di Martina Maccianti

© Debora De Bartolo
La Realtà è questo ripensamento frenetico e vorticoso.
La Realtà è la ricostruzione continua della Realtà che si dissolve.
Edoardo Camurri
L’ingresso del mio appartamento si trova di fianco a un piccolo supermercato decisamente sfornito, ma quasi sempre aperto. È uno spazio dai colori sbiaditi, un presidio di immobilità che porta nel quartiere una forma decadente di sicurezza. Uno dei clienti abituali è un uomo di non più di quarant’anni, molto alto, con lo sguardo cupo, quasi terrorizzato, che sembra sempre sul punto di cedere. La sua routine batte i miei stessi tempi, ma con ritualità differenti.
Ogni mattina esco di casa alla stessa ora. Non appena la serranda del negozio si apre, con il solito suono stridente che sembra un lamento meccanico, lui entra e acquista un paio di birre doppio malto. Lo fa ogni giorno con una gentilezza estrema, incomprensibile.
Passa qualche ora seduto dietro l’angolo della strada, dando le spalle al traffico frenetico e senza pause, beve le sue birre. Una volta finite le lascia lì, immobili, perfettamente allineate, in piedi al centro del marciapiede, come sentinelle silenziose del suo passaggio. E scompare per un po’.
La sera, poco prima della chiusura, gli stessi gesti e gli stessi attori.
Non so come si muova la sua vita, non conosco la sua storia, il suo nome, i suoi pensieri, la strada che ha percorso per arrivare qui, ma so che si sta proteggendo da qualcosa. Lo capisco dal terrore che si legge nei suoi occhi, impauriti, arresi, come se abitare quel corpo fosse una condanna. Lo capisco dalla ritualità che cerca e ricalca ogni giorno. Lo intuisco dal modo in cui il suo corpo si muove, sempre con la tensione di chi è pronto a difendersi, senza mai attaccare. Quasi alienato da ciò che si agita intorno.
E penso che quel terrore è anche il mio. Che lo è quell’arrendevolezza. Io e lui fuggiamo in modi diversi, ma cerchiamo entrambi di salvarci da uno spazio devastato e che assume sfumature sempre più orrorifiche.

© Debora De Bartolo
Baudrillard osserva, a partire dagli anni Settanta, che le società contemporanee sono caratterizzate non tanto dalla produzione e dal consumo materiali, ma piuttosto dalla loro simulazione. Questa si riferisce non solo a una riproduzione incredibilmente fedele della realtà, ma alla creazione di una realtà fittizia che sostituisce o distorce quella che viviamo. Secondo Baudrillard infatti, media, pubblicità e tecnologie hanno iniziato a produrre immagini, segni e simboli che simulano il reale, fino a sostituirlo. Nella sua opera Simulacres et simulation1 sostiene che queste immagini e questi simboli, mediati dall’intrattenimento e dalla comunicazione, abbiano progressivamente sostituito la realtà stessa.
Per Baudrillard le immagini prodotte dalla tecnologia non sono riflessi del mondo esterno, ma acquisiscono una vita propria, influenzando pensieri e comportamenti umani. In questo processo, gli individui non interagiscono più con la realtà, ma si immergono in un mondo senza contraddizioni o ostacoli, dove tutto appare possibile. Ci si rifugia in uno spazio altro, dove la distinzione tra reale e virtuale diventa sempre più sfumata.
Questa distinzione nella società contemporanea si manifesta all’interno di profonde crisi multipiano (sociali, economiche, politiche, ambientali) in cui diventa prassi vivere una crescente sensazione di disconnessione e insoddisfazione verso ciò che è; un senso di instabilità, precarietà e incertezza per il futuro, che spinge a cercare e creare strategie di fuga come forme di resistenza, tutela o adattamento.
L’iperrealtà teorizzata da Baudrillard ci introduce a un mondo dove il confine tra reale e virtuale diventa sempre più sbiadito, in cui la simulazione, senza definirne forma e natura, prende il sopravvento sulla reale realtà. Le esperienze concrete vengono sostituite da quelle mediate. Si definisce così un panorama sociale in cui l’individuo si sente sempre più incapace di agire sulla realtà e, di conseguenza, cerca rifugi alternativi. Questi spazi di fuga, apparentemente distanti dalla vita reale, diventano luoghi di resistenza interiore e di ricerca di significato. Nuove possibilità.
Tra le molte pratiche di fuga dalla realtà esistenti, una attuale e diffusa è quella del reality shifting, ovvero una forma di dissociazione attiva in cui gli individui cercano di spostare la coscienza in uno spazio immaginato a propria dimensione.

© Debora De Bartolo
Questa forma di fuga si collega a una più ampia tendenza di escapismo volontario, spesso utilizzata come forma di coping2 verso stress, ansia e un forte senso di impotenza di fronte al vissuto. L’immersione in queste realtà alternative non si definisce come semplice fantasia, ma piuttosto come una manifestazione di un desiderio di autodeterminazione e stabilità in un contesto di insicurezza crescente. Questo è possibile grazie a tecniche di visualizzazione o autosuggestione che permettono di immergersi profondamente in mondi immaginati e vissuti in modo così coinvolgente e dettagliato da sembrare reali.
«Una caratteristica molto interessante del reality shifting è il fatto che normalmente si richiede una fase preliminare di “scripting”, ossia la stesura di una specie di sceneggiatura. Secondo i membri della community, più lo scripting è dettagliato, maggiori saranno le probabilità che la realtà di destinazione corrisponda ai propri desideri. […] In questo viaggio, lo shifter è il main character e tutto gira intorno ai suoi desideri3».
Su un piano diverso, il maladaptive daydreaming rappresenta un’altra forma di fuga dalla realtà. Si tratta di una pratica inconscia, incontrollata e intensa, attraverso la quale gli individui si rifugiano in sogni particolarmente lucidi, in mondi immaginari dettagliati. Questo fenomeno, di nuovo, si definisce come una risposta di adattamento a una condizione in cui l’individuo non si sente più in grado di affrontare le pressioni esterne.
Il contesto sociale qui gioca un ruolo cruciale: in un mondo caratterizzato da immagini di un futuro sempre più precario, si cerca una via di fuga per ritrovare un senso di controllo e appagamento.
Le pratiche di dissociazione e fuga mentale, solitamente approfondite nell’ambito psicologico come segni di alienazione, mutano e si definiscono come strategie attive di resistenza. Invece di essere semplici manifestazioni di patologie individuali, queste riflettono il desiderio e la capacità di rifiutare una realtà ostile o insopportabile: le forme di dissociazione nella società contemporanea rappresentano anche una reazione creativa all’impossibilità di costruire qualcosa nel contesto politico, sociale ed economico opprimente che non lascia respiro.

© Debora De Bartolo
Questi fenomeni possono essere considerati una forma avanzata e interiore di worldbuilding del pensiero, un’attività che non si limita alla creazione di mondi immaginari per svago, ma diventa un atto di difesa e rielaborazione della realtà. Così come nel worldbuilding letterario si costruiscono mondi alternativi per comprendere meglio il nostro, il worldbuilding del pensiero consente alle persone di creare spazi mentali in cui nascondersi.
Nella costruzione di universi interni le regole della realtà vengono rimescolate e ridefinite, divenendo processi che consentono agli individui di prendere il controllo su una parte della loro esistenza, sfuggendo a ciò che, nel mondo esterno, si palesa caotico.
Questi mondi, anche se non reali in senso materiale, forniscono risposte emotive e autentiche, svelando nuovi modi di interpretare e affrontare il nostro presente. O aggirarlo per un momento, lungo o breve che sia.
Da questa prospettiva la fuga dalla realtà si trasforma in un’effettiva strategia di rielaborazione, una forma di ingegneria inversa della realtà dove testare un sé che nella quotidianità sembra non avere spazio.
«Ecco, la Realtà ci dà da pensare. La Realtà è il motivo per il quale scendiamo a patti con Lei, immaginando, agendo, industriandoci4».

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Le pratiche di fuga dalla realtà emergono da un senso di crescente distacco verso un futuro che sembra sempre meno vivibile. In un mondo dominato da violenza e incertezze, sviluppiamo una forma di dissociazione profonda, una resistenza interiore.
Il distacco emotivo e psicologico che avvertiamo in questi tempi non è un fenomeno isolato, ma una reazione collettiva a una società che ci ha anestetizzato di fronte a ciò che vediamo e viviamo quotidianamente. Di fronte a questa saturazione, molti cercano rifugio in spazi mentali dove possono, per un momento, sperimentare emozioni autentiche, anche di speranza, e un senso di appartenenza che non sembra reperibile altrove.
Edoardo Camurri (scrittore, giornalista e conduttore televisivo e radiofonico) in un passaggio del suo ultimo testo5 riflette sulla Realtà considerandola come un processo continuo di ricostruzione, un’entità fluida e sfuggente che richiede un costante ripensamento e ri-comprensione. Un rapporto fatto di lavoro incessante, il nostro con il reale. Nati in una realtà a noi sconosciuta, e che ci si presenta come una maestra, pronta a darci lezioni, ci sentiamo, fin dal primo istante, vulnerabili e manchevoli.
Per Camurri, la realtà non è qualcosa di statico, un dato assoluto, ma un flusso che si dissolve e si ricompone senza sosta. Da questa prospettiva, la realtà si pone a noi in perenne mutazione, chiamandoci a fare i conti con questa eterna incertezza. In questo modo il vero è spezzato, frammentato, e ci costringe a rielaborare continuamente il nostro rapporto con il mondo.
Quindi, dobbiamo essere disposti a riprogrammarci sempre? A trasformare e rimodulare il nostro modo di percepire e vivere la realtà, sempre all’erta? O dobbiamo convivere con quello smarrimento immergendoci in spazi momentanei di estraneazione per respirare?

© Debora De Bartolo
Non credo esista una risposta semplice, una soluzione da digerire velocemente, ma che le possibilità siano racchiuse in una ricerca personale e collettiva estesa, profonda, fatta anche di piccole soluzioni, più o meno temporanee ma lenitive. Italo Calvino ce lo ha detto, l’inferno dei viventi è già qui, è quello che viviamo ogni giorno. Se il suggerimento di Calvino era quello di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio6», i limiti, i vincoli e i metodi di questa ricerca non sono mai esistiti, sono nelle nostre mani, e nelle nostre menti.
Molti dei miei ricordi d’infanzia non sono episodi nitidi, ma frammenti evanescenti; si dissolvono al contatto con il mondo reale. Il più persistente e vivido è un sogno che, da piccola, mi visitava con particolare insistenza.
In quel sogno ricordo perfettamente la sensazione della mia mano che sfiorava il legno lucido dell’armadio della mia stanza, i polpastrelli che seguivano le venature, percependo una vibrazione, come se respirasse, trattenesse un segreto sottopelle. Ogni volta che lo aprivo scoprivo al suo interno un materiale, una sostanza che sfidava ogni descrizione.
Quella materia non era solida, né liquida, né gassosa. Si presentava come un amalgama in costante mutamento, una massa priva di forma che sfuggiva ai miei tentativi di decifrarla. Ogni volta che provavo a toccarla, le mie dita sembravano affondarci, ma non c’era resistenza, non c’era temperatura. Era come se esistesse solo per me, come se fossi l’unica in grado di vederla, ma comunque incapace di darle un nome. In quell’incontro non provavo paura, solo una profonda alienazione, un senso di estraneità rispetto a tutto ciò che conoscevo. Per un attimo, lì, il resto scompariva o cambiava forma. Immagini, consistenze, suoni, gerarchie. Per un attimo, lì, tutto era nuovo.
Al risveglio rimaneva sempre la sensazione di aver portato con me un pezzo di non-reale. L’immagine di quella materia si faceva spazio nei miei pensieri fino a scivolare via dalla memoria, giorno dopo giorno, perdendosi nella nebbia della quotidianità.
Quello che ricordo ancora è che, quando tornavo da quel momento così indecifrabile, si creava una distanza tra me e il mondo, una frattura, come se tutto ciò che mi circondava fosse una proiezione sbiadita di ciò che avevo percepito e toccato soltanto altrove, con più verità e autenticità.
Editing di Fabiana Castellino, correzione di bozze di Viola Carrara
Martina Maccianti (1992) è la fondatrice di Fucina, spazio di pensiero, immaginazione, lotta, che cura insieme a Murphy Tomadin, Alessia Dulbecco e Francesca Franzè. Ha studiato Architettura e scrive nella speranza di contribuire a gettare le fondamenta per altri futuri, diversi e possibili.






L’uomo è un animale immaginativo che tenta incessantemente di passare dal reale al significativo, che tenta di ricavare dall’intera sua esperienza atti pieni di senso. Sembra questo il movimento, il passaggio, rappresentato nella serie di dittici qui proposti dalla fotografa Debora De Bartolo. Dittici effigiati all’interno con immagini che evocano le condizioni che fanno dell’uomo ciò che egli è: la vulnerabilità, l’abbandono, il contatto, l’erotismo, le inevitabili iniziazioni. L’artista opera sulla necessità di mettere in relazione materia organica e materia inorganica rimarcando quel tramite che nella sua visione è la ricerca formale. È la forma a dare accesso a nuove possibilità di conoscenza anche quando si utilizza l’archetipo. Nella loro combinazione gli elementi aspirano a mutazioni reciproche affinché nulla resti uguale a sé stesso perché nulla lo è, nulla esiste in sé. È così che la verticalità di una figura umana raggiunta da una prospettiva che va dal basso verso l’alto non solo può ricordare quella di un edificio di pietra, ma è quella stessa architettura; una donna eburnea che si curva nell’atto di spogliarsi ricorda o è la spoglia sinuosa di un serpente conservata in una teca; il giro di ali cadute a terra dal volo di un uccello ricorda o sono le ali chiuse di una statua d’angelo.
Maria Teresa Rovitto
Debora De Bartolo inizia a fotografare nel 2010 a Cosenza e attualmente opera nel napoletano. Dal 2017 collabora con il collettivo Hic Est Sanguis Meus di Paola Daniele. In Francia, nel 2023, ha esposto le serie fotografiche Virgo Lactans e Magaria alla Galerie 0.15 / Essais Dynamiques di Metz e, nel 2017, Medusa alla Station – Gare des mines di Parigi. Nello stesso anno, in Georgia, la serie fotografica Medea in world artistic culture è stata esposta all’Institut of Classical Byzantine and Modern Greek studies di Tbilisi. Nel 2016, è stata vincitrice per la sezione fotografia allo YOUNG AT ART. BasiCally. Altre pubblicazioni online tra le quali Vogue (miscellanea) e ZETAESSE (progetto Unzuverlässigkeit).
- Jean Baudrillard, Simulacres et simulation, Éditions Galilée, Paris, 1981 ↩︎
- Per coping si intende la capacità di affrontare lo stress. Rappresenta la strategia di adattamento adottata e può variare da persona a persona in base alle proprie esperienze e al patrimonio genetico. ↩︎
- Valentina Tanni, Exit Reality, Nero Editions, Roma, 2023 ↩︎
- Edoardo Camurri, Introduzione alla realtà, Timeo, Roma 2024 ↩︎
- Ibidem ↩︎
- Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 1996 ↩︎
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