di Fabiana Castellino

© Ugo Villani
Una ferita è anche un’apertura
di Fabiana Castellino
Dare più spazio e più tempo al congedarsi e al lutto è un compito della società. Ma è anche una questione di coscienza.
La fine della morte, M. Riesewieck e H. Bloch
Il saggio La fine della morte di Riesewieck e Bloch inizia e finisce con lo stesso episodio. In un programma televisivo della Corea del Sud si vede una madre correre incontro a sua figlia, una bambina di circa sette anni. Giocano insieme, si sorridono, si parlano, la madre ha fatto in modo che la bambina avesse i suoi cibi preferiti. Madre e figlia però non si toccano mai, non si abbracciano, non si tengono per mano. Non possono farlo, perché la bambina è morta anni prima. La bambina che gioca con la madre non è che una sua riproduzione virtuale, fedelissima grazie ai video e alle registrazioni che i genitori hanno girato quando la figlia era ancora viva.
Nel loro saggio, gli autori spiegano come le tecnologie più avanzate, che fanno capo soprattutto all’intelligenza artificiale, siano impiegate per allontanare da sé la morte. Non per ostacolarla, e dunque allungare la vita, né tantomeno per prepararsi a essa. La morte viene solo negata.
Se dopo la scomparsa di una persona cara noi avessimo immediatamente una sua fedele riproduzione – virtuale o robotica – con la stessa intonazione di voce, la stessa mimica facciale, le stesse storie o barzellette da raccontare, allora la morte non avrebbe bisogno di esistere. Non sarebbe che una pausa fra la versione originale della persona scomparsa e la sua versione informatica.
«Il voler scacciare la morte […] è dovuto alla nostra concezione tecnomeccanica del mondo, che è votata all’efficienza e al pensare in termini di progresso.»1
Eppure, tutto ciò che nascondono gli ingegneri e gli informatici che tanto si dedicano a far scomparire la morte non è solo la paura di essa, o il lutto a cui non si sono rassegnati, bensì la profonda solitudine che li ha circondati. Del dolore per una morte si arrossisce perché di fronte a esso si è nudi e tutti aspettano con ansia che ci si rivesta. Non si spogliano con te.
«I rituali di lutto collettivo come l’esposizione del feretro, il banchetto funebre, il vestirsi di nero per giorni, settimane o mesi, le messe commemorative e le pratiche che alcuni secoli fa […] erano ancora in uso corrente, oggi sono spesso l’eccezione. Insieme ai rituali religiosi che per tradizione richiedevano tempo e venivano portati avanti collettivamente dalle nostre società, è sparito il sentirsi in diritto da parte dei singoli di essere in lutto ancora molto tempo dopo la perdita di una persona amata.»2
Se la morte è una ferita è anche un’apertura, che vi si guardi o meno attraverso è una scelta, che tuttavia non deve essere negata.
Se la tecnologia del futuro sarà volta alla ripetizione sempre uguale e all’infinito delle stesse vite, oramai prive di contesto ed evoluzione, non sarà la morte a scomparire, ma la moltitudine delle possibilità di vivere di chi resta. Poiché la morte non è mai fine a sé stessa e la vita non è fatta per essere eterna.