I granchi

di Sandro Bonvissuto

© Alessio Urso

Ma ci doveva essere stato un equivoco. In mancanza di qualcosa anche solo remotamente risolutivo da fare ho pensato di baciarla sulle labbra. Lei, però, ha girato la testa di lato con un movimento lungo e teatrale che ci ha lasciati comunque vicini, tanto che potevo ancora distinguere la verità di quell’intenzione scritta nei suoi occhi. E, com’è noto a tutti, capita anche che la verità non faccia felice nessuno. Mi chiese qualcosa. Le sue parole avevano il colore della pioggia. E in quel colore insensibile è precipitato di schianto tutto quanto aveva fino ad allora ostinatamente resistito. Ho cercato dentro di me delle risposte, ma ho trovato solo altre domande. Mai nella mia vita ho parlato poco come in quel momento. Credo abbia detto la verità, eppure non è riuscita a essere del tutto sincera. Me ne andai. Non c’era nessuno a salutarmi. Certo era molto bella. Era la donna che più amavo al mondo. Era mia. Niente cambia il corso della vita come un bacio. Solo la morte ha questa forza, a fronte, però, di più pesanti controindicazioni. Il bacio, se ricambiato, è la cosa più simile all’infinito. Se ci è stato negato, resta lì, come uno sfregio d’inaccaduto. Per sempre. C’è già odore d’inverno qui per strada. Mi cerco nelle tasche, ho come l’impressione di aver perso qualcosa. Ci vuole una sigaretta. Fumare fa male, ma ci sono delle sigarette assolutamente inevitabili, che se non le fumi ti fanno ancora più male. Questa è una di quelle. Mi sento come un effetto privato della sua causa. Forse la mia storia è fatta di cerchi che ciclicamente si chiudono, come tornassero a un’origine, penso questo perché tutto ciò mi era già successo; come se l’inverosimile vita avesse scelto di replicare beffardamente sé stessa. La prima volta che una donna non ha voluto baciarmi mi trovavo su una spiaggia, e avevo sette anni. Lei era importante per me, ed è per questo che me lo ricordo. Barattavo cose felici con la vita, e quel giorno ero a caccia di granchi. Forse non avevo mai pianto, e mi trovavo proprio lì, e non in tutti gli altri posti possibili. I granchi, poi, erano grandi nemici dell’umanità, e non si decidevano se vivere fuori dall’acqua o dentro. E questa cosa mi ha sempre fatto tanto incazzare. Quando sento chiamare il mio nome, Chi mi chiama? O mi sono sbagliato? Forse è il vento. No. Mi chiamano di nuovo. Era lei; pareva spaventata di essere al mondo. Generoso come gli estroversi, ingenuamente la raggiunsi, per rivelarle dei segreti, e tutte le meraviglie che avevo scoperto lì, agli scogli. Ma le avrei detto anche la verità; laggiù era pieno di granchi, e questi non si decidevano se vivere fuori dall’acqua o dentro. Ma io ne avevo catturati tantissimi, avevo il secchiello pieno, e li avrei messi definitivamente in un posto o nell’altro, e non doveva temere per noi due; eravamo invulnerabili, e insieme saremmo sopravvissuti di certo, anzi, saremmo vissuti per sempre. Ma invece, lei, avvilita, scosse la testa con rassegnazione, non gliene importava niente dei miei granchi. Chiese ad alta voce il perché di tutto quello a qualcuno, ma io non capii mai a chi si rivolse. E non capii mai nemmeno cosa fosse veramente successo. Disse: «Il tuo problema è che non puoi fare a meno di disubbidire». Era delusa. E poi un silenzio immobile. L’unica cosa viva erano i granchi nel secchiello che avevo in mano. Perché aveva parlato in quel modo? Ma ci doveva essere stato un equivoco. In mancanza di qualcosa anche solo remotamente risolutivo da fare, pensai di baciarla sulle labbra. Lei, però, girò la testa di lato con un movimento lungo e teatrale, che ci lasciava ancora e comunque vicini, tanto che potevo ancora distinguere la verità di quell’intenzione scritta nei suoi occhi. E creò fra noi una distanza nuova, e immensa; si era spostata di quattro centimetri, e l’avevo mancata di un chilometro. Mi sentii precipitare. Disse che ero sporco di sabbia, e le sue parole avevano il colore della pioggia. Mi guardai addosso: aveva detto la verità. Eppure non era riuscita a essere del tutto sincera. E poi mi cadde il secchiello con i granchi che si sparpagliarono tutti, come schegge di uno specchio spezzato. Uno specchio nero, senza luce. Mi guardavano con quegli occhi sbagliati, e non si decidevano se stare fuori dall’acqua o dentro. 

© Alessio Urso

Cos’era stato di quell’emozione privilegiata che mi legava a lei? Era stata spazzata via in un attimo da qualcosa di incredibile potenza e legittimità, qualcosa di universale, o eterno, o tutt’e due le cose insieme. Il mondo passava dal presente all’imperfetto. Certo era molto bella. Era la donna che amavo di più al mondo. Era mia madre. In quell’orrore esistenziale ebbi lucida la sensazione che se non avessi fatto subito qualcosa, non sarebbe successo più nulla. Mai più nulla. Mi sentivo come un effetto privato della sua causa. E cominciai a scavare una buca nella sabbia. La memoria è una cosa prodigiosa; trattiene i ricordi più strani, e li conserva intatti, permettendoci di conoscere il presente grazie al passato, e viceversa. Comprendere è anche ricordare. Solo adesso capisco il senso di quel gesto che da allora, e fino a oggi, mi è parso sempre assurdo: fare quella buca era l’infantile necessità di porre nuovamente ordine nell’universo, il mio ordine. Agire sulle cose è la forma più prossima di autoaffermazione. Perché quando tutto cambia l’unica cosa che possiamo fare è ritrovare, in qualche modo, noi stessi. Subito. La meccanica di quei gesti stemperava l’attrito con la mutata realtà, e quella buca era nient’altro che una grandezza spirituale aggiuntiva, una misura dove depositare un eccesso. L’emozione di scoprire quello spazio segreto. Il miracolo della comparsa dell’acqua sul fondo mi offriva un nuovo specchio dove riconoscermi, perché è profondamente dolce comprendersi. E ci mettevo la testa dentro per sentire il rumore dei pensieri contenuti in un respiro. E mi sentivo rinato. Mi sentivo risorto. Quella era la mia protesta, la mia silenziosa rivolta. E potevo di nuovo dire di sì al mondo; dovevo accettare tutto e avrei avuto tutto. Il cambiamento era solo la parte onesta dell’immutabilità. E lo dovevo assumere per superarlo, col dignitoso consenso dell’animo davanti a ciò che non si può evitare. La buca era l’espressione di un dissenso, perché la cieca obbedienza resta una menomazione della psiche. In fondo avevo solo bisogno di trovare il modo per poter disubbidire. Aveva ragione mia madre. Per colpa sua le buche divennero, da allora e per tutta l’estate, la mia principale consolazione, l’unica alternativa alla mancanza di alternative. Ne avrò scavate un milione, sviluppando quell’estensione dello spazio con una tecnica e un’estetica assolutamente personali, dei criteri miei e unici, un po’ come fa un poeta quando si affida a un determinato verso, e un metro specifico per esprimere il suo disagio; io e la mia buca, uno dei più inesorabili rapporti uno a uno della mia esistenza. E quando me ne andavo la lasciavo lì, come un segno del mio passaggio, con tutto quello che conteneva. In fondo il mondo non era una parte di me, ma io ero una parte del mondo. Ci misi un po’ per accettare l’idea di aver perso quel bacio di mia madre. Sono stato sempre restio a cambiare opinione. Ma rinunciare a quello, è stata la condizione per avere poi tutti gli altri. E ha sempre funzionato, almeno fino a oggi. Perché tutto funziona finché non si rompe. Ora mi sento di aver perso tutto. Che cosa posso fare? Intanto me ne vado da qui; vado al mare. Non posso sbagliare; è lì che ho trovato la soluzione un tempo. E poi la verità è che sappiamo solo rifare esattamente quello che abbiamo fatto la prima volta, nel bene o nel male. L’aria certo è cambiata, ma c’è ancora un po’ di sole, e non mi piace mandare sprecato il sole.

© Alessio Urso

La vita qui è serena come la pace eterna, peccato che io non ami la pace. Né l’ho amata mai. Forse c’è qualcuno a cui domandare. Mi guardo intorno: no, non c’è nessuno. Tanto sarebbe stato inutile chiedere quello che avrei voluto, perché nessuno sa cos’è l’amore. Tutti sappiamo solo con che cosa viene sostituito quando se ne va: con la solitudine. Il mare è il posto dove è più facile sopportare la solitudine, perché il mare stesso è solo. Perché è uno. Qui non è mai cambiato niente; è qui che sono nato. Chissà se ci sono sempre i granchi? Sì, ci sono. Dopo tanto tempo non hanno ancora deciso se vivere fuori dall’acqua o dentro. Sento la sua voce più della mia. Forse è il vento. No, è lei. Avrebbe accettato qualunque cosa provenisse da me, purché non avesse richiesto l’uso dell’immaginazione. Un giorno l’ho ascoltata pronunciare il suo nome. Odorava di anima persa, ma non lo era, e mi avvicinai. Ogni cosa che contiene una contraddizione mi attira. Non avevo mai visto guardare il mondo con degli occhi come i suoi. Finse di non sapere che sarebbe dovuta venire con me, invece eravamo già segretamente d’accordo. Così ce ne andammo da lì prima del tempo, scappando come scoiattoli. E per una stagione l’amai di amore eterno. Eravamo invulnerabili, e insieme saremmo vissuti per sempre. Quello che trovammo non riguardava questo mondo, era fatto di repentina commozione, di gioie intime, dell’incanto rubato alle cose. Non ho mai dormito prima che lei lo facesse, o forse non ho mai dormito perché tutto non diventasse un sogno. Basta un’inezia per non farmi dormire la notte. Lei era la ragione più fine. E quando non eravamo una cosa sola, l’importante era assicurarsi sempre dell’esistenza dell’altro. E l’ho toccata con la cura con la quale si maneggia un ordigno. Non ho avuto nemmeno la consolazione di un bacio.

© Alessio Urso

Dai giorni dell’imperturbabile infanzia ho creduto che il cambiamento fosse l’unico dio del mondo, e per questo l’ho rispettato. Ho preso tutto come il frutto di una cieca fatalità. Lui crede che io non lo sappia, ma l’ho visto mettere le cose in bilico nella mia vita, perché sapeva che le avrei fatte cadere. Non ho mai calcolato nulla, e per lui ho rifiutato ogni altra salvezza. Ho attirato a me l’avvenire dando tutto al presente. Sono stato un ottimo cliente per il destino. E so che mi ha sempre controllato, come il cacciatore che mira la preda ma non spara. È diventato nume onnipotente e padre creatore. E oggi sono suo figlio. Ho avuto tutto da lui. Ora vedo che anche la storia ha una fine, perché a volte si ripete; non è compito mio finirla, ma crearla, come lui mi ha insegnato. E un uomo che crea diventa inevitabilmente nemico di tutti. Non riconosco giudici o repressori, ma solo la forza di questa creazione. Ma da solo non posso niente. Non posso cambiare le cose a vuoto. Il cambiamento non può essere un fine, il cambiamento è un mezzo, e come tutti i mezzi se non è animato da un valore, è solo meccanica. Il problema dei meccanismi, anche dei più evoluti, è che sono solo meccanismi. È roba da granchi. Chissà se i granchi sanno dell’amore. Magari mentre non li guardo anche loro si baciano; e, dopo aver passato la vita senza sapere se stare fuori dall’acqua o dentro, si trasformano in gabbiani e volano. In cielo. Sto delirando. Non lo so cos’è l’amore, ma forse so dov’è. Il bacio è una cosa meravigliosa, ma è sempre una cosa, mentre l’amore è l’idea di quella cosa. E quell’idea deve stare altrove. L’amore non sta in qualche posto nello spazio, ma in qualche posto nel tempo. Non dove ma quando. Non è in un luogo, è in un momento. In quel momento. Come in quel bacio. Il suo. E niente cambia il corso della vita come un bacio. Tramonta. Ci sono finali che non cambiano mai. Devo andare. Alla mia inverosimile vita chiedo solo tre cose: la prima è quel bacio, la seconda e la terza, di farmi conseguire la prima. E me ne andai. Non c’era nessuno a salutarmi. A parte i granchi.

Sandro Bonvissuto è nato a Roma nel 1970, fa il cameriere in un’osteria di Trastevere ed è laureato in filosofia. Esordisce come scrittore nel 2010, con la raccolta di racconti Nostalgia del vento (Amaranta editrice). Per Einaudi ha pubblicato Dentro (2015) e La gioia fa parecchio rumore (2020). È tra gli autori di Scena padre (Einaudi, 2013).

Alessio Urso, nato a Catania nel 1996, è laureato magistrale in Filosofia della cura presso l’università di Verona.  La sua ricerca si concentra particolarmente su questioni etiche e morali legate alla salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità,  alla differenza culturale e di genere, esplorando diversi approcci interpretativi. L’interesse per la filosofia è stato preceduto e accompagnato dalla passione per la fotografia analogica. Quello per la pellicola è un amore ben preciso, infatti Alessio ha sempre e solo scattato in analogico, imparando da autodidatta in quel processo senza fine che è l’apprendimento. Sin dai primi rullini, Alessio è stato particolarmente affascinato dalla possibilità di sperimentare, specialmente attraverso l’esposizione multipla, nella quale ha trovato un metodo che permette di  praticare la nozione di performatività mettendo in atto un processo di diffrazione, cioè  la possibilità di riscrivere le storie, comporre qualcosa di inesplorato.

Il racconto I granchi è originariamente uscito sull’inserto “TuttoLibri” de La Stampa di sabato 31 dicembre 2022. Ringraziamo autore e testata per averci concesso la pubblicazione.

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