di Martina Maccianti

© Ugo Villani
Uno dei principali riti vudù è la cerimonia del retirer d’en bas de l’eau, il richiamo dell’anima del defunto dalle acque abissali, dal mondo degli Invisibles. Questa cerimonia per i morti ancestrali non è dovuta a nostalgia o sentimentalità. […] Non si tratta di un ritorno al passato, ma di un processo col quale la specie reincorpora, nel momento attuale, il frutto di precedenti vite, e quindi mantiene il passato come terreno di conquista sul quale, e dal quale, procedere verso il futuro. I vivi non servono ai morti, ma i morti sono messi al servizio dei vivi.
Maya Deren, I cavalieri divini del vudù
Erano giorni plumbei avvolti da un’atmosfera densa, vissuti in stanze fredde e mani di passaggio.
Ero alla ricerca di una comprensione più profonda di cosa stesse succedendo, uno sguardo tra le ossa, dimenandomi tra i muscoli, qualsiasi sentiero mi portasse oltre il velo del pianto.
A ogni saluto e sguardo quel momento risuonava in me come qualcosa di incredibilmente solenne. Per la perdita di uno, sentivo la presenza di mille, degli antenati, dei defunti che continuavano a vivere nelle pieghe del tempo.
Per un attimo, nel cerimoniale che sembrava non terminare più, mi vidi camminare lungo un sentiero costeggiato da un alone di tristezza e di bellezza struggente. Finalmente le lacrime scendevano silenziose lungo le mie guance, come un fiume di emozioni represse che finalmente trovavano una via di sfogo. I suoni del pianto, a volte sibili a volte lamenti, si mescolavano con il sussurro del vento.
Ero avvolta, e procedevo sul sentiero. Non c’era più soltanto dolore: quel cammino lo stava trasformando in un abbraccio di conforto.
Fu soltanto dopo un po’ che mi resi conto di non essere sola. Intorno a me volti che riconoscevo, altri meno, che procedevano a rilento, con passi pesanti. Dalle loro voci sentivo sussurrare il mio nome che faceva breccia nel pianto: questo non era più un suono definito, diventava un cantico lungo il percorso, che sembrava voler lasciare tracce di quel dolore.
Quelle tracce, quei pianti, guidavano me.
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© Ugo Villani
Nel mondo antico il pianto rituale occupava un ruolo rilevante in molte culture. Si credeva che questo potesse facilitare il passaggio dell’anima del defunto nell’aldilà e aiutare i vivi a comunicare con gli antenati. O ancora, che avesse il potere di placare gli dèi o gli spiriti maligni, assicurando la protezione della comunità e il benessere dei vivi. Svolgeva una funzione di catarsi emotiva per i partecipanti alle cerimonie funebri. Attraverso il coinvolgimento nel pianto collettivo, le persone trovavano un canale per esprimere il proprio dolore e affrontare il processo di lutto in modo condiviso; permetteva di elaborare il trauma della morte e di iniziare il percorso di guarigione.
«Lamentarsi è innanzi tutto […] un incantarsi nella presenza rituale del pianto, ed è al tempo stesso un incantesimo per il morto, una recitazione di moduli verbali e mimici che aiuta il cadavere vivente a raggiungere la sua stabile condizione nel mondo dei morti e che mediatamente ridischiude il processo di interiorizzazione del defunto. Lamentarsi è un mobilitarsi dei vivi per operare sul morto in modo da facilitargli il raggiungimento della sua dimora definitiva (= momento della separazione) ed in modo da tramutarlo in alleato dei vivi (= momento del rapporto e della interiorizzazione).»1
Il corteo funebre, un rituale solenne che accompagna la partenza di una persona cara da questo mondo terreno, è un momento di dolore e ricordo condiviso. È un momento in cui i vivi si riuniscono per commemorare la vita del defunto, per confrontarsi con la propria mortalità e cercare conforto nell’abbraccio della comunità. In questo contesto sacro, il suono del lamento prodotto dal pianto diventa il contenitore di qualcosa di profondo, una testimonianza dell’esperienza di perdita e nostalgia. Il cuore di questo corteo è un ritmo naturale, un battito pulsante che guida i partecipanti al lutto mentre si muovono all’unisono. Questo ritmo, spesso lento e deliberato, riflette il peso e la solennità dell’occasione. Nella sua cadenza misurata, il ritmo consola, fornendo una struttura ai luttuosi per navigare le loro emozioni e trovare una voce collettiva.
La nenia – un canto o una melodia luttuosa – emerge dalle profondità del dolore, trasformando il lutto in una vicinanza nella perdita. È un vettore di catarsi che permette agli individui di liberare le emozioni represse, di confrontarsi con la realtà della morte e di trovare conforto nel dolore condiviso. Le sue melodie si intrecciano nell’aria, diventano un incantesimo per il futuro, per accompagnarlo nel suo temuto trapasso.
Trasponendo il corteo funebre alla produzione culturale contemporanea, gli intellettuali svolgono un ruolo cruciale: sono i custodi dei rituali sacri, gli oratori che danno forma alla narrazione del ricordo e i poeti che danno voce al non detto. Con le loro parole, i loro suoni e le loro opere articolano il dolore collettivo, intrecciando storie, ricordi e riflessioni in un arazzo di significato. Come i morti viventi nel quadro mitico-rituale sono trattenuti nel loro passaggio, gli artisti e gli intellettuali si sforzano di trattenere il futuro nel presente, nonostante lo vedano come un corpo morto. Il pianto, la nenia messa in atto da questi, non è semplicemente un’espressione di pessimismo o di utopia, ma un modo per relazionarsi con il futuro, per tessere una rete di relazioni interiori di consolazione.
Artisti e intellettuali contemporanei di tutte le declinazioni, quindi coloro che sono chiamati a dare forma e significato al mondo che li circonda, a immaginarne di nuovi, sembrano condividere con queste pratiche l’atto dell’accompagnamento del lutto, della sua ritualità.
Se da un lato vedono il futuro come qualcosa di morto, di già dannato, e piangono per la sua morte, dall’altro lamentano ciò che avrebbe potuto essere, ciò che ancora potrebbe essere, e sembra destinato a rimanere un sogno irraggiungibile, cercando di attivare una ritualità che immobilizzi quel passaggio alla morte, bloccando la condizione ultima. Mentre piangono il futuro, mantengono vivo il dialogo sulla possibilità di un mondo nuovo. Si impegnano in un incantesimo, in una sorta di rituale che li collega alla dimensione del futuro e li trattiene in un limbo catartico.
Si muovono tra separazione e relazione, tra morte e vita, cercando di trasformare il futuro in un alleato dei vivi.
Una marcia funebre, con il suo tempo lento e misurato, porta con sé un peso di dolore e riverenza. Così come questa avanza costantemente, anche l’opera dell’artista ci trascina in un viaggio. Ci invita a contemplare la fragilità, spingendoci a riflettere su ciò che sarà. L’artista diventa una guida, offrendo momenti di catarsi e di guarigione. L’assonanza tra il lavoro dell’artista e l’atto di accompagnare una processione risiede nella loro comune capacità di evocare una profonda risposta emotiva. La marcia funebre e la creazione intellettuale fungono entrambe da canali per il lutto e il ricordo collettivo. Offrono uno spazio per la contemplazione, permettendoci di affrontare il nostro dolore, abbracciare la bellezza e la fragilità della vita. Troviamo echi della solennità, del ritmo e dello scopo della processione.
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© Ugo Villani
Lydia Ourahmane è un’artista multidisciplinare che lavora tra l’Algeria, suo paese di origine, e il Regno Unito; il suo lavoro è stato descritto dalla scrittrice Fanny Singer, in una recensione della mostra del 2020 al CCA Wattis di San Francisco, come «un accanito inseguimento dell’eterno».
Solar Cry è un’opera dell’artista che prende vita tramite suoni, segni permanenti e spazi vuoti. La ricerca artistica di Ourahmane è legata a temi complessi come la spiritualità, la geopolitica contemporanea, la migrazione e la storia del colonialismo. Solar Cry è messo in atto come un ambiente che assorbe i corpi di coloro che lo attraversano, lasciando incisioni non visibili. L’opera si basa sull’uso del suono, con registrazioni di una cantante lirica che intona note dissonanti all’infinito e di un metal detector che emette un grido nel vuoto.
L’artista dà peso a quel vuoto. Lo spazio, qui, muta in una processione invisibile.
Nell’installazione sonora The Third Choir, realizzata da Ourahmane nel 2014, i venti barili di petrolio Nafial vuoti, esportati dall’Algeria nel 2014, diventano oggetti simbolici che rappresentano il processo burocratico del movimento migratorio. Ogni barile contiene un telefono cellulare sintonizzato sulla stessa frequenza di un trasmettitore radio FM, consentendo ai dispositivi di riprodurre simultaneamente un brano sonoro amplificato all’interno dei barili stessi. Il futuro è incerto, molti corpi sono bloccati prima ancora di muoversi. La burocrazia, il controllo, il vuoto. I telefoni sul fondo dei barili sembrano resti. Salme.
Ourahmane mette in atto un rito di accompagnamento verso il passaggio del futuro ad altri mondi. Un funerale sonico, vibrato, che trattiene il trapasso e fa continuare a sperare, nonostante la speranza se ne sia andata nel pianto.
La ripetizione del suono disarmonico e del grido del metal detector evocano una sensazione di lamento, simile a un cantico, che guida e accompagna coloro che si avventurano in un tragitto incerto. Il suono che riecheggia dai barili fa diventare il corpo, nello spazio precario, vulnerabile. E in questo lascia una traccia. L’esplorazione del concetto di come credenze ed esperienze si registrino sul corpo e si materializzino attraverso di esso ci fa chiedere: queste tracce rimarranno negli edifici vuoti, come un’eco, anche dopo che i corpi se ne saranno andati? Quali saranno ceneri e rovine che lasceremo?
«Even now hope in less ness Even now
How?»2
Rimanendo nel territorio sonoro ci catapultiamo nella dimensione prodotta da James K, artista che lavora tra suono, arte visiva, performance, teoria femminista e scrittura. K è un essere in costante divenire, difficile da racchiudere in una definizione rigida. Muta ininterrottamente, a noi resta il suono. E quello prodotto, utilizzato, raggiunto dall’artista ci porta in uno spazio sacro, fatto di lame, voci, pianti.
Nel 2023 viene pubblicata dalla label TT una compilation dal nome Through Fire and Flames, e al suo interno il singolo Destroying Angel di K. I minuti che passano diventano un circolo continuo, una litania. La chitarra smette di essere strumento, diviene voce e si unisce al canto, che è disteso e conforta: ha inizio la processione. I suoni mettono i panni di una tempestosa cantilena che fa compagnia in un viaggio doloroso. Questa diventa un abbraccio catartico. Ogni suono si fa carico di lame affilate, del fuoco, di voci disperate, trasformandoli in un corteo che ci accompagna, nella memoria di un tempo che non è mai stato. James K ci invita a sospendere il nostro bisogno di comprendere tutto, di vedere chiaramente il futuro che se ne va, e ci conduce verso una dimensione più profonda. La sua musica diventa un veicolo per l’indefinibile, per ciò che sfugge alle parole e si manifesta solo attraverso il suono. Proviamo una nostalgia nuova, di qualcosa che probabilmente mai sarà. La processione non è individuale, ma collettiva. La cantilena ci avvolge, e in questo funerale sonico, ci uniamo in silenzio, lasciandoci trasportare.
«Ciò che muove le mie opere è il desiderio di elaborare e mettere insieme il mio percepito. Suppongo di aver sempre avuto l’impulso di tradurre la mia esperienza; il processo per me è simile al sogno, incanalando quello spazio liminale, dove il familiare incontra l’estraneo per poi esternarlo. Che sia sotto forma di suoni, parole, immagini, insomma una sorta di narrazione continua di emozioni e di storia.»3
Come per ciò che anima la pratica del pianto collettivo, intellettuali e artisti cercano di lasciare tracce del mondo che conoscono, tramite briciole, segni, immagini, suoni, cosicché, in qualche modo, queste possano persistere e influenzare il ricordo; sono guardiani di memoria e di cosa sarà.
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© Ugo Villani
Poche altre volte nella mia vita avevo percepito una sensazione simile. Quegli episodi, o forse dovrei chiamarli incontri, non mi vedevano protagonista allora. Non c’era carne, non c’erano ossa, neanche il pianto c’era nella sua forma più reale e terrigena, ma quel sentiero popolato di lamenti sembrava prendere forma tutto intorno. Non furono una perdita o una dissolvenza a palesarlo, ma dei suoni.
Le prime note iniziarono a riempire l’aria e a intrecciarsi in un’armonia malinconica. Sembravano celare un messaggio proveniente da un tempo che doveva ancora venire, da decifrare tra i pensieri più cupi. Nella rigidità di quel palazzo antico il suono si diffondeva rarefatto, quasi incerto. I frammenti sonori, singolarmente così freddi e meccanici, si imbattevano gli uni negli altri risuonando come un grido soffocato.
Cosa succede quando il presente si fonde con il futuro e il tempo si trasforma in una cantilena? Cosa nasce quando più voci piangono lo stesso corpo morto?
Era un vuoto titubante, che quasi zoppicava, quello che si rivelava davanti a me. Come la convivenza con un arto amputato mi sembrava che qualcosa si fosse staccato da me. Perché continuavo a sentirlo? Non capivo, ma sapevo che dovevo tenere un filo tra di noi, una candela accesa che indicasse una via.
Piangi, piangi, dolce anima stanca, canta canta la tua triste ballata,
di un futuro perduto e passato
che questa cantilena eterna mai consuma.
Piangi, piangi, dolce anima stanca, canta, canta la tua triste ballata,
di un futuro perduto e passato
che questa cantilena eterna mai consuma.
Editing di Fabiana Castellino
Martina Maccianti (1992) è la fondatrice di Fucina, spazio di pensiero, immaginazione, lotta, che cura insieme a Murphy Tomadin, Alessia Dulbecco e Francesca Franzè. Ha studiato Architettura e scrive nella speranza di contribuire a gettare le fondamenta per altri futuri, diversi e possibili.




«In passato […] gli uomini non avevano imparato a vedere chiaro. Brancolavano nel buio e quasi non sapevano dove fossero e cosa fossero. Come uomini in una camera oscura sentivano solo le loro personali esistenze sorgere improvvisamente all’ombra di altre creature»4.
Protagonista della fotografia di Ugo Villani è il contrasto. Il fotografo intesse con il buio un rapporto pittorico; il passaggio tra luce e ombra è un luogo limite, una crepa dalla quale le figure emergono all’improvviso. Ombra e persona si confondono in un dialogo alla pari, sono spettri visibili dentro un cono di luce che svela il doppio altrimenti invisibile che soggiace al reale.
Dentro questa registrazione della vita quotidiana, nel flusso di cose e persone, emergono anche le parole: frammentate, sottratte a un senso compiuto, svuotate dal loro significato e trasformate in enigmi. Questo perché l’obiettivo fotografico registra, non legge; la città si manifesta nascondendosi, rivela quello che Walter Benjamin chiama “inconscio ottico”: un mezzogiorno perenne che è anche mezzanotte.
L’artificiosità forzata di un universo popolato soltanto da contrasti, senza passaggi chiaroscurali, diventa, in quest’ottica, più vera del vero proprio perché la luce solare è usata in maniera esplicita come un occhio di bue puntato sul palcoscenico dell’esistenza.
Nella città raccontata da Villani esiste una enfilade di geometrie, gallerie e archi di luce, effimere eppure reali come quelle dell’architettura di pietra, che compongono un sentiero compositivo in cui il tessuto urbano si riflette moltiplicandosi: è la città della proiezione, dell’effimero; la città del tempo che vive dietro – e dentro – quella dello spazio.
Livia Del Gaudio
Ugo Villani (Salerno, 1978) è un architetto. La fotografia è per lui motivo di comprensione e rielaborazione del mondo che ci circonda, mezzo attraverso cui riesce a trarre ispirazione nel suo lavoro. Attraverso la fotografia cerca di far collimare l’interesse verso le geometrie urbane con la curiosità verso l’uomo, normale fruitore dello spazio architettonico.