di Federico Spagnoli

© Giada Badari
Un aeroplano effettua un atterraggio d’emergenza nel bel mezzo del Sahara. Forse un’avaria del motore. Il pilota ha acqua da bere soltanto per una settimana. La prima notte la passa da solo, «a mille miglia da qualsiasi abitazione umana»1. Lo sveglia una voce, anzi, una vocetta, per rimanere nel lessico del narratore.
«Mi disegni, per favore, una pecora?»2
Inizia così una delle storie più celebri di tutti i tempi, con un bambino di – presumibilmente – sei anni che domanda, in tutta serietà, a un pilota di aeroplani bloccato nel bel mezzo del deserto di disegnargli una pecora. L’uomo improvvisamente ricorda l’avversione degli adulti per i suoi disegni infantili – serpenti boa visti dall’esterno, serpenti boa visti dall’interno – ma fa comunque un tentativo. La prima è troppo magra. La seconda ha le corna, somiglia più a un ariete. La terza sembra troppo vecchia e trasandata. E allora il quarto disegno è una scatola con tre buchi.
«Questa è la sua casetta. La pecora che volevi sta dentro.»
«Avrà bisogno di molta erba? Dove vivo io è tutto molto piccolo.»
«Ce ne sarà a sufficienza, è molto piccola la pecora che ti ho dato.»
Il bambino si china sul disegno della scatola.
«Oh, guarda! Si è messa a dormire.»3
«Io credo che egli approfittò, per venirsene via, di una migrazione di uccelli selvatici.»4

© Giada Badari
Per capire la sottostruttura de Il piccolo principe è necessario individuare la coppia di equilibri – perfettamente paralleli – su cui si basa la vita del bambino. Va detto innanzitutto che il narratore della storia è in realtà il pilota adulto, il quale racconta la vicenda del fantomatico incontro sei anni dopo i fatti narrati.
Il racconto inizia con una netta secessione ideologica dal mondo degli adulti, al quale, suo malgrado, è finito per appartenere; a soli sei anni – l’età del bambino che incontrerà nel deserto – il pilota ha preso una decisione da adulto e ha scelto a malincuore di rinunciare alla sua vocazione di artista per dedicarsi alla carriera da aviatore. Ma il destino non è qualcosa che puoi accartocciare e lanciare nel bidone, perché svelto finirà per accorgersene e in volo si trasformerà in un aeroplanino che ti atterrerà nuovamente davanti. E il bambino che il pilota era un tempo ritorna, proprio nel momento del bisogno, anche se in principio sembra più preoccupato per sé stesso che per le condizioni dell’uomo: va difatti tenuto a mente il fatto che l’acqua scarseggia e il caldo è insopportabile, ma la priorità del bambino rimane l’ottenimento della sua pecora. Viene chiamato principe per semplicità, ma il bambino racconta di essere un vero e proprio principe reggente, siccome governa un asteroide tutto suo. Ecco che riaffiora il primo tratto in comune tra l’aviatore e il piccolo principe: la responsabilità. L’asteroide non è molto grande, ma è piuttosto fecondo e sulla sua superficie crescono erbe buone e cattive; è dovere del regnante cercare di estirpare alla radice i semi dei baobab, che altrimenti, una volta cresciuti, finirebbero per soffocarne l’intera casa. Il principe offre subito un’enorme lezione al suo nuovo amico, ed è quella di affrontare i problemi agendo sulla loro radice, cercando sempre di anticipare un possibile peggioramento della situazione. Il pilota, inconsapevolmente, ha già ricambiato l’insegnamento del bambino, e lo ha fatto proprio attraverso il disegno della pecora. A cosa serve? Le pecore mangiano gli arbusti, e la pecora che l’uomo ha disegnato – non appena si risveglierà dal pisolino all’interno della scatola – procederà a divorare i baobab in procinto di crescere. È bene anche sapere che l’asteroide del principe non è piccolo, ma piccolissimo: basti pensare che una volta il bambino si era annoiato a tal punto da sedersi a guardare il tramonto, per poi voltare la sedia dall’altra parte, non appena finito, per guardarselo di nuovo. E così via, per quarantatré volte.
A cosa si deve la malinconia del piccolo principe? Lui stesso, quando l’aviatore glielo domanda, non risponde.
Tuttavia, basta poco per ricordare che le pene dell’amore colpiscono tutti, anche gli individui più puri, e che lo stesso principe non ne è esente. Il suo rapporto con la rosa spinata diventa sempre più teso e conflittuale man mano che fa sua la narrazione, ed è proprio attraverso questa sofferenza limpida che riusciamo a individuare il primo dei nostri due equilibri. La sua rosa è bella, bellissima, ma anche esigente e vanitosa; ecco perché il piccolo principe deve stare molto attento a proteggerla dai pericoli, coprendola con il paravento quando ci sono le correnti d’aria, tenendo a distanza la bocca della pecora – che seguendo il proprio istinto riesce a trascendere l’estetica, e poi le spine inoffensive del fiore – e innaffiandola puntualmente, giorno dopo giorno. Ma bisogna stare molto attenti quando ci si prende cura di ciò che si ama: perché il rischio di esagerare con le premure e le protezioni è alto, e nel tentativo di proteggere la rosa dal vento si potrebbe finire per soffocarla sotto una campana di vetro. Questo equilibrio sottilissimo pulsa nella testa del principe, il quale, un giorno, non riesce più a resistervi e decide di alzarsi in piedi e cercare di allargare – anche soltanto di pochi passi – il perimetro del proprio orizzonte. È per questo motivo che viaggia di asteroide in asteroide in cerca di risposte, in cerca di una soluzione che i sei iperbolici sovrani che incontra non sembrano essere in grado di potergli offrire. E prima o poi tocca anche alla Terra. Bisogna sapere che il piccolo principe era già da tempo sul nostro pianeta: il rapporto con la rosa sembrava prossimo alla rottura e, giungendo sulla Terra, il principe aveva notato un campo sterminato di rose, tutte identiche alla sua. Rimuginando dunque sul proprio concetto di speciale, il bambino era finito per incontrare la Volpe, che gli aveva impartito quello che forse è il più celebre insegnamento del libro.
«Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi. È il tempo che hai speso per la tua rosa a rendere la tua rosa tanto speciale.»5

© Giada Badari
Arriva quindi al cospetto dell’aviatore con la saggezza necessaria per fare ritorno al proprio asteroide e riassestare il primo equilibrio della propria vita. La riparazione dell’aeroplano prosegue, il pilota sa il fatto suo, ma allo stesso tempo non vuole abbandonare il suo piccolo amico, il quale, tuttavia, lo rassicura. Anche lui tornerà a casa, basterà soltanto il morso del Serpente, e un atto di fede nel proprio amore. Quando si ama veramente qualcosa si diventa un tutt’uno con essa, e si riesce a dividere la forma dall’essenza. È la nostalgia di casa, della propria rosa, a convincere il piccolo principe a farsi mordere dal Serpente; colui che risolve tutti gli enigmi. Ed è la comprensione del secondo equilibrio, rimasto sullo sfondo per tutto questo tempo, a riportare il bambino a una dimensione terrena: la sua sofferenza e la sua malinconia sono dovute alla troppa attenzione rivolta alle minacce esterne, lassi di tempo che, se destinati al combattimento di ciò che spaventa, vengono sottratti a ciò che invece si ama. Si lotta per difendere il proprio amore – la propria rosa – ma il piccolo principe è come noi, non è onnipotente, né onnisciente, né onnipresente – lo diventerà – e il tempo che passa sul fronte a estirpare i germogli dei baobab o a cercare risposte sugli asteroidi vicini o lontani, lo toglie alla propria rosa, che finisce per essere minacciata dall’assenza di chi è lontano per proteggerla. Nel combattere troppo a lungo le minacce, si diventa la minaccia stessa, in particolar modo quando il proprio amore è destinato a qualcosa di eteronomo, il quale trova nella negligenza di chi lo protegge il più grande pericolo che possa palesarsi. Ma l’amore del bambino è puro, incrollabile, e la fede nella propria rosa non vacilla un secondo. Sa che resisterà a tutto durante la sua assenza, perché sa che è in viaggio soltanto per lei. Ecco perché non tentenna nel farsi mordere dal Serpente, crollando a terra senza fare alcun rumore. Muore la sua forma, nei panni del piccolo principe amico dell’aviatore, che assiste attonito alla scena; ma la sua essenza, divenendo, attraverso il suo amore, un tutt’uno con la rosa, è tornata a casa.
Il giorno dopo il corpo del bambino non sarà più disteso sulla sabbia. L’aeroplano sarà riparato e l’aviatore sei anni dopo potrà godersi e finalmente comprendere il vero regalo del principe.

© Giada Badari
«Gli uomini hanno delle stelle che non sono le stesse. Per coloro che viaggiano le stelle sono guide. Per altri sono soltanto piccole luci. Per i sapienti sono problemi e per l’uomo d’affari che ho conosciuto sono oro. Ma tutte queste stelle sono zitte, e tu, amico mio, avrai delle stelle come nessuno ha. Quando guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò una di esse, visto che io riderò sopra una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. E quando ti sarai consolato (ci si consola sempre), allora sarai contento di avermi conosciuto. Sarai per sempre mio amico. Avrai voglia di ridere con me. E aprirai la finestra, e i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere guardando il cielo, e ti crederanno pazzo. Sarà come se t’avessi dato, invece delle stelle, un mucchio di sonagli che sanno ridere.»6
Ed è guardando le stelle che l’aviatore ripensa al suo incontro con il piccolo principe, e capisce che la vera vita la si ottiene legandosi alle cose – addomesticandole e facendosi addomesticare, direbbe la Volpe – creando rapporti costruiti sul mutuo interesse nel fare del bene all’altro, cercando di preservare i due equilibri che l’intera vicenda nasconde sotto le spoglie di fiaba illustrata ad acquerelli e che, invece, attraverso l’atto di coraggio e di fede di un bambino nei confronti del proprio amore, rappresentano l’esatta certezza che in un mondo come il nostro ci sia soltanto un modo per non morire. E sia questo.
Editing di Viola Carrara
Federico Spagnoli, nato nel 2004, è redattore del blog letterario “Metamorfosi” su quodnews.com. Recentemente ha pubblicato un romanzo (La famiglia Schmidt, ed Dialoghi) presentato a Imola insieme a Vanni Santoni, e contributi su “Il Nuovo Diario Messaggero” e la rivista downtobaker.com.




Proteggere la rosa, è questo quello che vuole il piccolo principe protagonista della favola di Antoine de Saint-Exupéry. Ma trovare una forma di protezione che sia cura e libertà insieme non è semplice: il tranello del sacrificio è ovunque, e la bilancia non è mai in equilibrio.
La fotografia di Giada Badari cerca di fermare un’immagine che dia nuovo senso al termine protezione.
Il modello al centro del racconto fotografico si sviluppa a partire dalla fiaba proiettandola nel futuro: divenuto adulto il principe vive assieme alla sua rosa, la tiene intrecciata agli occhiali, la porta impressa sul corpo sotto forma di tatuaggi. La soluzione è la fusione simbiotica? L’immagine traccia una rotta diversa.
Nello spazio dello scatto, rosa e principe diventano la stessa cosa; ma l’impressione su pellicola libera dalla condanna dell’Uno che, per proteggere, soffoca. L’immagine diventa esorcismo e rito, conferisce identità distinta a uomo e rosa, li pone in dialogo preservandone l’alterità. Facendo il fiore a pezzi il principe si libera dal giogo della cura senza annientare la rosa che torna integra nella fotografia successiva. Il bianco e nero, lo sfumato dell’ombra proiettano la fotografia nello spazio della pittura dove la descrizione dell’attimo ha senso solo come rielaborazione mnemonica: un ricordo fantasmatico dove tutto esiste senza aspirare alla realtà.
Livia Del Gaudio
Giada Badari è nata in un paesino dell’Emilia Romagna, più precisamente Correggio. La fotografia è entrata nella sua vita nel 2016, quando ha preso parte a uno shooting come modella. Ha cominciato a scattare tramite una digitale, una Nikon D3000, tra il 2022 e il 2023. Ha cominciato a scattare sempre più persone e volti e continua ancora oggi, a dividersi tra modella e fotografa, scattando prevalentemente in analogico e Polaroid. Ha frequentato un corso a Bazzano, nello studio Pelloni, per le Reflex. Ha preso parte a diverse fanzine (Porcherie – Spytt – Underground – Seduce me) e a un paio di mostre (Uncensored – ISO600 – Spazio Arteria). Nella fotografia cerca di raccontare un mondo in costante mutamento, dove la bellezza fuoriesce, non può rimanere dentro alle righe di un quaderno.