di Giulia Oglialoro

© Theresa Maria Forthaus
Per tutta la vita avrebbe giurato di avere ancora impresse nel corpo le lente oscillazioni del treno, mentre oltre il finestrino sfilavano montagne ricolme di luce e «terre senza case». L’estate in cui si trasferì da Pittsburgh a Santa Barbara aveva quattordici anni: al tempo la danza rappresentava il naturale sfogo di un’irrequietezza che nemmeno le maestre più rigorose erano riuscite a disciplinare. Sua madre era silenziosa e distante; suo padre uno stimato alienista specializzato in disturbi nervosi – non era raro che discutessero insieme delle sue ricerche. «Martha è la più brillante delle mie figlie» confidava, commosso, ai colleghi in visita a casa. Nel 1908, la California, di cui il padre le aveva a lungo raccontato, si schiudeva finalmente ai suoi occhi: una distesa incandescente, un miraggio impossibile da guardare troppo a lungo.
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L’interesse di Martha Graham per la scienza non si estinse mai del tutto. Una delle cose che più mi affascina leggendo la sua autobiografia, La memoria del sangue, è proprio la promiscuità tra poesia e lessico scientifico: «Ogni danza è una curva termica del corpo, un grafico del cuore». E ancora: «Il movimento non mente mai. È un barometro che indica la temperatura dell’anima a tutti coloro che sanno leggerlo». Prima ancora che un’arte, nelle parole di Graham la danza è uno strumento per studiare l’uomo, il palco uno speciale laboratorio. Sin da bambina era incuriosita dalle forze che si agitano sotto la superficie: la attiravano i movimenti tellurici, le spinte geologiche che portano alla lenta emersione di nuove isole. A cinque anni posò per la prima volta l’occhio sul microscopio, e non riusciva a capacitarsi come, sotto quella lente attenta, persino una semplice goccia d’acqua poteva rivelarsi una materia brulicante e inaffidabile. Avrebbe ricordato quell’esperienza come «la prima lezione di danza della mia vita».
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Non ho mai messo piede su un palco, né vestito i panni di un’esotica principessa. Eppure, credo di poter comprendere lo spaesamento di Martha Graham, quando si esibiva nella compagnia “Greenwich Village Follies” di New York – la sua prima esperienza professionale come danzatrice, dopo gli studi alla scuola Denishawn di Los Angeles. Il produttore John Murray Anderson aveva messo a punto un musical imponente, ma ciò che davvero restava impresso agli spettatori puritani non era la voce limpida dei cantanti, né i numeri funambolici negli intermezzi circensi, quanto la bellezza delle ballerine: stagliate sulle immagini di sfumate foreste tropicali, le comparse femminili erano tutte fate a passeggio sotto la luna, corteggiavano un principe indiano danzando in costumi molto stretti o in lunghi sari velati che lasciavano ben intuire le loro forme. Martha Graham aveva la possibilità di esibirsi nei maggiori teatri d’America, ma quelle coreografie sembravano portarla ogni sera più lontana da sé stessa: «Il fatto è che non volevo essere lì, ma dovevo. Mi rifiutavo di scendere in passerella alla fine dello spettacolo con l’abito di scena. Non ero una ballerinetta da fila, una qualsiasi. […] Molto spesso mi addormentavo piangendo. Non era il posto in cui avrei scelto di stare. Era mia responsabilità essere lì per sostenere la mia famiglia». Quello che avverto, leggendo le memorie di quei due anni, non è solo un’insoddisfazione professionale, aggravata dalle difficoltà economiche sopraggiunte con la morte del padre, ma qualcosa di ancora più profondo – il distacco che proviamo quando la nostra parte più vera se ne sta buia e dispersa sul fondale, mentre ciò che mostriamo agli altri è una decalcomania involontaria, una sagoma senza peso e senza ombre che si muove a tempo, sotto le luci delle aspettative. Non mi stupisco che, quando nel ’25 trovò la forza di lasciare quella compagnia, pur senza alcuna certezza personale o professionale, si abbandonava a lunghe e nervose passeggiate che si concludevano allo zoo di Central Park, il luogo per eccellenza dove l’energia vitale viene sedata e ammaestrata: «Mi sedevo su una panchina davanti alla gabbia di un leone; si muoveva da una parte e dall’altra, lasciando le orme di quattro passi in avanti e quattro passi all’indietro. Il modo in cui girava era meraviglioso. Sarei stata ore a guardarlo mentre faceva quei passi imponenti e morbidi. Alla fine imparai a camminare in quel modo. Imparai da quel leone l’inevitabilità del ritorno, il modo in cui si deve spostare un corpo».
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© Theresa Maria Forthaus
C’è una sola specie di animali che fino a quel momento dominava l’immaginario della danza, ed è quella degli uccelli. Dare l’impressione di librarsi in volo era la massima aspirazione di ogni ballerino; a lungo la danza non è stata altro che un raffinato esercizio di sparizione. Non è un caso che Čajkovskij dedicò la più suntuosa delle sinfonie proprio al cigno reale. Gli animali che ispirarono Martha Graham sono ben altri: oltre al leone, gli elefanti, per la cui sopravvivenza si sarebbe sempre battuta. Proprio osservando quei possenti animali in cattività, ebbe la sua prima, grande intuizione: l’idea che il corpo non sia qualcosa da epurare e sublimare; che abbiamo un peso, una presenza, e non devono essere redenti in nome di una purezza intellettuale. La gravità, che il balletto classico si ostinava a voler vincere, fu il cuore della poetica di Martha Graham: si cade al suolo, e dalla caduta proviene lo slancio per continuare a danzare. Il movimento deve essere fluido, fatto di continue morti e rinascite. «Molti danzatori venivano da me con idee convenzionali su cosa fosse l’eleganza o una postura graziosa. Io, invece, volevo che ammirassero la forza. Se avessi potuto fare loro un regalo, sarebbe stato questo».
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Provo a immaginarla, sotto la luce lattiginosa del suo studio presso la Eastman School of Music di Rochester, che per molti anni avrebbe rappresentato la sua casa: porta i capelli bruni legati dietro la nuca, lasciando scoperto il viso bianco e ossuto; gli occhi chiari e vigili seguono i movimenti delle sue allieve. Ciò che sperimenta, durante quelle lezioni che si protraggono fino a tarda sera, non è solo una tecnica, ma un vero e proprio sistema filosofico: queste «cadute», queste immersioni di cui Graham parla di continuo, non avvengono solo nello spazio, ma anche nel tempo. Forse il punto non è inventare movimenti nuovi, ma riscoprire quelli che abbiamo dimenticato: «Noi tutti, e soprattutto noi danzatori, che percepiamo la vita e il corpo con particolare intensità, possediamo una memoria del sangue che ci parla. Il nostro sangue l’abbiamo ereditato da nostra madre e da nostro padre, e attraverso di essi dai loro genitori, e avanti così, risalendo sempre più indietro nel tempo. In noi scorre un sangue millenario, con i suoi ricordi». Già negli anni Venti, prima che fossero elaborati interi sistemi psicanalitici basati anche su pratiche corporee, Graham sosteneva fosse impossibile distinguere tra mente e corpo, tra memoria psichica e memoria muscolare. Non dimentichiamo davvero nulla: le persone e i luoghi che amiamo, i traumi e i silenzi, ogni cosa che ci abbia commosso e turbato resta impressa dentro di noi, depositata sul fondo di un «sangue millenario». Controllando attentamente la respirazione, secondo Graham sarebbe stato possibile risalirne il flusso, danzare a ritroso, verso la notte di sé stessi, verso un buio impasto dove anche l’umano perdeva i suoi contorni certi. «Siamo portatori di vite e leggende» scrive, citando il poeta Charles William Goyen, «e chi conosce gli affreschi invisibili sulle pareti private del cranio?». Per lei la danza nasceva dal desiderio di trovare quegli affreschi nascosti.
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Leggo Graham in una lingua non mia, in una città che, nonostante il tempo trascorso, continua a essermi estranea. Non posso fare a meno di pensare al riverbero che le sue parole generano ben oltre i confini della danza, per tutte le vite disancorate dal loro luogo di nascita. Un giorno siamo partiti, lasciandoci alle spalle tutto ciò che conoscevamo; abbiamo assecondato quel «movimento» che per Graham è la spinta innata a ogni creatura, quel desiderio che è anche una precisa pulsazione del cuore. Forse quando torneremo sapremo riconoscerci, ma non esiste una mappa per mostrare fino in fondo i luoghi che abbiamo esplorato, nessuna carta descrittiva potrà rendere conto dei precipizi che abbiamo toccato con mano, né rivelare il punto in cui le parole si sono incagliate. Torneremo e avremo gli stessi nomi, ma il corpo porterà sempre memoria dei fantasmi che siamo stati, ricorderà la perdita di consistenza che abbiamo sperimentato, magari anche solo per poco tempo. Saremo soli, e incommensurabilmente liberi.
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© Theresa Maria Forthaus
Le fotografie risalgono al 1935: tra le oltre cinquantamila immagini conservate nell’archivio di danza contemporanea in cui lavoro, sono le più antiche. Molti coreografi diffidarono a lungo di ogni forma di documentazione visiva; secondo loro la danza, in quanto arte del movimento, poteva essere appresa e trasmessa solo da un corpo in presenza. Ignoravano che la pellicola, proprio come la pelle umana, può ferirsi o bruciarsi, subisce l’usura del tempo o gli sbalzi di temperatura. L’immagine analogica è il risultato di un processo fisico, di una registrazione avvenuta lungo una superficie sensibile; anche la pellicola è un corpo che apprende. Un giorno qualcuno puntò l’obiettivo verso il palco del Guild Theatre di New York: il nome del fotografo si è perso nel tempo, ma a distanza di quasi cento anni l’energia di Martha Graham, sedimentatasi fra sali d’argento, risplende ancora intatta. La vedo entrare in scena con un lungo abito bianco, scandendo a passi sicuri il buio del palco. Si appoggia a uno steccato in legno, dietro il quale si stagliano due lunghe corde sottili, quasi a formare un binario che si perde nel vuoto. La coreografia dura poco più di cinque minuti ed è fatta di continue implosioni ed esplosioni, il corpo si raccoglie e si espande di continuo con una gioia rabbiosa. The Frontier non fu il lavoro più celebre di Martha Graham, ma il primo in cui si sentì del tutto libera di mettere in pratica le sue intuizioni; forse mi commuove così tanto perché ho l’impressione che non stia descrivendo, ma cerchi di tradurre nel corpo la paura e l’anelito che si prova avventurandosi in un luogo sconosciuto. È un’idea che ricorrerà in tutti i lavori successivi – i personaggi delle sue coreografie sono sempre in viaggio: Appalachian Spring racconta una coppia di pionieri all’inizio della loro vita lungo la frontiera; in Night Journey la storia tra Edipo e Giocasta è rappresentata come un vero e proprio percorso in cui i due si scontrano e feriscono di continuo; la Medea di A Cave into the Heart è una regina in esilio; in Errand Into The Maze, Arianna non è mai uscita dal labirinto. Vedo The Frontier come una danza sospesa nel tempo: nei passi di Graham c’è la premonizione dei passi che verranno, ma anche ciò che è stata fino a quel momento, gli incontri che l’hanno delusa e arricchita; più di tutto, la memoria dei nove giorni trascorsi in uno scompartimento impolverato. A chi la rimproverava di aver realizzato una coreografia sgraziata, lei rispondeva che i suoi non erano passi di danza, ma «lievi ricordi».
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© Theresa Maria Forthaus
Quando la solitudine si fa intollerabile, passeggio lungo la spiaggia acquitrinosa che segna il limite di questa città. È qui che il Weser riposa e rimescola le sue acque, prima di sfociare nel Mare del Nord. Man mano che procedo, percepisco i movimenti degli animali nell’erba sempre più alta, mentre i palazzi di mattoni scuri lasciano il posto ai ruderi di legno inumidito. Lo scalpiccio sotto ai miei piedi si confonde al sibilo delle barche sull’acqua, e la luce si sparge su ogni cosa come una fosforescenza azzurra, il riverbero di un fondale marino. Sono momenti in cui non esiste altro che il mio corpo presente, e allora mi sembra possibile cogliere quello che dice Graham, che esiste una memoria che scorre in noi e attraverso noi, una lenta corrente che sempre ci accompagna, a cui la maggior parte del tempo scivoliamo accanto, inconsapevoli.
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Martha Graham morì a novantasei anni. Mi domando quanta vita dovesse aver registrato, in quasi un secolo, un corpo vigile e presente come il suo. Non danzava da molto tempo, ma non smise mai di comporre coreografie: il governo spagnolo le commissionò un ultimo lavoro, che lei incentrò sulla trasmigrazione delle anime delle divinità femminili. E mentre guardava i ballerini esibirsi per uno spettacolo che non avrebbe mai visto per intero, sentiva il palco oscillare lentamente sotto i suoi piedi; la luce si espandeva fino a incendiare il cielo e i campi rigogliosi. «Cosa altro posso fare se non andare sempre avanti? È questa la vita per me. La mia vita».
N.d.R. Tutte le citazioni sono tratte dall’autobiografia di Martha Graham Blood Memory: An autobiography, Doubleday, New York, 1991.
Editing di Fabiana Castellino
Giulia Oglialoro si è laureata in Storia dell’Arte all’Università di Bologna. Scrive di film per “Q Code Magazine” e i film le piace anche scriverli: è autrice del documentario L’oceano intorno a Milano. Conversazioni con Milo De Angelis, presentato in anteprima a Filmmaker Festival e selezionato da numerosi festival europei. Un suo racconto è incluso nell’antologia Biassanot – i racconti della notte, Battaglia Edizioni. Vive in Germania.




Ninfe, gnomi e salamandre condividono lo stesso destino. Creature non create si confondono agli uomini e come gli uomini parlano e bevono; ma la loro danza è quella degli spiriti, la loro morte quella del bestiame. Paracelso chiama queste creature non adamitiche “spiriti elementari”: allo stesso tempo umane e non umane, costituiscono l’archetipo di ogni separazione dell’uomo da se stesso, mostrandosi come diverse facce di un’identica natura.
Eppure tra loro esiste una differenza: se a gnomi e salamandre non è data scelta, la specificità delle ninfe risiede nel dono della speranza che un giorno possano ricevere un’anima, a patto di unirsi sessualmente a un uomo e generare con lui un figlio.
Senza l’amore di un uomo, le ninfe sono condannate a essere animali.
Resta da capire che cosa ne è dell’uomo, senza l’amore di una ninfa.
Una possibile risposta ce la fornisce Giorgio Agamben, rielaborando l’iconografia e mutandola in simbolo: «La storia dell’ambigua relazione fra gli uomini e le ninfe è la storia della difficile relazione fra l’uomo e le sue immagini1.»
La fotografia di Theresa Maria Forthaus si muove all’interno di questo tracciato: riproponendo l’immagine classica della ninfa – danzante, velata, in perenne movimento – l’artista racconta la storia di una libertà che è individuazione: la ricerca simbolica di un’anima, l’emancipazione dal riflesso. Come la ninfa dipinta da Ghirlandaio nella cappella Tornabuoni l’immagine femminile interroga l’osservatore, lo porta a chiedersi chi sia la ninfa, da dove venga e dove vada; e intanto che le domande si fanno strada dentro di lui lo invita ad addentrarsi verso il fondo, in quello spazio impersonale dove immagine, soggetto guardato e io guardante si fondono.
La zona di questo impossibile incontro è la penombra. Lo stato intermedio in cui l’osservatore non crede più nella forza magica delle immagini, e tuttavia non riesce a liberarsi da esse. È nella penombra che la ninfa si riappropria della sua anima: in quel grigio dove, lei come noi, diventiamo consapevoli che «le immagini, che costituiscono l’ultima consistenza dell’umano e il solo tramite della sua possibile salvezza, sono anche il luogo del suo incessante mancare a se stesso2.»
Livia Del Gaudio
1 Giorgio Agamben, Ninfe, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p 45 2 Ivi, p 53
Theresa Maria Forthaus (1996) è un’artista che si divide tra le arti visive e quelle performative. Oltre al mezzo fotografico, il suo lavoro si fonda su video sperimentali realizzati in collaborazione con altri artisti e che uniscono performance, testi e suoni. Esplorando la relazione tra l’intangibile e ciò che è in apparenza mondano, Theresa è particolarmente interessata all’integrazione tra il nostro cosiddetto mondo interiore e quello esterno. La sua ricerca artistica si concentra sugli studi di cognizione incarnata, estetica relazionale, fenomenologia e linguaggio (del corpo). Per lei sono molto importanti la collaborazione con artisti appartenenti al mondo della danza e del suono, così come una pratica artistica partecipativa. Nel 2019, Theresa si è diplomata presso l’AKI ArtEZ Academy of Art & Design di Enschede (NL), con un semestre all’estero presso l’Università delle Arti di Londra (GBR). Attualmente vive e lavora a Berlino.