a cura di Maria Teresa Rovitto

© Theresa Maria Forthaus
La creazione artistica: la via della danza.
Intervista a Maria Focaraccio
a cura di Maria Teresa Rovitto
Maria Focaraccio (1992) lavora come danzatrice per Imperfect Dancers Company, Fattoria Vittadini, C&C Company, Tanztheater Erfurt. Come coreografa crea Storie Brevi-nulla di troppo intimo (selezionata alla Vetrina della giovane danza d’autore 2019) e Dia-Fantasie Ritmiche (2020) assieme a Maria Giulia Serantoni e Ghosts are my reality (2023) con Katharina Scheidtmann e Theresa Maria Forthaus, quest’ultimo con il supporto di ADA Studio (Berlin). Dal 2021 collabora con Emanuele Rosa con il quale crea i lavori HOW TO _ just another Boléro e all you need is e assieme al quale fonda EM+. Dopo essersi laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa, Maria al momento studia Tanzwissenschaft (Scienze della danza) presso la Freie Universität di Berlino. Nell’ambito della Valeska Gert Guest Professorship organizzata dalla Freie Universität ha modo di lavorare con il coreografo belga Michael Laub e il regista giapponese Toshiki Okada.
MTR: Nel mondo della danza Marta Graham (1894-1991) resta una figura cruciale, nonché una grande personalità artistica del Novecento anche per essere stata tra le prime a decostruire i codici della danza classica, mettendo a punto una tecnica moderna. Il nostro dialogo sarà guidato dalle sue lucide riflessioni sulla creazione artistica riportate nell’ autobiografia La memoria del sangue (Dino Audino Editore), che credo siano di grande interesse anche per artisti che usano altri linguaggi espressivi. Nelle sue memorie leggiamo: «Ci sono momenti di frustrazione totale, piccole morti quotidiane. Ed è in quei momenti che ho bisogno di tutta la sicurezza che l’esercizio ha impresso nella memoria del mio corpo, una sorta di fede tenace…[I]l lavoro volto a rafforzare la struttura muscolare del corpo. Il corpo viene scolpito, disciplinato, onorato e, a tempo debito, reso affidabile» per affrontare i momenti di smarrimento.
Quali sono le principali tecniche adottate nei tuoi lavori e cosa pensi di queste affermazioni?
MF: Le tecniche adottate nei miei lavori fanno parte di quegli archivi che il mio corpo conserva e che usa a suo piacimento. Sono gli archivi della danza classica, che ogni tanto ancora pratico come training fisico, e gli archivi della danza contemporanea, alcune delle cui tecniche, come la release (una tecnica che si focalizza sul respiro, con la quale si mira a recuperare l’organicità del corpo, la consapevolezza dell’allineamento scheletrico e delle articolazioni, nonché sull’uso del peso per facilitare un movimento più fluido, leggero ed elastico) o il floor-work (che comprende una serie di movimenti basati sul contatto con il suolo che diventa il principale partner e supporto da cui trarre energia, utilizzando la forza di gravità come forza propulsiva) influenzano i codici e i linguaggi delle mie coreografie.
Mi ritrovo molto nelle parole di Martha Graham riguardo alla frustrazione. Ogni processo creativo è attraversato da essa: tutte quelle volte, ad esempio, che non si riesce a trovare quello che si cerca; che non si è contenti del materiale fisico che si è composto; quando si capisce che qualcosa non funziona dopo averci speso ore di lavoro interminabili. Ogni giorno di un processo creativo, così, è un esercizio all’ accettazione; è un provare e ri-provare a imparare che, per quanto ci si ostini a credere diversamente, il controllo è solo un’illusione e creare vuol dire per gran parte del tempo muoversi alla cieca, per tentativi.
L’esercizio fisico, soprattutto all’interno del processo creativo, è quel rituale che invece rassicura. La preghiera che sai a memoria e di cui non ti scordi mai, anche quando non la pratichi da un po’. L’unico elemento certo nello spazio vuoto delle potenzialità di tutto ciò che deve ancora accadere. Non mi piace pensare al lavoro come mezzo per scolpire e disciplinare il mio corpo. Guardo all’esercizio fisico come all’elemento che lo rende libero e più sano ma non attraverso il quale lo disciplino e lo piego. Mi faccio guidare da esso e cerco di ascoltarlo nelle sue lamentele e nei suoi dolori. Se c’è qualcosa che non può fare, lo rispetto e me ne prendo cura.
Ho letto di recente nel libro di André Lepecki Exhausting Dance. Performance and the politics of movement che la connessione tra danza e movimento è un’invenzione storica relativamente recente. È proprio con l’avvento della danza moderna che la danza si configura come una rappresentazione di un corpo disciplinato che esercita e ostenta le sue abilità di muoversi. Il corpo come la macchina o un’estensione di essa. Per questo mi piace sganciare il corpo da qualsiasi concetto di disciplina o ideale di perfezione a cui deve aspirare. Lo alleno per prendermene cura e per sentirmi a casa in esso. Per esercitarmi ad ascoltarlo tutte le volte che mi parla. Le imperfezioni, le fragilità e le vulnerabilità dei corpi sono alla fine ciò che mi emoziona e a cui la danza ha il potere di dar voce in maniera poetica.
In una società in cui il corpo è sottoposto a una rigida disciplina per adattarsi ai dettami delle norme di buon comportamento – si pensi ai percorsi obbligati degli aeroporti o al modo in cui si soffocano le reazioni agli stimoli musicali provenienti da luoghi come negozi o qualsiasi altro spazio sottoposto all’ “occhio pubblico” e alla sorveglianza sociale – mi piace pensare all’esercizio fisico come a quella pratica per poter liberare il nostro corpo, per potercene riappropriare, per far sì che risponda alle regole dettate da noi e non imposte dall’esterno.
MTR: Per Graham l’atto creativo è un debito verso l’altro e verso il creato, la natura. Il corpo del danzatore e della danzatrice è uno strumento vibrante attraverso il quale passa e si manifesta il flusso vitale, l’essenziale, così come ciò che l’essere umano ha ereditato, ciò che sente e che non si può esprimere a parole. Mentre ti esibisci quali impulsi ed emanazioni provengono dallo sguardo del pubblico, luogo necessario di riconoscimento? Quanto è trasformativo un gesto performativo che nasce nella prospettiva di essere visti?
MF: Non mi piace pensare in termini di debito perché crea un dualismo e un’opposizione tra debitori e creditori, andando così a generare relazioni di potere e una certa immagine di subordinazione o sottomissione che non mi fa sentire molto a mio agio. Non mi sento né in debito verso l’altro, né al suo servizio. Ciò non significa però che non penso al pubblico, a chi mi osserva o andrà a osservare i miei lavori. Al contrario, rivolgo la mente costantemente a esso e ho il desiderio di prendermene cura.
In quel pubblico mi penso ogni volta anch’io. Penso a me spettatrice. Ed è con il pensiero rivolto al pubblico, a me stessa, sotto il loro e il mio sguardo, che i gesti, una volta nati, si trasformano, si sganciano da me e diventano segni, simboli in cui potersi riconoscere.
Mi piace pensare al pubblico in termini di flusso e scambio continuo con la scena. Lo sguardo dell’altro/altra costantemente influenza quello che faccio e quello che faccio influenza lo sguardo dell’altro. E non c’è risposta alla domanda su cosa viene prima, così come l’uovo o la gallina.
Il pubblico diventa uno specchio nel quale potersi riflettere e come ogni specchio spesso l’immagine che ti torna indietro non è quella reale ma influenza comunque te stessa e quello che fai. Può farti vedere te stessa sotto nuove vesti.
Quando sono in scena mi sento in una condizione di estrema fragilità, specialmente quando mi esibisco nei miei stessi lavori, ma mai in una condizione di inferiorità nei confronti di chi mi osserva. È un mettersi a nudo; è un fare i conti con il fatto che non si riesca mai veramente a mentire al pubblico, come dice Anne Bogart. Quindi non resta che abbracciare questa imposizione di onestà. Ingoiare il siero della verità. È un’esperienza veramente catartica.
Forse la catarsi non è allora privilegio del solo spettatore, ma anche di chi è dall’altro lato.
Forse è catarsi, precisamente perché accade contemporaneamente in entrambi i luoghi, in scena e fuori dalla scena.
Connessione e sincronizzazione totale.
MTR: Ai suoi danzatori Graham leggeva spesso passi della Bibbia o del mito, così come ambiva a restituire attraverso i movimenti organici la pittura di Van Gogh, di Chagall, di Kandinskij, la musica di Bartók, la poesia di William Carlos Williams; dall’ispirazione tratta dalle loro opere nascono molte sue partiture coreografiche. Quali immaginari influenzano oggi il vostro lavoro coreutico?
MF: L’ispirazione può nascere dappertutto. A guidarmi o influenzarmi, assieme agli altri coreografi e coreografe con cui co-creo, possono essere delle immagini, a volte delle musiche, a volte dei testi. A volte la semplice voglia di creare assieme e mettere in relazione i nostri corpi.
Spesso gli immaginari che ci ispirano fanno parte del mondo del web, del mondo iperconnesso in cui viviamo. Altre volte provengono dai luoghi che ci ospitano nelle residenze artistiche. Oppure sono i luoghi e gli spazi stessi a influenzarci. La forma dello studio in cui proviamo, la sua grandezza, le sue fessure e i suoi colori.
Il duetto creato assieme a Emanuele Rosa dal titolo HOW TO _ just another Boléro , per esempio, è stato influenzato dello spazio in cui per due settimane abbiamo provato: un atelier condiviso con altri artisti non esattamente adatto per danzare, dato il pavimento in cemento. Nello studio, però, si trovava un tappeto che ha attirato la nostra attenzione e abbiamo così iniziato a danzarci sopra. E tutto ha preso forma.
Altre volte l’ispirazione può nascere dal corpo stesso, da un suo modo particolare di muoversi o di costruire dei gesti e delle immagini.
MTR: Quando danzi, riesci a immaginarti come un corpo o prevale la sensazione che tu stia imitando qualcos’altro?
MF: Quando danzo sono sempre corpo. La sensazione è quella di un contenitore vuoto in cui lentamente vanno a depositarsi e costruirsi gli immaginari e le percezioni messe in moto dal corpo e dai suoi gesti e movimenti. Tutto parte e procede sempre dal corpo, non è mai un processo che nasce da fuori, o dall’idea di un personaggio o dal dover raccontare una storia. Forse perché in quello che faccio non c’è una narrazione chiara e definita; una storia che parte da A e finisce con B. Quello che faccio è semplicemente compiere delle azioni con un’idea chiara e definita. Lo svolgersi delle azioni innesca il viaggio che la mia mente vive assieme al corpo nel momento in cui sono in scena, ma non mi sento mai altro, o l’imitazione di qualcos’altro. Piuttosto, forse, il mio ego si zittisce e così la mia persona, forse, trascende. Credo sia molto simile ad uno stato di meditazione. L’attenzione è posta sul respiro, i movimenti e sulla chiarezza delle intenzioni. Il peso dei pensieri si dissolve. Si è nel qui e ora.
MTR: Come ogni artista, Graham ragiona sul modo di trasformare l’esperienza personale in universale filtrando sentimenti ed emozioni attraverso la tecnica. A tal proposito è interessante il percorso creativo di un’altra grande danzatrice e coreografa, Pina Bausch (1940-2009). Durante le prove poneva delle domande ai membri della sua compagnia e lanciava delle suggestioni alle quali dovevano rispondere con dei movimenti, uno spartito corporeo. Riguardavano esperienze personali, come Qualcosa sul tuo primo amore, sensibilità del singolo come, C’è un modo per aiutare gli animali a morire o situazioni di vita quotidiana, come Scarpe strette. Una volta scelte le partiture più interessanti, si lavorava a inserirle nello spettacolo e, grazie al montaggio, lo spettatore non poteva più rendersi conto di assistere a manifestazioni dell’interiorità dei danzatori. Ti va di raccontarci del tuo ultimo spettacolo, Ghosts are my reality, costruito sui sogni che avete appuntato per un anno su un taccuino?
MF: Ghosts Are My Reality è il frutto della collaborazione con le artiste Katharina Scheidtmann e Theresa Maria Forthaus. Vede le sue origini da un compito assegnato a me e Kataharina Scheidtmann nell’ambito di un corso universitario del master in Tanzwissenschaft (Scienza della danza) della Freie Universität, che entrambe frequentiamo. Dovevamo scegliere una pratica quotidiana di qualsiasi tipo da svolgere e abbiamo così deciso di iniziare un diario dei sogni. Ispirate da Fellini e la sua pratica di annotare o disegnare i sogni, abbiamo cominciato anche noi a registrare le nostre vite notturne, i suoi frammenti. A poco a poco ci siamo rese conto della forza e del potenziale racchiuso in questo materiale e abbiamo deciso di provare a prestargli le nostre voci e i nostri corpi, coinvolgendo anche l’artista visiva Theresa Maria Forthaus.
I processi con cui abbiamo svolto questa “traduzione” dalla realtà della vita notturna alla realtà della vita diurna sono stati dei più disparati. Per esempio, abbiamo registrato le nostre voci mentre raccontavano i nostri sogni e abbiamo danzato improvvisando sul ritmo delle loro parole o sulle loro immagini. Le nostre voci, filtrate dal mezzo tecnologico dello smartphone con cui ci eravamo registrate, ci apparivano non più nostre. Erano voci di fantasmi. Appartenevano a qualcosa che era stato e non era stato al tempo stesso, a qualcosa che non era più e non era ancora. Ci siamo rese conto che i sogni e i fantasmi condividono la stessa natura: li sentiamo e avvertiamo ma restano intangibili e inafferrabili. E le memorie e le non-memorie di essi ci accompagnano sempre, instancabili e irremovibili. Ricoprono quello spazio sublime tra l’essere e il nulla.
Abbiamo dato dei titoli ai nostri sogni e per ogni titolo creato delle frasi coreografiche. The blue moon and the end of the world, The teleport capsule, Waking up after death, The hidden club and the self-service restaurant with the grandma of my friend sono alcuni dei titoli utilizzati.
È stato enormemente affascinante immergersi nel mondo dei sogni, abbandonarsi al loro trascendere ogni logica o razionalità.
A proposito della parola inglese haunt (infestare/perseguitare), Mark Fisher nel libro Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures, nota come similmente alla parola tedesca unheimlich da cui deriva, essa connota sia il luogo di abitazione, la scena domestica, sia ciò che la invade o la disturba. L’Oxford English Dictionary elenca uno dei primi significati della parola haunt come “to provide with a home, house” e cioè “fornire una casa, un’abitazione”.
Ecco: i sogni, come i fantasmi, perseguitano e infestano, invadono e disturbano, ma ci procurano anche una casa. Bisogna imparare a non rifuggire da essi intimoriti dal non poterli comprendere.
E Ghosts Are My Reality è stato il tentativo di tornare a casa, di ritrovarla o trovarla per la prima volta.
Perché ho deciso di intervistare Maria.
Maria Teresa Rovitto
Quando lei entrò nella sala di danza dal pavimento di legno inchiodato, foderata di specchi, dal perimetro delimitato dalle sbarre per i nostri esercizi quotidiani, allungate dal fabbro con ricicli di pezzi di ferro, noi eravamo già lì. Immerse nel fondo di un suono distorto, appesantite dalla rete di sogni sfioriti degli allievi passati da quello spazio: concepito come un amnio, in origine e prima di essere preso in prestito dalle scienze mediche, il nome del vaso per raccogliere il sangue delle vittime.
Entrò in quella sala.
Maria era uscita dal suo appartamento per raggiungerci e rendere più fitto lo steccato delle ossa dei nostri arti inferiori, lavorati al tornio dei pezzi di repertorio della danza classica.
Farsi trascinare da diagonali di chassé, sequenze di battement tendu, glissade, jeté e rond de jambe, era il nostro metodo per non rischiare di addormentarsi al sole: essere preparate a cadere nel sonno, dove la voce battente della coreografa ci accompagnava all’ingresso dei paesaggi abbandonati della nostra attività onirica. L’inizio di un diaframma strettissimo.
Nella sala la luce arrivava a strisce filtrate da angoli di fortuna. Luce fredda, striata, che portava da fuori il sentore di esperienze di cui non avevamo i numeri, che per noi, raccolte dentro, erano solo costellazioni verbali appuntate dagli altri. In compenso, non avevamo bisogno di adulatori: tali erano le attenzioni che riservavamo alle linee sospese del nostro corpo, in attesa che l’aria si innamorasse di noi e compisse incantesimi pneumatici.
Maria non ci assomigliava. Non aveva alcun bisogno di rinnegare la vita, il buon senso, era capace di mischiarsi all’andatura del fuori; era evidente che per lei la danza non era separazione.
Era venuta per non annoiarsi, a prendere ossigeno bocca a bocca come soggetto coreutico; di tutta la nostra simbologia legata al sangue che sgorgava dai piedi costretti nelle punte, lei avrebbe considerato solo l’aspetto carnale: laddove noi fingevamo di venire dalla luce, lei non nascondeva il torbido; laddove noi danzavamo rivestite da tulle elettrico, lei era fatta per la nudità.
Apparso il suo corpo contemporaneo, spogliato di ogni volontà di significazione per aprire alle possibilità di un altro linguaggio, ci accorgemmo di essere mute da tempo, nel nostro corpo conformato alle proiezioni delle figure del balletto classico. Non essendo stata condannata dalla natura alle nostre forme longilinee, Maria poteva rompere le formule di un immaginario stereotipato, poteva mettere in discussione il primato del volto, quello su cui noi avevamo forzato i sorrisi per andare in scena.
Ad altezza del nostro petto, lei era pronta all’incontro col suolo, mentre noi avevamo passato la vita a esercitarci a sfiorarlo solamente. Le ballerine di danza classica sorridono o recitano disperazione. Maria era pronta allo spreco. Non aveva alcun debito con la natura. Poteva essere solo la fisiologia del movimento: respiro, peso, scheletro, uno stato organico elementare. Poteva rendere grazie all’impotenza muscolare che noi dovevamo tacere. Continuavamo ad allungare i nostri colli e le nostre braccia come piante in cerca del chiaro, mentre lei contraeva, si abbassava ancora di più cercando di completarsi con il suolo, tentando di aprirvi una vivida faglia per strappare le radici.
A volte prevaleva la visione delle nostre costole da animale scarnito con le quali i body creavano un’aderenza totale; sembrava che alcuni di questi tessuti sintetici potessero bucarsi da un momento all’altro e, allora, non era impossibile immaginare la fuoriuscita di un pulviscolo stellare che si sarebbe impastato alla pece bianca, usata in sala per non scivolare. Nel levarsi delle polveri si formava il nostro futuro, dove saremmo apparse spettrali, soprattutto le mattine che ci avrebbero sorprese sveglie dall’incubo in cui, salite sul palco, dimenticavamo i passi delle coreografie una volta mandati a memoria. Non potevamo concepire una forma di immobilità più colpevole.
Quando interpretai Giselle, mi dissero che la scena riuscita meglio era stata quella del tentato suicidio; ma solo quando vidi danzare Maria mi resi conto di essere molto lontana dall’esperienza della dissoluzione che lei riusciva a manifestare attraverso il corpo. Ci mostrava che nessuno degli incubi della fisicità poteva essere sotto controllo e che una sequenza si poteva eseguire al contrario.
Non riuscivamo a restare autentiche e a non deteriorarci dopo ripetute esecuzioni, mentre lei sembrava accumulare significato a ogni passo. Lei era destinata all’esibizione. Noi sbiadivamo nei nostri ruoli assegnati.
Piano piano uscimmo di scena. I legamenti gualciti, le infiammazioni radiose delle giunture, erano la testimonianza del nostro fallimento.
Ora, lontane dal sacrificio quotidiano che l’arte doppiando la vita richiede, non siamo più obbligate a tenere lo stesso conteggio. Mentre ci muoviamo, possiamo vivere a tempi sfasati, camminare su piedi bianchi e integri per salvare almeno l’apparenza, cercarci nelle riflessioni di Bachelard1.
Uscite dalla sala di danza, ci scoprimmo in ritardo sulla vita.
Editing di Livia Del Gaudio
1 «Il ritmo di azione e di inazione ci sembra inseparabile da ogni conoscenza del tempo. Tra due eventi utili e fecondi, bisogna che giochi la dialettica dell’inutile. La durata non è percepibile che nella sua complessità», Gaston Bachelard, La dialettica della durata (1936), Bompiani, Milano, 2010, p. 133
Qui per scaricare i pdf delle coreografie di Maria Focaraccio: