasciata Cinese.
– Questo dove lo andiamo a pescare? domanda Șevciuc.
– Continua dritto e vedrai che appare, vai verso la Televisione!
– Ma come, non sai dov’è?! E se non viene?!
– Tu vai dritto e non rompermi i coglioni! Rățoi gli risponde guardando da un’altra parte, con la testa piegata verso il finestrino per sentire le sirene.

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L’ultima volta ha nevicato a metà dicembre, ma da allora ha fatto talmente freddo che sono rimasti ammassi di neve solida ai margini delle strade, agli ingressi dei parchi o agli angoli degli incroci. Sono mucchi di neve annerita dal fango, dai tubi di scappamento. Qua e là puoi scorgere una Dacia, una Espero o una Cielo parcheggiate sotto cumuli di neve, macchine che nessuno ha liberato dai resti dell’ultima nevicata. Fuori c’è un odore freddo che t’incolla le narici e ti dà la sensazione di essere in una città molto più fresca e pulita di quella che vedi guardandoti intorno. Se chiudessi gli occhi, potresti pensare di esserti teletrasportato.
Durante la notte, sulle pietre del selciato si è depositato uno strato di fanghiglia che le fa brillare nella luce gialla dei semafori, diventati intermittenti. A una velocità eccessiva la macchina potrebbe essere difficile da controllare. Rățoi e Șevciuc procedono a luci spente, a circa 60 km all’ora. L’incrocio di fronte a loro è attraversato a tutta velocità da una Mercedes CLK 320 argentata.
– Eccolo il figlio di puttana, seguilo! dice Rățoi.
Sono le 2:57.
Șevciuc accende i fari, preme sull’acceleratore, entra nella curva dell’incrocio con il freno a mano tirato e lascia che l’automobile di due tonnellate scivoli sulla fanghiglia del selciato, fino a rientrare sulla strada in linea retta.
– Vagli addosso ora, spingilo contro un palo!
Șevciuc arriva alle spalle di Murtaza a 160 km l’ora e attraversano gli incroci successivi uno dietro l’altro.
– Accendi gli abbaglianti! dice Rățoi mentre si allunga di nuovo verso i sedili posteriori e tira fuori dalla tasca della giacca di pelle Versace una vecchia ricetrasmittente Kenwood.
– Affiancalo, continua Rățoi e apre il finestrino, mentre Șevciuc si sposta a sinistra per superare Murtaza.
Rățoi infila un passamontagna e si sporge dal finestrino con la ricetrasmittente in mano, muovendo il braccio su e giù:
– Accosta! dice a Murtaza mentre Șevciuc lo supera e frena bruscamente, e Murtaza alla fine si ferma.
– Andiamo a prenderlo! dice Rățoi ed estrae dalla tasca una pistola Carpazi argentata. Șevciuc infila anche lui il passamontagna, scende dall’auto e dalla tasca posteriore dei pantaloni tira fuori un paio di manette.
– Scendi, bastardo! grida Rățoi con la pistola puntata contro Murtaza.
Le auto sono ferme a circa 15 metri l’una dall’altra, di fronte a un liceo.
– Te ne pianto uno in mezzo agli occhi, ci puoi giurare! continua Rățoi e si avvicina alla macchina di Murtaza, che scende con il portafogli in mano.
Șevciuc lo colpisce sul portafogli, che cade al suolo, e poi entrambi lo afferrano per le braccia e lo incollano alla portiera aperta. Rățoi entra in macchina e apre il portabagagli, mentre Șevciuc ammanetta Murtaza con le mani dietro la schiena. Poi raggiunge la parte posteriore dell’auto e nel portabagagli trova un borsone Asos. Lo apre e all’interno ci sono molti pacchetti avvolti in molto scotch. Rățoi chiude la cerniera e porta il borsone nella loro auto, sui sedili posteriori. Torna indietro, afferra per le braccia Murtaza che solo adesso inizia a chiamare aiuto con quanto fiato ha in corpo, ma Șevciuc lo prende per il collo, gli sferra qualche pugno, lo stringe alla gola quanto basta per farlo smettere di gridare e lo spinge all’interno del portabagagli. Sbattono il portellone del portabagagli e fuggono alla loro auto. Chiudono gli sportelli e partono a fari spenti. Scompaiono nel buio.
Qualche decina di secondi più tardi non si sente più il suono di nessun motore per la città. Di fronte al liceo c’è una Mercedes ferma di traverso sulla corsia di destra, con i fari accesi e lo sportello del guidatore aperto, che ondeggia seguendo i movimenti di Murtaza nel portabagagli.
Sono le 3:22.
Pochi metri più avanti, sull’asfalto, il portafogli è rimasto aperto.
Mihnea Mihalache-Fiastru (1982 – 2025) ha portato a termine la facoltà di psicologia e ha vissuto e lavorato a Bucarest. È stato giornalista dal 2002 al 2011, e tra il 2012 e il 2016 ha pubblicato saggi per riviste e giornali culturali (District 40 e Dilema Veche) e piattaforme online (Sub25, Scena9). Ha inoltre avviato un progetto di antropologia video sulle piscine all’aperto di Bucarest, dal periodo interbellico ad oggi (Ștrăndooț) e una serie di docu-ficion online (Șușanele), proiettata in numerose gallerie d’arte e spazi culturali. Nel 2018 ha pubblicato Tecnologia dell’Esposizione Universale (Tehnologia Expunerii Universale, Ed. frACTalia, Bucarest 2018), sugli empori di Bucarest alla fine degli anni ’80 visti dalla prospettiva di un bambino che soffre di una sindrome ossessiva non diagnosticata.
Clara Mitola (1979) è traduttrice letteraria dal romeno, appassionata di lingue flessive e agglutinanti, poesia e prosa breve. È anche un’immigrata in controtendenza e dal 2010 vive a Bucarest, città ancora sorprendente. Ha tradotto e pubblicato l’opera di alcuni poeti romeni contemporanei come Mariana Marin, Ioan Es. Pop e Virgil Mazilescu, un romanzo dello scrittore moldavo Dumitru Crudu e saggi degli storici Neagu Djuvara e Lucian Boia. Ha inoltre debuttato come autrice di versi in lingua romena all’interno di una raccolta di poesia ecologica.






Quando, dalla fine del diciottesimo secolo, fa il suo ingresso nel sistema dei trasporti il treno emerge un nuovo luogo: la stazione. La stazione irrompe nel paesaggio urbano senza preavviso, imponendo la necessità di sviluppare da zero una tipologia architettonica prima assente la cui peculiarità risiede nel fatto di essere struttura fisica e contenitore di tempo.
La velocità, elemento centrale delle nuove reti ferroviarie, non è solo innovazione tecnologica ma trasformazione relazionale; per la prima volta le partenze, gli scambi, i ritorni, gli abbracci e i saluti diventano pubblici, questione condivisa, non c’è possibilità di ripensamento – un addio prolungato o posticipato – e all’aleatorio si sostituisce il rituale della pianificazione oraria.
I primi a intuire la portata dello stravolgimento sono gli artisti che trasformano il fenomeno del viaggio in materiale iconografico: ferrovie e treni si moltiplicano in pittura, dall’impressionismo al futurismo, diventano simboli di una modernità carica di promesse e paure mentre l’immagine della stazione dà forma al cambiamento: il tempo del viaggio diventa spazio del viaggio.
La serie fotografica di Biagio Di Niquilo affronta il tema a partire dalla frattura, ponendo al centro dell’indagine la dualità attesa/movimento. Bianco e nero si rincorrono, cercano un equilibrio, danzano sul filo della percezione mantenendo sempre intatta la distanza dal limite: il reale che, con l’aumentare della velocità, si mostra nella sua natura ambigua di evanescenza. Le traiettorie tracciate dai binari, immobili in stazione, si trasformano in margine sfuggente quando catturate dal vetro del finestrino. Il panorama industriale muta in paesaggio e fa il suo ingresso la natura: alberi spogli, campi a maggese, sagome in controluce di fattorie e case cantonali. Ciò che prima era notte si rivela nel primo grigio dell’alba, in un tempo che viene impresso sulla pellicola nel suo scorrere, come avveniva nei dagherrotipi. La velocità non anticipa ma porta indietro, srotola il piano sequenza del linguaggio cinematografico e lo fissa nello scatto. Un contropiede continuo nel gioco di luci e ombre della fotografia.
Livia Del Gaudio
Biagio Di Niquilo. Docente di fotografia e tecniche fotografiche presso un Istituto d’istruzione superiore e presso l’Accademia di Belle Arti di Cuneo, è fotografo professionista da più di trent’anni con orientamento prevalente sulla fotografia pubblicitaria, industriale ed editoriale. Con le sue fotografie ha contribuito alla realizzazione di libri, cataloghi aziendali, locandine, manifesti e pagine pubblicitarie. L’ultimo libro dal titolo Simmetrie-Torino tra storie e prospettive è stato pubblicato nel 2023. L’ultima mostra bipersonale dal titolo “GESSI PROFUMI E ROTAIE” patrocinata dalla Città di Savigliano è stata realizzata a settembre del 2024. Attualmente, oltre all’insegnamento, l’attività fotografica riguarda principalmente sperimentazioni e ricerche personali.