di Aurora Dell’Oro

© David Dalla Venezia, no.665, olio su tela cm.33×33 2013
Nell’ipertesto dedicato allo spiraglio Ozio di Mauricio Miranda, tradotto dalla spagnolo da Silvia Dammacco, Aurora Dell’Oro parte dal corpo magico messo in scena da Miranda per aprire una riflessione sul corpo poetico nell’esperienza italiana del secondo dopoguerra. Il tutto legato e slegato dalla pittura di David Dalla Venezia.
Il corpo della poesia
di Aurora Dell’Oro
Come vorrei preludere a una vera-mente
a una vera-vita.
Quanto finora mi trovai vicino e
sotto gli occhi e tra le mani
scritto circoscritto descritto trascritto
non scritto,
piume pennini grafite e poi l’illustre biro1.
Stabilire un contatto con il mondo esige il possesso di un corpo, di una materia pensante che permetta di sentire e che si lasci, a sua volta, percepire. Nel fenomeno troviamo le nostre condizioni di esistenza: solo in questo modo possiamo entrare in relazione con il reale. In questo punto di contatto, nello spazio infinitesimale eppure centrale dell’interpretazione, si dà ogni volta una nuova lettura del mondo. Ma cosa accade quando il corpo appartiene a un Sè diviso e disperso, a un Sè che non ha più le parole per raccontare un mondo profondamente mutato? È da questi interrogativi che prende avvio un diverso tipo di sperimentazione letteraria e artistica, la quale riconosce l’esistenza di un corpo (individuale, ma anche sociale, collettivo) dotato di stratificazioni semantiche non ancora indagate.
in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno;
ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra; ora stride,
deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto
della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine,
la forma del tetto, il colore della paglia:
senza rimedio il tempo
si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse;
saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone?
non queste forbici veramente sperava, non questa pera,
quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache.
Per quanto eterogenee fossero le istanze espresse dalla Neoavanguardia, in essa si riconosceva una tensione conoscitiva che aspirava a un nuovo tipo di interazione con il reale. La poesia, che è una forma di contatto2, come scriveva Alfredo Giuliani, cominciava a esprimere una nuova consapevolezza del piano fisico.
Il corpo delle donne, in particolare, è sempre stato uno dei referenti testuali più presenti in poesia in quanto, per citare Zanzotto, la bellezza femminile è intrinsecamente legata agli aspetti viscerali della vita e può generare contemplazione, idealizzazione: è l’ammirazione per la completezza di «corpo-mente-aura», autosufficiente in sé. Non stupisce quindi se i corpi celebrati dai poeti siano stati soprattutto quelli femminili, evocati per mezzo di attributi discesi dall’iconografia delle madonne medievali (incarnati eterei, capelli biondi e occhi di zaffiro), e offerti alla contemplazione del poeta-amante; tuttavia, i corpi di cui si legge a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta non hanno in sé alcuna virtù beatificante. In particolare, nella poesia di Sanguineti In te dormiva (Erotopaegnia, 1960; poi in Triperuno. Purgatorio de l’Inferno, 1964) il corpo incarna una nevrosi onirica; più in generale, nell’opera del poeta il soggetto compie un viaggio che rimanda alla discesa di Dante nell’Inferno, ma le “beatrici” di Sanguineti, Ellie e lambda, sono rilette alla luce della psicoanalisi. Escluso è l’orizzonte della fede.
Pertanto, se nei componimenti dei poeti stilnovisti la bellezza femminile era in potenza salvifica, poiché in essa si riconosceva l’operato di Dio; se tale facoltà era ancora più forte quando la bellezza apparteneva a una donna morta, dunque incorruttibile e ferma nella memoria del poeta, nel secondo Novecento la lingua poetica del Due e Trecento s’innesta nella sintassi di linguaggi nuovi che costringono a un ripensamento del lessema “corpo”.
Nel secondo dopoguerra, l’alfabeto impazzito del paesaggio induce a credere che non sia più possibile fornire letture coerenti del mondo: le vecchie mappe sono ormai inutilizzabili, e così le vecchie narrazioni. Non c’è dubbio, tuttavia, che raccontare il reale sia necessario, soprattutto se, come Zanzotto, si ritiene che sia lo scopo principale della poesia; il suo atto d’amore verso la bellezza e la bontà3. Ciò non toglie che il collaudo4 del mondo che il testo poetico propone possa, spesso, tradursi in un tentativo che invita il lettore a ripetere, ancora e ancora, l’operazione che consiste nella riattivazione di senso del linguaggio. Eppure, se conoscere l’intima essenza del reale è impossibile, si possono conoscere i suoi meccanismi di funzionamento, per mezzo di un’esperienza che procede per tentativi ed errori e che si declina, nelle sue forme più felici, nel gioco. L’espressione rosselliana di sperimentare con la vita si concretizza perciò nell’assunzione di un rischio, o se si preferisce, nel lancio di una scommessa che coinvolge le possibilità espressive e trasformative della parola.
Per la poetessa, avere a che fare con la carne del mondo significa toccare le corde di una nuova relazione tra un io e un tu, in cui non è mai del tutto evidente quale sia l’identità dell’interlocutore: può essere amante, padre, fratello e amico. Certa è solo la sua assenza. Il fantasma a cui la poetessa rivolge il suo discorso interiore acquista concretezza proprio in virtù del dettato poetico che esiste per essere letto ad alta voce: è nell’emissione della voce umana, infatti, che la Rosselli affida le possibilità di sopravvivenza dei suoi molti corpi. A tal proposito, il saggio Spazi metrici (1962), in cui la poetessa fa tesoro dei suoi accuratissimi studi di musicologia, teorizza la costruzione di “gabbie metriche” all’interno delle quali le sillabe assumono una loro consistenza fisica, garantita anche dallo spazio che occupano sulla carta. Così la poetessa in Variazioni belliche (1964):
Affascinata dalla praticità osservai un
uomo usuale senza curve portare lievemente un materasso
rosa sulle spalle, mentre ridendo come pulcinella ricordavo
che v'eri. E non finì male la serata, se non che tu esistevi
oltre ogni riflessione, e fuori d'ogni previsione. Tornata
a casa dopo tante e tante insegne luminose v'eri ancora
e ancora e ancora. Ancorata a te la tua immagine in me
non si disfa, tu la proteggi: I'immagine che disfaceva
giornate e giornate e giornate ritornava con te, senza di
te per te nella solitudine di questa primavera che gal-
leggia in pieno inverno, la mia anima!
È inevitabile che questo nuovo mondo, in cui sembra che non solo ciò che è visibile possa dirsi reale, esiga una diversa definizione del corpo e di un nuovo linguaggio che descriva gli effetti del contatto tra il soggetto e ciò che si trova al di fuori di lui. Se per Rosselli è la poesia stessa a farsi materia, per altri autori è il paesaggio a diventare corpo poetico, un corpo vampirizzato a cui occorre ridare humus (per citare il saggio introduttivo di U. Eco a Gruppo 63) attraverso un’escursione linguistica che abbracci il balbettio pre-fasico e il lessico sublime, come constatò Umberto Eco in La generazione di Nettuno, saggio introduttivo alla prima antologia del Gruppo 635.
Esistere psichicamente
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
– soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli –
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d’alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.
Come dichiara il titolo Esistere psichicamente (Vocativo, 1981) della poesia di Andrea Zanzotto, il corpo è un corpo-psiche che trova sostanza nella poesia stessa. Quel che resta della sua materialità si amalgama alla terra, si disfa nella bava degli eventi: le schegge del Sé fratturato sono nel cortocircuito tra il morente muco e nel chiarore d’uovo della parola, riattivata di senso in quanto parola poetica. Non stupisce, quindi, che la psicanalisi abbia un ruolo preminente nella ricerca dell’autore: per Zanzotto la psicanalisi è infatti una, forse la più importante, delle forme con cui si realizza quello scavo dell’animo che ha analogie profonde con la poesia6. In modo analogo, la poesia assume una valenza terapeutica, diventa lo strumento di espressione di quel Sè diviso che, attraverso l’uso di una parola evocativa e magnetica, richiama le sue parti disperse. In questo (auto-)atto di cura in cui tutto è inghiottito, è difficile distinguere ciò che finisce da ciò che comincia a essere, il soggetto dall’oggetto, il Sè dal paesaggio che lo contiene.
- Andrea Zanzotto, Possibili prefazi o riprese o conclusioni, vv. 1-7, in La Beltà, Milano, Mondadori, 1968. ↩︎
- A. Giuliani, La poesia, che cosa si può dire, in «il Verri», n. 3, 1962. ↩︎
- A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti, 2009. ↩︎
- Ibidem ↩︎
- U. Eco, La generazione di Nettuno, in Gruppo 63, Milano, Feltrinelli, 1964. ↩︎
- A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti, 2009. ↩︎