La regina degli acufeni

di Recaredo Veredas

Traduzione di Silvia Dammacco

© Simona Salerno

Per gli americani la vita è un grande business. Impossibile per loro non approfittare di un disturbo che colpisce il 20% dell’umanità. Mi riferisco a quel ronzio costante nell’orecchio che non dà tregua né di giorno né di notte. Lo si considera una maledizione perché la maggior parte dei medici non crede alla sua reale esistenza. Lo considerano un fenomeno psicologico o traumatico, un sintomo che non lascia traccia nell’organismo. È comparso un pomeriggio d’inverno. Senza alcun motivo apparente, un coro di mosche si è insediato nel mio cervello. Pensai a un fastidio momentaneo e invece no. Appresi subito che chi ne soffre deve rassegnarsi a sopportarlo per l’intera esistenza. Nel mio caso, tra l’altro, ne soffre anche mia madre. Si tratta, dunque, di una delle cose negative che ho ereditato da lei insieme all’ansia. Di buono c’è l’ottima dentatura e dei bei capelli. Al mercato degli schiavi avrei ottenuto una buona quotazione.

Ho sofferto tre anni di ronzii continui, giorno e notte, prima di scoprire l’esistenza di una terapia. Avevo preso farmaci di ogni tipo, ero stato da diversi fisioterapisti, osteopati e guaritori. Dormivo ascoltando rumori bianchi insieme a cantici di uccelli o diverse tipologie di pioggia. Non ho riflettuto troppo se seguire o meno la terapia. Almeno offrivano una garanzia medica.

Le sedute avevano luogo in una clinica di medie dimensioni, costruita negli anni 70’ con cemento e vetro nella parte nord della città, non lontano da dove avevo trascorso tutta la mia infanzia. All’interno della clinica c’erano per lo più assicurazioni mediche con trattamento apparentemente privato che scivola lentamente verso la precarietà. All’ultimo piano c’era una zona dedicata esclusivamente alla medicina a pagamento. Cash. Qualsiasi servizio oggi deve disporre di una zona VIP, con un extra che ti faccia sentire un privilegiato. Una sua reception e una sala d’attesa arredate come una catena alberghiera con quadri astratti e mobili di design a buon mercato. 

L’équipe era diretta dalla dottoressa Salazar che aveva dedicato tutta la sua vita agli acufeni (nome scientifico del disturbo) tanto da aver scritto una tesi di dottorato sull’argomento, nientemeno che all’università di Stanford. Nella dorata California. Nonostante la sua giovane età, meno di quarant’anni, poche persone al mondo conoscevano l’acufene meglio di lei. Il suo merito non si limitava alla conoscenza dell’argomento; era riuscita a convincere una multinazionale del settore medico a dedicare mezzo piano di una clinica a un sintomo così esoterico.

Il costo di ogni seduta era di 90 euro, prima però bisognava passare un test dell’udito che costava sui 150 euro. Non avevo mai pagato un trattamento medico prima d’ora. Mi ero sempre appoggiato a un’assicurazione sanitaria ma il ronzio era così fastidioso, talmente incessante che decisi che me lo sarei potuto permettere. Il giorno programmato per il test dell’udito, l’acufene era praticamente al minimo, sembrava quasi scomparso. Era un morbido rumore di sottofondo che si confondeva con il traffico. Per la prima volta in vita mia, cercai di fare in modo che aumentasse ma senza successo. All’interno della clinica, i pazienti con assicurazione medica riempivano le sale d’attesa e aspettavano in media un’ora per effettuare il mio stesso test. Provai un mix di supponenza e vergogna quando attesi appena due minuti perché noi veri pazienti privati usufruivamo di un pass premium. Percepivo un senso di disprezzo mentre entravo in sala visite saltando la coda. Mi chiusero in una cabina, mi misero degli auricolari e tentai ancora una volta di far tornare il ronzio. 

Non ci fu verso per cui cercai di ricrearlo nella mia testa immaginando quel rumore momentaneamente inesistente. Ciononostante, riuscì a rendere il test verosimile. L’infermiera mi rivolgeva domande sul volume, la frequenza, l’intensità, se assomigliava più a un zzziizzizizizizizi o a un zzuzuuzuzzuzuu, se era più legato all’ansia o alla calma, se avevo un trascorso da cacciatore o se avevo lavorato con trapani e trivelle, se il disturbo compariva maggiormente la mattina o la sera. Era, senza ombra di dubbio, un test completo. Se il sintomo fosse stato presente in quel preciso istante sarebbe risultato persino utile.

La prova audiometrica rilevò una certa perdita dell’udito dovuta al trascorrere delle decadi – ho già 53 anni – e all’utilizzo intensivo degli auricolari.

La settimana successiva avrei iniziato con la prima seduta. Nello studio privato, a differenza dei piani dedicati alle assicurazioni mediche, non c’era praticamente nessuno. A volte c’eravamo solo io, la dottoressa Salazar e l’infermiera, circondati da poltrone, lampade di design e stanze vuote. Sentii la mancanza di una bella pila di riviste. Da quando la gente legge i giornali sui cellulari nessuno sistema più riviste negli studi medici. In sintesi, sembravo un ologramma, uno sfondo installato nella mia testa. Sentivo una strana solitudine, quasi onirica, che aumentava quella mia abituale sensazione di irrealtà. Niente di nuovo: credere che il mondo non esita e che tutto sia il risultato di un’allucinazione schizofrenica fa parte delle mie fantasie.

La prima seduta la tenne la dottoressa Salazar in persona a cui nulla di ciò che riguardava gli acufeni poteva sembrare strano. Aveva i capelli biondi con dei colpi di sole, era più attraente che bella e mostrava un interesse genuino per il paziente, per i suoi trascorsi e, naturalmente, per i suoi problemi psicologici. Non dimentichiamo che la maggior parte dei casi ha un’origine psichica. Gli altri sono conseguenza di traumi uditivi di diversa origine.  Per prima cosa mi spiegò che, dopo decenni di studio, aveva individuato insieme a un gruppo di esperti l’origine del disturbo che risiede in minuscole cellule dell’orecchio che con il passare del tempo si consumano e si disintegrano.

© Simona Salerno

Gli ultrasuoni hanno lo scopo di rigenerarle per riportarle alla vita come piante appena annaffiate. Mi comunicò che c’era un 30% di possibilità che il disturbo scomparisse del tutto e un 70% di possibilità che lo stesso si riducesse. Mi andava bene. Per i disperati qualsiasi opzione va bene. Il trattamento in sé consisteva nell’applicazione di calore e onde sulla zona trattata. Lo scopo era la rigenerazione delle cellule e una variazione della frequenza uditiva. Dopo il trattamento l’acufene non sarebbe più stato avvertito dai neuroni anche se, nella profondità dell’orecchio, al limite della percezione, avrebbe continuato ad esistere. O forse no. Perché se il ronzio non si sente, esiste? Esiste un rumore se nessuno lo sente? Praticamente il vecchio dilemma dell’albero caduto nella foresta associato alle mie orecchie. Capii dunque che, così come i guaritori che curano il cancro con unguenti e cosmogonie, la dottoressa Salazar si sarebbe presa il merito di qualsiasi casuale miglioramento. Tutto ciò che fino a quel momento era appartenuto al caso, adesso apparteneva a lei. Forse le cure mediche non sono sempre importanti come crediamo. Forse i miglioramenti sono più che altro spontanei e la maggior parte dei successi sono frutto del caso. O del destino.

Durante la prima seduta mi versò un gel piuttosto appiccicoso sul collo e nella zona dell’orecchio. Poi iniziò con il calore. Si sarebbe fermata solo nel momento in cui avessi sentito un vero bruciore, un vero e proprio dolore alla pelle che ricopre l’orecchio e non in caso di fastidio perché il fastidio avrei dovuto sopportarlo. Tuttavia, la dottoressa Salazar era così delicata e ti faceva sentire così importante che il dolore non risultava così trascendente. Avrei potuto sopportarlo fino all’ulcera. Mi raccontò che arrivavano pazienti da tutta la Spagna, solo per un paio d’ore di terapia settimanali, pazienti che poi rientravano a casa a Vigo, Saragozza, Siviglia. Una volta aveva ricevuto persino un paziente francese e naturalmente numerosi milionari sudamericani, quelli che ormai si erano stabiliti a Madrid negli ultimi decenni. Aveva curato anche pazienti famosi di cui però, con una certa civetteria, non fece il nome. La seduta durava 40 minuti per cui c’era tempo per il silenzio e per conversare su vari argomenti. Uno dei suoi più grandi pregi era il rispetto per i momenti in cui il paziente preferisce tacere. Sapeva come evitare questa situazione così frequente nella vita di tutti in cui è obbligatorio conversare, superare i silenzi. Era, insomma, una professionista di altissimo livello.

Dopo avermi mostrato il suo catalogo di pazienti mi chiese se avessi degli hobby. Menzionai la scrittura sottolineando che non si trattava esattamente di un hobby e nemmeno di un lavoro. Quando lavori hai entrate e io con la scrittura non avevo guadagnato un euro. Le chiesi che tipo di scrittori le piacevano e nominò proprio Houellebecq. Mi risultò strano sentirlo nominare nella zona nord di Madrid, in una clinica privata, dalla bocca di una dottoressa assolutamente incontaminata, che viveva con suo marito e i suoi due figli in un quartiere residenziale con piscina nei pressi della clinica, in una delle zone più care della città. Le era piaciuto soprattutto Estensione del dominio della lotta.

– Mostra come il mercato ha inghiottito tutto, anche l’amore – disse con assoluta convinzione.

© Simona Salerno

Mi raccontò anche che la sua era una famiglia di quattro figli, di Badajoz, e che aveva studiato medicina grazie a una borsa di studio. La dottoressa iniziava a piacermi. Quel mix di durezza e profondità non era così comune. Come molti di quelli che si son fatti da soli, era ultraliberale. Mentre il calore mi bruciava quasi la pelle, mi disse che appoggiava la politica sanitaria della Ayuso confermando la responsabilità dei medici e la loro poltroneria. Mi sembrò un esemplare unico: avevo sempre creduto che la letteratura indipendente spagnola fosse un fenomeno di quartiere, confinato al centro della città e al suo anticonformismo ma questa otorina con dottorato a Princeton e ultraliberale sfatava del tutto questa teoria. La possibilità che mi conoscesse o che mi avesse letto non era neanche vagamente ipotizzabile.

Tornando a casa in taxi arrivai a pensare che avesse preparato un discorso letterario perfetto per me, che offrire a un paziente una conversazione che si adattasse al cento per cento ai suoi gusti e alle sue necessità fosse in qualche modo parte del mestiere. Tuttavia, se così fosse stato, avrebbe letto qualcosa di mio, cosa che non aveva fatto e che non aveva preso nemmeno in considerazione. In ogni caso, la dottoressa Salazar era un’eccellente venditrice, talmente brava da far credere ai suoi pazienti di essere davvero interessata a loro. Succede spesso nei servizi di lusso, dagli hotel alle cliniche, dai fisioterapisti ai ristoranti: l’attenzione include un’empatia tanto falsa quanto convincente. Il cliente deve credere che esiste un interesse autentico nei suoi confronti, deve sentirsi così unico da dimenticare che l’origine di quella vicinanza è semplicemente il suo denaro. Un professionista esperto sa come ottenere un apparente legame di amicizia che passa per quella fiducia genuina che si ha solo con gli amici, la famiglia e pochi sconosciuti. Ad ogni modo, non posso escludere che parte dell’interesse mostrato dalla dottoressa Salazar fosse autentico. L’essere umano è bizzarro e il punto di contatto tra gli opposti non è solo possibile ma probabile.

La prima seduta non ebbe alcun effetto sul ronzio. O forse sì, impossibile da valutare su un disturbo così ambiguo. Probabilmente il volume era diminuito oppure era comparso solo in una delle orecchie. Non ricordo. In ogni caso, la dottoressa disse che l’effetto l’avrei notato solo dopo otto o nove sedute. Al successivo incontro dovetti aspettare dieci minuti su una di quelle poltrone bianche. L’infermiera mi offrì del caffè, lo prese dalla macchinetta e lo pagò lei scusandosi tre volte. La dottoressa arrivò stravolta. Aveva dovuto accompagnare i figli a scuola. In quel momento apprezzai un’altra differenza della sanità d’élite. Nell’ambito delle assicurazioni mediche e nella previdenza sociale nessuno si scusa. Ammetto che provai delusione nel sapere che era sposata e che aveva addirittura due figli. Naturalmente sorrisi e le dissi che avevo una figlia di 10 anni. Le raccontai che ero molto preso dalla sua educazione e che ogni pomeriggio facevamo i compiti insieme. Mentre mi spalmava di nuovo il gel sull’orecchio mi disse che era una cosa molto importante, soprattutto per i bambini. Non raccontò nulla di suo marito che immaginavo nel mondo della finanza. Un punto chiave nelle relazioni adulte è la combinazione tra interesse e discrezione. Esistono territori invalicabili a meno che non sia l’altra parte a chiedere di oltrepassarli.

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Durante la terza e quarta seduta parlammo di una scrittrice andalusa. Le dissi che era amica della mia prima ex e le raccontai particolari del loro legame. Per un momento notai un autentico interesse diverso da quello puramente commerciale. Quando l’interesse è reale gli occhi brillano in modo diverso. L’interesse per la storia di Sara Mesa fu tale che posò l’arnese sul mio orecchio per troppo tempo e finì per ustionarmi. Lanciai un gridolino e chiedendomi scusa, sorrise. In quella risata intravidi uno spiraglio. Fu una risata fragorosa e autentica, di reale intimità, come quella che avrebbe potuto avere se suo marito l’avesse spinta in piscina. Dopo due o tre sedute il ronzio sembrava migliorato, addirittura a volte scompariva in una delle due orecchie. La dottoressa Salazar sembrava soddisfatta. Lo definì un miglioramento prematuro. Alla quarta seduta avrei voluto parlarle di Manuel Vilas e di come l’avevo conosciuto sia nel periodo postmodernista che dopo, all’apice del suo successo, ma la dottoressa non si presentò. Aveva avuto un problema personale e nessuno sapeva quando sarebbe rientrata. La sostituì un signore con la barba che arrivò con mezz’ora di ritardo. Tenne in pugno la conversazione e mi raccontò che dormiva tre ore a notte. Era psicologo, psichiatra, medico internista, sociologo e non so cos’altro. Spalmava il gel e passava la macchina sull’orecchio esattamente come la dottoressa Salazar ma non aveva la stessa capigliatura dorata né la sua padronanza del tempo e del silenzio, né tantomeno del comfort. Non riusciva a fare in modo che il paziente si sentisse a suo agio e tantomeno si poneva il problema. Sentivo tensione e l’obbligo di dover conversare con lui. Non era assolutamente all’altezza della dottoressa Salazar. Gli mancava quella calma, quella padronanza del tempo, quella sottile empatia di cui il paziente ha bisogno senza mai essere invadente. 

Dopo aver pagato come sempre gli 80 euro della seduta, andai via con più ansia di quando ero arrivato. Temevo che la dottoressa Salazar fosse scomparsa, che non sarebbe più tornata e che avrei dovuto sopportare quest’uomo barbuto che non smetteva di parlare dei suoi titoli, della sua insonnia, delle terapie psicologiche reali e di quelle farlocche. Di guidare continuamente le conversazioni. Anche il ronzio che era ancora il fulcro principale della terapia sembrò acutizzarsi. Ricomparve in entrambe le orecchie trasformandosi in un fischio più acuto, addirittura stridulo. Passarono i giorni, guai in ufficio, guai a casa, guai con mia figlia, una possibilità letteraria più o meno fallita, ma la dottoressa Salazar e il timore che non tornasse e che il problema personale fosse in realtà un attrito lavorativo o un accordo con un’altra clinica che le aveva offerto più strumenti o più soldi, continuava a tormentarmi. Rimaneva il timore di non rivederla mai più, che il tempo passasse e che lei non mi riconoscesse più o che mi salutasse con un sorriso gelido. Alla seduta successiva, ritrovai quel pesantone. Cercò di essere gentile e nominò la dottoressa solo quando glielo chiesi. Mi disse che non aveva ancora risolto quel problema personale.

– ma tornerà, vero?

– sì certo. Beh, non sono poi così male, no?

© Simona Salerno

Mi sentii obbligato a dargli ragione per non offenderlo. Non solo avevo perso la dottoressa. Dovevo anche prendermi cura dell’autostima del suo sostituto. Era troppo per me e lo sarebbe stato per chiunque. La conversazione scorreva perché dimostravo interesse per la sua vita, per la sua carriera, le sue terapie, e tutto quello che diceva. Lo facevo nonostante l’immenso senso d’ansia che mi procurava. Alla fine, andando via, con l’orecchio unto di gel, svelò il mistero: il figlio maggiore della dottoressa si era rotto un femore giocando a rugby. Mi pregò di non diffondere la notizia.

– È molto cauta con la sua vita privata – disse abbassando la voce fino al silenzio

Nel viaggio di ritorno in taxi verso l’ufficio, provai un enorme sollievo. Sapevo che era una felicità lieve che sarebbe presto svanita, ma sarebbe stata la dottoressa Salazar a riscaldare il mio orecchio la settimana successiva. E così fu. Arrivai colmo di aspettative come chi sta per incontrare un amico perduto da anni ma le aspettative non corrispondono sempre alla realtà. Fin dall’inizio notai un’altra persona, una donna fredda che mi diede del lei già dal momento in cui varcai la soglia. Si scusò rapidamente senza fare alcun riferimento ai motivi della sua assenza e mi chiese subito come andasse il ronzio. Non parlammo di letteratura, in pratica non parlammo di niente, ma il silenzio non era fluido come prima. Era teso, duro, come le manovre sul lobo del mio orecchio. Percepivo la mia fantasia andare in frantumi. Rientrando in taxi pensai al nostro egocentrismo. Pensiamo sempre di essere noi per primi la causa delle nostre tensioni eppure l’atteggiamento della dottoressa poteva essere conseguenza di mille diverse ragioni: suo marito, sua madre, il femore di suo figlio, il lavoro, i mille problemi che ci affliggono.

Nella medicina privata non sai se fanno i leccapiedi perché paghi o se sono realmente interessati a te. Non è vero, il paziente lo sa sempre ma preferisce non farci caso. Lo stesso accade con gli psicologi. Il loro legame, la presunta affinità, il presunto amore che sentono per i pazienti è alterato dal denaro. La dottoressa si rese probabilmente conto di dover recuperare quell’empatia e durante la seduta successiva mi raccontò di aver appena terminato di leggere l’ultimo romanzo di Sara Mesa. Mi chiese ancora quale fosse il mio miglior libro. Grazie a Dio non mi chiese di regalarglielo come in genere fa la maggior parte della gente. Mentre accarezzava e bruciava il mio lobo destro parlammo delle affinità tra letteratura e verità, con incursioni nella vita familiare, nella difficile congiunzione tra disciplina e libertà. Durante la seduta successiva, mentre lei spalmava gel caldo sulla mia pelle e io osservavo la sua chioma dorata e sentivo il suo fresco profumo, parlammo anche della crescente dipendenza dei bambini dai telefoni cellulari. Naturalmente tutte le sedute terminavano con il pagamento alla receptionist dei soliti 80 o 100€ con carta di credito.

Le sedute volgevano al termine. Secondo la dottoressa Salazar l’evoluzione, nonostante il ronzio non fosse scomparso, era eccellente. A dire il vero non la vedevo esattamente così. Ero un po’ deluso: era diminuito all’orecchio destro ma era cresciuto al sinistro. Le mosche ronzavano ancora. Poco dopo ci incontrammo nei corridoi del Arturo Soria Plaza. Nello specifico, davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento. Sembrava non avere particolare fretta, stava perdendo tempo probabilmente tra una visita e l’altra. Mi salutò con un sorriso distante e un come sta appena sussurrato mantenendo una distanza di circa tre metri. Nel momento in cui provai ad avvicinarmi si voltò dall’altra parte e continuò a guardare la vetrina ostentando indifferenza. Mi sentii offeso e il ronzio naturalmente raddoppiò.

Durante l’analisi finale, la dottoressa fu più piacevole che mai. Ruppe addirittura la barriera fisica, toccandomi il polso mentre mi parlava, trasmettendo una certa intimità. Commentammo il referto con smisurato ottimismo, parlammo della pioggia, lieve, che cadeva sulla città, mi vendette onde cerebrali per l’ansia, esaminò con estrema attenzione le mie orecchie, disse che adorava le nostre conversazioni, che non era così frequente incontrare pazienti così interessanti. Disse anche che aveva acquistato il mio ultimo romanzo anche se non l’aveva ancora letto. Salutandoci, dopo avermi offerto un nuovo ciclo di sedute per l’orecchio destro, mi disse che le sarebbe piaciuto prendere un caffè con me al centro commerciale ma non aveva voluto disturbarmi. Finsi un sorriso mentre sentivo l’ansia diramarsi lungo tutti i muscoli del mio corpo. Immediatamente dopo ero in taxi. Avvicinandomi al mio ufficio con il sibilo che risuonava più forte che mai, chiusi gli occhi e realizzai che avrei richiamato la dottoressa anche se il ronzio fosse scomparso per sempre.

Il racconto originale, in spagnolo, pubblicato il 29 novembre 2023, può essere letto su Zenda, a questo link: https://www.zendalibros.com/la-reina-de-los-acufenos/

Recaredo Veredas è nato a Madrid nel 1970. Avvocato, scrittore e critico letterario ha pubblicato 12 libri tra cui 3 romanzi. La critica ha evidenziato la qualità dei suoi personaggi e la perspicacia del suo sguardo sulla società. Nel suo ultimo libro Soberbia ha compiuto un passo in avanti in una brillante analisi dei limiti del verosimile mostrando una differente prospettiva della società spagnola.

Lo sguardo della fotografa Simona Salerno inserisce la figura umana in maniera significativa e simbiotica nell’ambiente circostante. È un invito a soffermarsi sugli elementi tangibili in campo per connettersi con il desiderio di trascendenza che li attraversa. L’effimero e l’eterno sono accostati tramite richiami compositivi e espressivi che raccontano la condizione umana all’interno di un cosmo che è natura, casa, esterno e interno. Gli scatti sono l’impronta di un passaggio che trasforma lo spazio attraverso urgenze e silenzi, luci sfaldate in ombre, corpi che curano il disagio a contatto con gli oggetti. I nostri sensi percepiscono una sostanza lattiginosa che avvolge questa forma epidermica di scambio. Una luminosa opacità ci rende sensibili alle forme di esperienza colte dallo strumento fotografico che risemantizza la realtà.

Maria Teresa Rovitto

Simona Salerno, siciliana (1984), si traferisce a Bologna dove unisce studi artistici e psicologici legati alla comunicazione non verbale e nello specifico approfondisce la fotografia e lo studio del movimento e del corpo. È interessata al processo creativo che porta alla scoperta e all’esternalizzazione del Sé per una comprensione profonda dell’essere e delle inclinazioni più antiche, presenti e vive nei corpi e nell’animo umano. Appassionata di fotografia analogica sperimentale, predilige l’uso di macchine e pellicole dal sapore passato. Con le sue foto vuole raccontare delle storie, condurre in un clima onirico con note dalle melodie melanconiche, bloccare nel tempo una precisa atmosfera emotivo-sensoriale.

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