di Fiorella Malchiodi Albedi

© La preda, still da performance, Monica Marioni
L’inizio
È un pomeriggio di febbraio, nel laboratorio di microscopia elettronica di Saclay. Sono sola nella stanza delle preparazioni, alle prese con l’operazione molto delicata di colorare le sezioni di tessuto incluso in resina epossidica. Ho foderato con il parafilm una piastra di Petri e vi ho fatto cadere le gocce della soluzione colorante, alternate a quelle di tampone. Poi con una pinzetta minuscola ho preso le griglie, i microscopici coriandoli traforati su cui si fanno aderire le sezioni, e le ho appoggiate sulle gocce di colorante. Punto il timer, aspetterò che suoni e poi le sciacquerò nel tampone. Il lavoro in laboratorio è fatto anche, forse soprattutto, di attese. Nel frattempo, forse leggo un articolo, o guardo fuori dalla finestra, non ricordo. Ma d’un tratto il mio ozio s’interrompe, perché vengo folgorata da un’emozione intensa, che non ho mai provato prima. In una successione rapidissima, vedo scorrere davanti ai miei occhi tutti i singoli avvenimenti del presente e del passato, della mia vita e di quella dell’universo (o almeno penso di vederli) e scopro che c’è un collegamento tra di essi, che io riesco a capire a pieno: formano una geometria perfetta, io posso distinguerla nei minimi dettagli e mi abbaglia per la sua evidenza. Credo, d’un tratto e con certezza, di cogliere il senso della vita. È una comprensione ingannevole, è ovvio: ho solo il miraggio di vedere uno schema che non esiste. Ma ciò che è davvero sorprendente è che l’illusione si accompagna a una gioia infinita, difficile da spiegare. La sensazione psichica più intensa e bella mai avvertita, una sorta di estasi. Una vera illuminazione.
È durata pochi secondi, poi il nulla. Ho ripreso conoscenza solo nel corridoio dell’ospedale dove mi stavano ricoverando: mi avevano trovata a terra, priva di sensi. Nessuno aveva assistito al mio svenimento e quindi non si sapeva se avevo avuto convulsioni, ma il racconto di ciò che avevo provato suggeriva una diagnosi di epilessia. E in particolare di epilessia del lobo temporale, che si associa ad “aure” simili a quelle che avevo descritto1 2. Per “aura” i medici intendono l’insieme di sintomi che costituisce la fase iniziale di una crisi epilettica e che si manifesta subito prima delle convulsioni. Può interessare la sfera cognitiva, affettiva, psicosensoriale o psicomotoria. L’aura dell’epilessia temporale è spesso ricca di contenuti emozionali.
Sono rimasta ricoverata per un paio di giorni: la sera ho telefonato a Paolo, il mio compagno dell’epoca, rimasto in Italia, per raccontargli quello che era successo. Me lo sono visto arrivare a Parigi il giorno dopo, preoccupato sia per il fatto in sé (un attacco epilettico può essere sintomo di una malattia seria, come un tumore intracranico), sia per un certo tono leggero con cui gli avevo parlato, come se non mi rendessi bene conto della gravità della situazione. Ma io ne ero conscia, eppure come postumo della crisi avvertivo un’insolita pace, un certo ottimismo, e ricordo la permanenza in ospedale come un intervallo di irragionevole benessere.
Mi hanno rimandata a casa senza terapia perché l’elettroencefalogramma non risultava diagnostico e la TAC non rivelava alcuna lesione. Di lì a poco sono tornata a Roma. Ero sempre più convinta che fosse epilessia, anche perché avevo altri sintomi meno eclatanti, ma altrettanto caratteristici, che erano cominciati prima della crisi conclamata, ma a cui io non avevo prestato attenzione. Uno erano i déjà vu3, la sensazione di aver già vissuto l’attimo che stai vivendo, pur nella consapevolezza che la memoria è ingannevole: sai bene che quello che ricordi non è mai avvenuto. L’altro era quello che io chiamavo “il pensiero dominante”: un’idea che all’improvviso ti invade la mente. È una percezione particolare: sei impegnata in una qualunque, normale attività, fisica o mentale, ed ecco che arriva un pensiero prepotente che si impossessa delle tue facoltà cognitive e ti blocca ogni altra forma di ideazione, come un’entità aliena che prende il controllo del tuo cervello4.
1 https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/e/epilessia#sintomi 2 Temporal lobe epilepsy: origin and significance of simple and complex auras. D C Taylor and M Lochery. J Neurol Neurosurg Psychiatry.1987 Jun; 50(6): 673–681. 3 What déjà vu and the "dreamy state" tell us about episodic memory networks. Gillinder L, Liegeois-Chauvel C, Chauvel P. Clin Neurophysiol. 2022 Apr;136:173-181. 4 Temporal Seizure. McIntosh WC, Das JM. Treasure Island (FL): StatPearls Publishing; 2023 Jan.

© Lo scarto, still da performance, Monica Marioni
I miei rimasero solo sospetti finché non ho avuto una nuova crisi. Questa volta di notte, nel sonno, e in presenza di Paolo, mi dispiace ancora per lui: una crisi epilettica non è un bello spettacolo. Anche lui, patologo come me, mi ha confermato che sì, era chiaro che soffrissi di epilessia.
Ed ecco che da medico mi trovo a essere una paziente affetta da una malattia importante. Lo sdoppiamento che tutti i medici, prima o poi, si trovano ad affrontare: un attimo prima sei quella che legge la descrizione dei sintomi in un libro, un attimo dopo quella che manifesta i sintomi. Non vivevo quell’ambiguità con malessere. In realtà, già da tempo avevo capito che mi trovavo molto più a mio agio nel ruolo del malato, che in quello del clinico: il carico di responsabilità, ne ero sempre più convinta, era per me troppo gravoso. E poi la mia non era una patologia banale, era una “signora” malattia, con un retroterra storico (quanti personaggi famosi hanno avuto l’epilessia! Alessandro Magno, Giulio Cesare, Giovanna D’arco…) e soprattutto oggetto di tante descrizioni letterarie. È stato in quel periodo che sono andata a ricercare i brani in cui Dostoevskij descrive le aure delle crisi epilettiche ne L’idiota. «Pensò, fra l’altre cose, che nei suoi stati epilettici c’era una fase che precedeva quasi immediatamente l’accesso (se l’accesso lo coglieva nella veglia) in cui, frammezzo alla tristezza, al buio dell’anima e all’oppressione, il suo cervello pareva a tratti infiammarsi e tutte le sue forze vitali si tendevano di colpo con impeto eccezionale. Il senso della vita, dell’autocoscienza si decuplicava quasi in quegli istanti, rapidi come lampi. La mente e il cuore s’illuminavano di una luce straordinaria: tutte le ansie, tutte le inquietudini, tutti i dubbi sembravano placarsi all’improvviso e risolversi in una calma suprema, piena di limpida, armoniosa gioia e speranza, piena d’intelligenza e pregna di finalità5».
Non c’erano dubbi: lo stato descritto somigliava molto all’esperienza che avevo vissuto io.
5 Fiodor Dostoevskij, L’idiota, traduzione dal russo di Alfredo Polledro, Biblioteca Moderna Mondadori, I Edizione, 1959, p.314.
La terapia
La crisi in presenza di Paolo segna l’inizio ufficiale della mia malattia, che ora ha un nome e un cognome: epilessia del lobo temporale. Da quel momento la mia storia clinica prosegue movimentata così come è stata all’inizio, un po’ per il caso, un po’ per le mie scelte avventate.
Il farmaco che mi era stato prescritto era una carbamazepina, una molecola con un’emivita molto breve: veniva rapidamente metabolizzata e rimaneva in circolo per poco tempo. Per questo motivo dovevo prendere tre compresse al giorno: molto seccante!
«Dai fermati a pranzo!»
«Non posso, non ho dietro la medicina.»
«E che vuoi che sia? La prendi stasera.»
A volte mi sono fatta convincere, e poi sono stata con l’ansia che mi prendesse una crisi, magari a casa dell’amica gentile che mi aveva invitato.
Oppure mi capitava di dimenticare le festività in arrivo, le dosi che avevo erano insufficienti e non potevo chiedere una nuova ricetta: di nuovo, grandi apprensioni. Però i sintomi erano scomparsi e quindi mi preparavo, abbastanza infastidita, a una vita scandita dalle tre compresse quotidiane.
Ma non è andata così.
Una mattina – ero ormai in terapia da qualche mese – mi sveglio con una dolorosa spossatezza; mi tocco la fronte, brucia; in bagno, davanti allo specchio, mi prende un colpo: ho le sclere gialle. Febbre, malessere, ittero: non ci vuole un gran clinico per fare una diagnosi di epatite.
Subito accuso il malefico farmaco, la cui tossicità per il fegato è nota.
Ma per averne la certezza ci voleva tempo e io mi sentivo davvero male. Così sono andata al Pronto Soccorso e da lì mi hanno ricoverato nel reparto di Malattie Infettive.
Mi avevano sospeso la carbamazepina, in attesa di sapere se fosse responsabile dell’epatite. E così dovevo passare ai barbiturici, la terapia più comune per qualunque tipo di epilessia. Ma io i barbiturici non volevo prenderli. «Danno assuefazione» sostenevo. È vero: un’astinenza da barbiturici può avere effetti collaterali importanti e addirittura mettere a rischio la vita. Ma perché avrei dovuto interromperli? Pensavo di poter guarire? L’epilessia è una malattia cronica, a meno di non poter rimuovere il focus epilettogeno – non era il mio caso – quindi qualunque farmaco mi avessero prescritto l’avrei dovuto prendere per tutta la vita. Il mio timore dell’assuefazione era del tutto irragionevole. Mi capita spesso di intestardirmi per motivi che, a posteriori, mi sembrano incomprensibili; sono puntigli inoffensivi, ma a volte, come in questo caso, più rischiosi, anche se per fortuna, finora, non hanno creato gravi conseguenze. E poi c’è il fatto che noi medici dovremmo evitare di curare noi stessi. Siamo abituati a tenere nelle mani il destino delle persone e questo dà un senso di potere di cui non ci rendiamo conto. Ovviamente è temperato dal nostro principale interesse, che è il benessere del paziente, e quindi mai ci avventureremmo a sperimentare qualche terapia che non sia prescritta dalle buone norme per la pratica clinica. O almeno è quello che in genere accade. Ma se il paziente siamo noi stessi, i sacrosanti scrupoli perdono valore: su di noi ci sentiamo liberi di esercitare il nostro potere senza remore e di seguire le idee meno ortodosse, se in quel momento ci sembrano ragionevoli. E così la sera arrivava l’infermiera con la bustina di fenobarbital, io aspettavo che uscisse e poi, diligentemente, la scioglievo nel lavandino. In ospedale non solo non ho avuto crisi, ma neanche gli altri sintomi che ormai avevo imparato a riconoscere. Tornata a casa, ho deciso che avrei ripreso la terapia solo se fossero tornati i segnali di allarme. Per inciso, l’epatite era di tipo A, presa per aver mangiato cozze cucinate male.
Sono andata avanti così per diversi anni, sette, se non otto, in completo benessere. L’“amica” epilessia sembrava essere scomparsa. Rimaneva il ricordo della magica esperienza, ma lo ritenevo un capitolo chiuso, un episodio da raccontare agli amici più cari, a cui pensare quasi con nostalgia.

© Gaslighting, still da performance, Monica Marioni
E poi una notte d’estate, in vacanza a Boston, è tornata a trovarmi. Di nuovo una crisi nel cuore della notte, di nuovo in presenza di una persona. Il povero Ned, fisico che studiava i raggi cosmici, impreparato, si è preso un bell’accidenti (la crisi epilettica a volte comincia con un urlo), e di nuovo mi sono svegliata in ospedale. Tornata in Italia, ho messo la testa a posto e ho cominciato la terapia con i barbiturici. Da allora non ho più smesso, anche se di decisioni incaute ne ho prese. Come durante la vacanza sul Mar Rosso. Ero lì con alcune amiche; all’arrivo in albergo, scorgo la pubblicità di un breve corso da sub che sarebbe cominciato il giorno dopo. «Fantastico!» mi dico. Da sempre sognavo di fare quell’esperienza. Così, senza rifletterci, mi iscrivo e pago. «Bene» mi dice l’impiegato. «Domattina, per prima cosa, la visita medica.» Ops! Finalmente mi viene il sospetto che l’aumento della pressione, a cui sarà sottoposta la mia povera testolina scombinata, possa abbassare la soglia convulsivante. Il giorno dopo, il questionario da riempire fuga ogni dubbio: “Soffre di epilessia?”; “Ha mai avuto attacchi epilettici?”; “È in cura con farmaci anticonvulsivanti?”. Non ho tentennato per un solo istante: “No”; “No”; “No”. E ho fatto il corso. È andato tutto bene ed è stato fantastico imparare a rimanere sospesa a mezz’acqua; è come liberarsi del peso del corpo, come imparare a volare. Mi sono detta che di ritorno a casa avrei subito cercato una piscina dove continuare a immergermi. Prima di iscrivermi di nuovo ho chiamato un centro di medicina iperbarica, per sentire se avevo davvero rischiato qualcosa. Me ne hanno dette di tutti i colori: non solo avevo messo a repentaglio la mia vita, ma anche quella dell’istruttore, che in caso di un mio malessere avrebbe dovuto soccorrermi, e quella degli altri allievi, che, inesperti, si sarebbero trovati senza guida. Che non mi azzardassi mai più a fare una cosa del genere. Mi sono presa i rimproveri e ho archiviato l’episodio nel faldone “Cazzate fatte da non ripetere”. E la meravigliosa sensazione di essere un pesciolino non l’ho mai più riprovata.
L’epilessia e io
Da quel momento comincia la fase “uneventful” della mia storia, come si dice nei case report clinici. Nessuna crisi, nessun sintomo, tutto sotto controllo. I barbiturici hanno una lunga emivita e quindi non ci sono rischi se per un giorno o due rimango senza terapia. Una convivenza tranquilla, direi. Eppure, per diversi anni, ho nutrito uno strano disagio quando pensavo alla mia malattia, un fastidio la cui origine mi sfuggiva. Finché non ho letto L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, di Oliver Sacks, e ho capito. Lo scrittore, un neurologo, in questo libro racconta casi di pazienti con lesioni cerebrali che conducevano a comportamenti peculiari. Sottolinea come i danni al sistema nervoso centrale siano a volte in grado di mostrarci certe sue insospettate capacità, che il funzionamento normale non ci permette di cogliere. Nella parte intitolata Trasporti, dedicata alle patologie che si manifestano come «reminiscenza, l’alterazione della percezione, dell’immaginazione, del “sogno”», descrive il caso di due pazienti affette da epilessia del lobo temporale. Per entrambe, le crisi epilettiche si associavano ad allucinazioni uditive musicali. Tuttavia, mentre la signora O’M. percepiva la musica nel suo cervello come un fastidio spossante, le aure della signora O’C. erano rappresentate dal ricordo delle antiche canzoni irlandesi che le cantava la madre, morta quando la paziente era ancora in tenera età. L’infanzia era stato l’unico periodo felice della sua vita e quelle reminiscenze, durante la crisi epilettica, erano state per lei un regalo inaspettato e graditissimo; fu con grande dolore che si sottopose al trattamento anticonvulsivante, perché la privò di quei meravigliosi ricordi.
«L’epilessia della signora O’C. era in realtà completamente diversa in termini sia di fisiologia sia di carattere e impatto “personali”. Nelle prime settantadue ore l’attacco, o lo “stato” convulsivo, era pressocché continuo e associato ad apoplessia del lobo temporale. E già questa era una condizione travolgente. In un secondo tempo, […] c’era una travolgente emozione associata agli accessi e un contenuto travolgente (e profondamente nostalgico): la sensazione di essere tornata bambina, nella sua casa da tempo dimenticata, tra le braccia della madre.» Trovai un’analogia nel sentimento provato da quella donna con ciò che sentivo io: entrambe amavamo la nostra malattia. «Diversamente dalla signora O’M. che voleva essere curata, la signora O’C. rifiutò di prendere anticonvulsivi: “Ho bisogno di questi ricordi” diceva. “Ho bisogno di quello che mi sta succedendo… Finirà da sé fin troppo presto”. All’inizio delle sue crisi, Dostoevskij aveva “crisi psicomotorie”, o “stati mentali elaborati”, e una volta così si espresse a questo proposito: “Voi che siete sani non potete immaginare la felicità che proviamo noi epilettici nell’attimo che precede il nostro attacco… Non so se questa felicità duri qualche secondo, o un’ora o un mese, ma credetemi, non la scambierei per nessuna gioia che la vita può dare.»
Nella mia avventura, nel bilancio generale che potevo farne, il lato positivo di aver vissuto l’illuminazione sopravanzava di gran lunga i lati negativi, che si riducevano a ricordare di comprare e prendere la medicina, limitare gli alcolici e non scendere nelle profondità del mare (ma esiste lo snorkeling e in superficie si apprezzano di più i colori, cosa che mi consola). Quindi non solo non mi dolevo della mia malattia, ero anzi felice di esserne stata affetta e continuavo a portare il ricordo di quell’esperienza come qualcosa di prezioso. Ma io sono un medico, e come retaggio di questa formazione è sedimentata dentro di me la certezza che la malattia deve essere considerata un evento negativo. Come potevo esserne felice? Mi sentivo in colpa, anche se in maniera subliminale. A distanza di tanto tempo, continuo ad accorgermi di come quegli anni abbiano forgiato la mia indole. Noi medici abbiamo schemi mentali difficili da superare. C’è una linea che tracciamo tra il “normale” e l’“anormale” e tutto ciò che ricade in quest’ultima categoria è da ritenersi patologico. Io stessa, che pure avevo chiaro questo pregiudizio, avvertivo un malessere, anche se sotterraneo, nel ricordare con affetto la mia crisi epilettica: c’era una disfunzione, non potevo accettarla come qualcosa di positivo. Era come un amore illecito. La storia raccontata da Oliver Sacks ha portato in superficie quella contraddizione che era rimasta sottotraccia; in più, in qualche modo, mi ha fatto sentire autorizzata ad amare la mia malattia.
6 Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano, 2001, p.166 7 Ivi, p.181 8 Ivi, p.183

© Il battesimo, still da performance, Monica Marioni
Ormai sono in pace con la coscienza di essere (stata) malata. Rimane il ricordo dell’illuminazione: per alcuni anni sono riuscita a riviverla, se ci pensavo, e a riprovare la stessa emozione; poi pian piano si è cancellata, ed è rimasto solo il ricordo di averla vissuta. Mi dico che se decidessi di smettere la terapia, magari potrei sperimentarla un’altra volta. Ma forse, tra le caratteristiche che l’hanno resa così preziosa, c’è proprio il fatto che sia accaduta una sola volta. Sull’unicità di quell’episodio ancora mi interrogo. Ho avuto numerosi déjà vu o “pensieri dominanti”, che pure erano forme di disordine della trasmissione elettrica delle onde cerebrali, ma un’unica aura con quel potente contenuto emotivo; mi chiedo se ci possa essere stato un evento particolare che l’aveva scatenata, se non abbia dimenticato qualche dettaglio di quel solitario pomeriggio in laboratorio, prima della crisi. A volte mi cullo nell’idea che non ho solo avuto l’illusione di comprendere, ma che ho intravisto davvero l’esistenza di una legge che guida l’accadere degli eventi umani, così come la legge della gravitazione universale regola il moto dei pianeti. Poi torno con i piedi per terra, a sorridere della mia ingenuità; resta un’attonita ammirazione verso la complessità e l’insondabilità del cervello umano, e la meraviglia per l’illuminazione, che ora considero con gioia una parte fondante della mia vita. «Poi gli si spalancò davanti come un abisso: una straordinaria luce interiore gli illuminò l’anima. Quella sensazione durò forse mezzo secondo; nondimeno egli si ricordò in seguito con chiara consapevolezza il principio, la prima nota dell’urlo terribile che gli sfuggì dal petto e che nessuna forza al mondo avrebbe potuto trattenere. Poi la sua coscienza, in un attimo, si spense e subentrò una tenebra fitta9.»
9 Dostoevskij, L’idiota, cit., p. 326
Editing di Fabiana Castellino
Fiorella Malchiodi Albedi, anatomopatologa, scrive racconti, alcuni dei quali sono usciti su riviste online, come Verde, Narrandom, Risme, Malgrado le mosche, Spazinclusi, Nazione Indiana, Retabloid. La raccolta Caldo cosmico è uscita nel 2018 per Eretica edizioni. Il racconto Caldo cosmico è stato finalista al premio Zeno 2019. Le donne di P. ha vinto il TOMO contest 2021 per racconti di fantascienza. Il nome scomparso è il suo primo romanzo (Bookabook, 2021). Fa parte della redazione di Spazinclusi.




Le figure femminili rappresentate nei lavori di Monica Marioni sono la sola estensione possibile dello spazio angusto in cui si muovono, un tentativo di fuga verso uno stato di presenza in altro luogo. Perdiamo il centro. Nessuna cosa sfuma nell’altra quando il corpo è tutto il peso. Il nuovo non riesce a sdentare il vecchio, il nuovo trova una testa senza capelli, una schiena da traino, il riciclo della bocca, e il nuovo lavora nel passato. Con la pittura digitale l’artista inscena l’arcaico rito del battesimo che in età adulta deve avere a che fare con il sonno, con l’acqua nera delle parole tra parentesi, con tutto quello che ci hanno ormai spiegato. Le foto sembrano scattate per cogliere il passaggio di un dolore, dove l’umano resta nell’acido del rosso in qualità di graffi sugli occhi, nella menomazione del movimento, nel cliché delle impronte nel deserto, nei lacci che nascono con gli stipiti delle porte. L’altro, fuori dall’obiettivo, ha messo una piccola taglia sulle conquiste, nel suo sguardo e nella sua inazione conserva il suo stato di latenza.
Maria Teresa Rovitto
Monica Marioni nasce a Conegliano Veneto (TV) nel 1972. Nel suo percorso formativo si rivelano fondamentali la laurea in scienze statistiche e gli anni passati all’interno di un grande gruppo industriale. Marioni fa dell’arte una professione a seguito dell’incontro con Antonina Zaru, gallerista, mecenate, già amica e complice di artisti di fama internazionale come come Nam June Paik, Luca Pignatelli, Giovanni Frangi, Velasco, Salvatore Garau. È lei a riconoscere il potenziale di Monica, spingendola a muovere i primi passi partendo da Napoli, con una collettiva a palazzo Crispi. La collaborazione pluriennale culmina con l’invito a realizzare un’ opera monumentale nell’ambito di un evento collaterale alla 53esima Biennale D’Arte di Venezia. Nel muoversi dall’astrattismo verso la figurazione, e dal quadro alle altre forme artistiche, approda alla “pittura digitale” con il progetto «Ninfe», presentato a Vicenza per iniziativa della Fondazione Vignato per l’Arte, e in IO SONO, allestito a Milano presso Fondazione Stelline, con la curatela di Oliver Orest Tschirky. Con REBUS del 2013 torna al materico in tecnica mista per dare corpo ad una narrazione eterea ed enigmatica, preludio alla iconicità delle successive opere di FAME!, progetto che ha trovato origine nell’ambito di EXPO 2015. Nell’ambito dell’allestimento napoletano al PAN di FAME! inizia la collaborazione con la curatrice Maria Savarese attraverso il progetto filmico LE UMANE PAURE. HOTEL MO.MA., presentato nel Febbraio 2019 a Vicenza, ha segnato un avvicinamento a un’arte più concettuale, fatta di installazioni e momenti performativi, legata all’architettura di Carlo Scarpa. L’ultimo progetto in ordine di tempo è #lasciamiandare (2022).