L’asparago sempre sia lodato.

di Wanda Luban

© Elena Ghini

L’intuizione colpì Achille Campanile una notte d’estate del 1974: l’asparago è metafisico! Ben presto però, a primeggiare fu la ragione: nel suo racconto intitolato Asparagi e immortalità dell’anima, l’autore romano conclude senza possibilità di appello: «[…] dobbiamo dire che, da qualunque parte si esamini la questione, non c’è nulla in comune fra gli asparagi e l’immortalità dell’anima1». Ebbene, in questa sede noi ci prefiggiamo di dimostrare il contrario. 

Innanzitutto va detto che esistono vari tipi di asparagi e che, tutti, hanno – in un modo o nell’altro – un legame indissolubile con la luce. L’asparago bianco ha il colore uniforme dell’incarnato delle nobildonne, quelle che si proteggevano con ombrelli e parasoli, e, di fatto, non vede mai il sole. Viene coltivato in assenza di luce, in serre dette asparagiaie. Ad oggi, è l’ortaggio più apprezzato da cinesi e giapponesi.

Quello viola invece è un asparago bianco alla cui punta si lascia prendere aria, e poi, zaf, lo si castra. Il verde è il più fortunato: cresce in libertà. Il primo ha un gusto leggermente legnoso, il secondo, un pizzico amaro. Il terzo ha un sapore erbaceo-fruttato, vagamente dolciastro che, per taluni, evoca il carciofo; per altri, il grano.

Quello che germoglia liberamente è tenero e carnoso, ed è l’unico dei tre che non viene spellato. Pare esista anche un asparago colore azzurro pallido. Poiché cresce nell’acqua, si mormora che raccoglitori addestrati perlustrino acquitrini, di notte, per trovarlo. Viste le difficoltà da affrontare, è a uso esclusivamente privato. Quanto al sapore, c’è chi spergiura che l’asparago azzurro sappia di incenso.

Vi è infine l’Asparagus Acutifolius, asparago selvatico: ha bacche rosse, grosse come piselli, e fiorellini bianchi, molto apprezzati per fini decorativi. Cresce nei boschi e, quando non è raccolto, si espande tanto, che è quasi impossibile ostacolarne la crescita, esattamente come fa la coscienza mediante la consapevolezza.

Su una cosa sola gli asparagi non transigono: separano i sessi. Quindi esistono asparagi maschi e asparagi femmina.

1  Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, Rizzoli, Milano 1974, p. 65

© Elena Ghini

Come cucinare l’asparago, lo sapete tutti. Freddo. Caldo. Lessato. Condito con olio e aceto. Ricoperto da scaglie di grana. Al burro, alla maionese, alla vinaigrette. In forma di crema, flan, vellutata. «Alcuni ci mettono un uovo frittellato sopra, e ci sta benissimo2» scrive, a ragione, Campanile.

A proposito, antesignano di Campanile, o meglio della sua visione notturna, fu Luigi XIV. Certo, andava pazzo per questi ortaggi la cui coltura, secondo la leggenda, ebbe origine nella valle dell’Eden, e che, in realtà, dalla Mesopotamia si diffuse, più di duemila anni or sono, nell’Antico Egitto, in Asia Minore e, successivamente, in tutto il Mediterraneo. Forse, dicevamo, il re dovette avere sentore di una certa corrispondenza fra l’allampanato ortaggio e il principio vitale immateriale. Il che spiegherebbe perché, per decreto, a Versailles, gli asparagi non erano chiamati asperges, come nel resto della Francia, bensì esperges, parola che – quanto a suono – richiama la speranza. E quale speranza mai, soprattutto in Luigi XIV, poteva essere più divorante, del restare, perlomeno in parte, immortale? 

Ma andiamo con ordine.

Per sua natura, l’asparago, detto anche turione (il cui nome deriva dal greco aspharagos, a sua volta derivato dal persiano, asparag, ossia germoglio) è un ortaggio stagionale.

Grazie al Gran giardiniere Jean-Baptiste Quintinie, il cui appellativo completo era “direttore dei giardini, frutteti e orti di tutte le case reali” – un vero e proprio precursore – il sovrano mangiava lattuga a gennaio e fragole a marzo. 

Asparagi, no. 

Re Sole, che faticava ad accettare che qualcosa potesse frapporsi fra un suo desiderio e la realizzazione dello stesso, tempestava Quintinie di sollecitazioni.

Tenace, un giorno Quintinie riuscì nell’intento.

Crescevano, ben protetti sotto le vetrate delle serre principesche, gli asparagi, permettendo raccolti tutto l’anno. Dalla contentezza, il re lo nobilitò.

Pochi sanno che, da quel momento, ogni giorno, alle tre, Sua Maestà scendeva i cento gradini che dalla reggia conducevano alle serre reali. Ai piedi delle scale lo attendeva il profondo inchino di Quintinie. Ma non appena superavano la griglia di ferro tutta ghirigori, i due uomini si davano il braccio, come due amici, e percorrevano il viale bordato di peri, fino alla terrazza panoramica. Da lassù, Luigi e Jean-Baptiste ammiravano, estasiati, parte del loro comune dominio, e le decine e decine di giardinieri al lavoro. Poi affrettavano il passo.

Luigi si informava sui danni arrecati dalle pioggie, dalla grandine, dalla siccità. Alle tre e un quarto, secondo più, secondo meno, in religioso silenzio, penetravano nelle serre.

Spesso, a quell’ora, le cime degli asparagi sporgevano in modo particolarmente suggestivo dall’umido terriccio. A Re Sole pareva che gli ortaggi, posti in fila come i suoi soldati, si inchinassero, uno dopo l’altro, al suo passaggio – il sovrano era ben lungi dal capire che l’omaggio non era rivolto a lui, bensì all’astro di cui aveva usurpato il nome, e i cui raggi, in quel momento, trafiggevano obliquamente le vetrate. Quintinie, uomo saggio, non ebbe mai cuore di contraddirlo.

Per espresso volere del re, gli ortaggi allampanati venivano serviti ai tre pasti principali e, a volte – avendo fama di rigenerare il corpo umano e trasfondergli nuova linfa – pure di primo mattino, assieme alla tisana.

Il re ne apprezzava soprattutto gli effetti diuretici. E, quando gli doleva un dente, gli impacchi tiepidi dei turioni ne acceleravano la caduta, senza che percepisse dolore alcuno. Di fatto, già nel 1555, il medico e botanico Pietro Andrea Mattioli scriveva: «La decottione delle radici loro bevuta, giova all’orina ritenuta, à trabocco di fiele, alle malattie delli reni, e alle sciatiche. La decottione fatta nel vino, tenuta in bocca dalla parte del dolore, giova à i denti3».

La corrispondenza fra questi ultimi e i turioni è presto spiegata: secondo l’antica teoria delle corrispondenze, forma, colore, gusto delle piante, sarebbero veri e propri cartelli stradali lasciati cadere qua e là da Madre Natura per farci capire le caratteristiche e le proprietà delle cose. Ebbene: la radice degli asparagi, che assomiglia vagamente a una parata di canini, in francese era denominata sia griffe, sia dent. D’altronde, con la sua accentuata verticalità e la punta ad arco ogivale che è tutta uno stiracchiarsi verso l’alto, il nostro ci catapulta direttamente in cielo. 

Più palese ancora, è la somiglianza fra il turione dalla punta voluminosa e il fallo. Già gli antichi greci, grandi osservatori, avevano riscontrato il potere afrodisiaco dell’ortaggio (potere nel frattempo confermato dalla scienza e dalle ultime ricerche in campo urologico). Si credeva che bastasse dapprima forare, poi sotterrare delle corna di montone o di ariete (animali dal proverbiale vigore), per favorire la crescita rigogliosa della pianta. Asparagi a mazzi, legati da nastri di seta color oro, venivano serviti durante i banchetti nuziali. Ancora Re Sole, per onorare Madame de Maintenon, il cui appetito era noto, aveva creato il detto Jamais sans, intendendo sia il sesso, sia i turioni. 

Vennero i tempi bui: gli asparagi furono banditi dalle cucine (e non solo) dei pensionati per signorine, poiché si supponeva potessero risvegliare desideri inconfessabili, e le rappresentanti del sesso femminile erano invitate a evitare di pronunciarne il nome, divenuto, nel frattempo, nella Francia democratica, uno e uno solo: asperge. Ed ecco la contraddizione: finalmente tutti, indistintamente, potevano gustarlo; solo alcuni potevano menzionarlo.

Come se non bastasse, e pur non nutrendo dubbi alcuni sulla bontà della democrazia, riteniamo che, con l’avvento della stessa, si sia persa la percezione di ciò che accomuna l’anima all’ortaggio soggetto di questa breve disanima (ci scuserete il gioco di parole).

2  Ivi, p. 63
3  M. Pietro Andrea Mattioli, Di Pedacio Dioscoride Anazarbeo Libri cinque Della Historia, et materia medicinale tradotti in lingua volgare italiana da M. Pietro Andrea Matthiolo Sanese Medico, con amplissimi discorsi et comenti, et dottissime annotationi, et censure del medesimo interprete, Venezia, 1544

© Elena Ghini

Tornando ai tempi d’oro: non solo il sovrano e i suoi invitati, anche Madame de Maintenon traeva più o meno consapevolmente beneficio dal consumo regolare dei turioni. Pare che la dama ne apprezzasse, oltre alle note gustative, pure l’odore pungente, emanato, après coup, dopo l’ingestione; odore che, nel frattempo si sa, è dovuto all’asparagina, un amminoacido ricco di zolfo (e che lo zolfo sia, in un modo o nell’altro, coinvolto in processi ultramondani è risaputo). Ma vi è una cosa a cui pochi, finora, hanno prestato attenzione.

L’asparago è l’unico cibo che, nel suo lungo viaggio nell’oscurità, attraversa i più reconditi nostri antri, e lascia traccia del suo passaggio. Una traccia inconfondibile, indelebile. Scusate se vi sembra poco.

Non tutti, a Versailles, potevano rallegrarsi come Madame de Maintenon.

Fra gli invitati a corte, anche chi proprio non sopportava il gusto dolciastro del vegetale, faceva finta di nulla, e masticava, lodandone il turgore, il colorito eburneo dell’incarnato. C’era poi chi, pur apprezzandone il sapore, non sopportava l’odore della propria urina. I più sfortunati, ovviamente, erano coloro che esecravano sia il sapore, sia l’odore. Tutti, comunque, facevano a gara – condendo le parole di elogio con smorfie di apprezzamento – a profondersi in complimenti rivolti al Re, all’ortaggio, a Quintinie, al mondo intero (in altre parole, alla Francia).

Del resto, il sovrano per primo, non si stancava di lodare Quintinie. Quando quest’ultimo morì, fece erigere in suo onore, a mo’ di gigantesca colonna, un asparago di marmo.

Ma torniamo al vero protagonista della nostra storia: quel virgulto che si innalza verso il cielo, bucando la terra. Certo non è l’unico. Lo stesso fanno le primule, i fiori quasi tutti, e gran parte degli ortaggi. Ma l’asparago ha un certo non so che. Adornava i margini degli affreschi pompeiani, ergendosi accanto a maschere e baccanti dionisiache e, non per nulla, è stato immortalato da molti artisti, fra cui Max Ernst e Édoaurd Manet. Nel 1935, il primo creò due esili sculture, due ibridi tra il vegetale e l’umano, dal titolo Lunar Asparagus. Nel 1880, il secondo dipinse un mazzo di asparagi, che propose al collezionista Charles Ephrussi per ottocento franchi. Ephrussi, munifico, ne sborsò mille. Grato, Manet creò un altro asparago che regalò a Ephrussi, accompagnandolo con un biglietto: Ne mancava uno al vosto mazzo.

L’opera misura soltanto 16 x 21 centimetri ma fece esclamare a Georges Bataille: «Questa non è una natura morta come le altre! Morta sì, ma al contempo vivace». Il tratto: nervoso, sincopato. L’ortaggio: diafano, posto in primo piano, adagiato diagonalmente rispetto alla superficie del tavolo, con la punta viola rivolta verso sinistra e la coda sporgente oltre il margine del dipinto che occupa per intero. L’asparago è circonfuso da chiarore, come un santo che veleggia in un mare di nebbia.

Più di recente, la scultrice Hannah Levy ne ha creato uno, monumentale, in silicone e poliuretano. Smunto, languido, si consegna, cedevole, allo sguardo dell’osservatore. Qualcuno l’avrebbe addirittura paragonato al braccio di Cristo nella deposizione. Sta di fatto che, quanto a posa, l’ortaggio contrasta con la sua fama, con i numerosi arieti e i montoni, seppelliti ormai da secoli sottoterra. E questo, non vi è dubbio, è il secondo duro colpo inferto ai nostri protetti, e quindi, in altre parole, a ciò che, di metafisico, resiste sul suolo terrestre.

Sarete d’accordo, dunque: l’asparago, pianta perenne, unisce le epoche e le nazioni. Anzi, chi ha voce in capitolo nelle alte sfere dovrebbe proporre l’asparago, come emblema, alle Nazioni Unite. Del resto, si vocifera che, all’Eliseo, Macron stia già valutando la possibilità di sostituire il giglio con l’asparago. Come detto, oggigiorno, l’ortaggio è un simbolo di democrazia mentre, fino a un secolo fa, solo i nobili potevano permetterselo. Cresce praticamente ovunque, e ha la pelle di tanti colori.

Vi è poi un altro motivo per festeggiarlo: contiene più del 90% di acqua, il fortunello. A breve sarà più ambito dell’oro. Al posto dei lecca-lecca, bambini e adulti succhieranno asparagi. 

Certo, le contestazioni non mancherebbero: meglio rappresentare quello verde o quello bianco? Alcuni francesi salirebbero sugli spalti, chi brandendo cartelli con scritte monarchiche, chi con la scritta “À bas la Russie, à bas Quintinie”.

© Elena Ghini

A proposito di assonanze, non vi colpisce il suo nome? Aspa ha un cipiglio bellicoso, asprigno. Da lancia in resta. Poi, con rago – la chiusa – si raccoglie tutto, si raggomitola. Lo stesso fa l’essere umano, nel suo percorso di crescita. Ma nulla si perde.

Basti pensare, e qui ci avviciamo a ciò che di veramente misterioso ed esoterico ha l’asparago: è una pianta rizomatica. Nasce infatti da rizomi legnosi, sotterranei, da cui si differenziano le radici e le gemme, come i suoi cugini primi: il raffinato giglio (simbolo di Re Sole e della monarchia francese), e il tragico e indistruttibile asfodelo, sacro fiore consacrato a Ade e a Persefone, che, proprio grazie ai suoi rizomi, sopravvive al fuoco. Esso rappresenta ciò che è destinato a non morire. Secondo Carl Gustav Jung, anche la vita fa pensare a una pianta che vive del suo rizoma. «Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate, poi appassisce […]. Ma io non ho mai perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quello che noi vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura4». Come certi pensieri che proliferano, creando continuamente nuove connessioni, nuove digressioni, nuovi germogli. Grazie al suo rizoma, l’asparago può riprodursi anche in condizioni avverse.

Infine, semmai sussistessero ancora dei dubbi sull’indissolubile vincolo esistente fra l’asparago e l’immortalità dell’anima e sul fatto che Campanile si sbagliò, basta scavare nella parola stessa, permutando e impiegando tutte, o in parte, le lettere che la compongono. Qui, Signore e Signori, si spalancano i sepolcri.

Pari saga (anagramma di “asparagi”)

pari ara (ara significa “altare”).

Arsi, pira.

Apri.

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4  Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Bur Rizzoli, Milano 1998

Editing di Fabiana Castellino

Wanda Luban è nata in Svizzera e vive a Locarno (Canton Ticino). È psicologa e psicoterapeuta specializzata in psicologia analitica e ipnosi. Ha pubblicato due raccolte di poesie: “Archivio celeste” (2011) e “L’esilio del tuono” (2015), entrambe edite dalla piccola casa editrice Acquaviva. La pubblicazione del suo romanzo di esordio è prevista per maggio 2024. 

«Una fotografia non è soltanto un’immagine (come lo è il quadro), un’interpretazione del reale; è anche un’impronta, una cosa riprodotta direttamente dal reale, come l’orma di un piede o una maschera mortuaria.1»

Tra la pelle fotografica e la pelle delle figure umane ritratte dall’artista Elena Ghini si percepisce uno strato di astrazione che si rigenera allo sguardo grazie a una sorta di magia assorbita da un mondo altro. L’artifizio delle pose è un gioco che spinge a ripensare le superfici, la relazione con lo spazio, le parti in ombra, di ritorno da quell’altrove.  Gli eventi fuori controllo e i ricordi si allungano sui corpi che cercano di non soccombere e si adattano: mangiando fiori, facendosi creta, intrecciandosi a una flora (cerchio primigenio intorno all’umano), traducendosi in un passaggio di luce senza volto. Lo sfondo è il nero familiare, il buio contenitore che definisce la linea di ogni presenza, la mescita dove si trova tutto ciò che non sappiamo essere.

Maria Teresa Rovitto

1  Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, tr. it. di E. Capriolo, Einaudi, Torino, 1978, p.132

Elena Ghini nasce a Lugo di Romagna nel 1972, inizia a fotografare sin da adolescente e, negli ultimi dieci anni, intensifica la sua passione, dedicandosi alla fotografia di scena (teatro e danza) e in seguito alla ritrattistica e al nudo artistico. Proprio dalla danza, e dall’amore per l’arte, prende spunto per sviluppare i suoi progetti fotografici e dare vita al proprio mondo interiore, sperimentando in ogni situazione soprattutto attraverso la luce che interpreta in modo personale.  Dal 2022 ritorna a scattare anche con la pellicola, riscoprendo la poesia dell’analogico.

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