di Daniel Mocher
Traduzione di Silvia Dammacco

© Veronica Mecchia
Piante da interno, salvavita da ufficio, prese d’aria accanto alle stampanti, parentesi cruciali, oasi di pace tra fascicoli. Ci sono studi privi di finestre dove non si muove nemmeno l’aria e l’ossigeno è appena sufficiente. Ambulatori claustrofobici da cui a malapena si riesce a uscire per un boccone durante l’intera giornata di lavoro, seminterrati bui dove si lavora duro per una paga da fame.
L’umanità minacciata e reclusa viene spesso salvata da qualche pianta disubbidiente nell’ambiente più ostile, da un sorriso di clorofilla e seta. Non c’è via d’uscita, sembra, ma se ci si sofferma a osservare si trova bellezza. È già qualcosa. A volte è più che sufficiente. Sono silenziose, le percepisci appena, chiedono giusto un po’ d’acqua, si accontentano di briciole di tempo e un minimo di attenzione. Affetto. Sono ansiolitiche, terapeutiche, hanno risparmiato suicidi e omicidi. Ho visto gigli e pothos su armadietti arrugginiti, anthurium rossi e sansevierie alleggerire l’atmosfera tesa di qualche ufficio amministrativo di periferia, kenzie in aree d’imbarco, ficus benjamin vicino a sale operatorie, monstere in studi psicopedagogici, croton in aree amministrative, centri estetici o in gelidi magazzini adibiti a carico e scarico. Le felci possono sostenere e accompagnare chi vive un lutto mentre veglia il proprio defunto nelle lunghe ore in una camera mortuaria, crassule, cactus, gigli della pace, mi piace pensare ce ne siano nei corridoi della morte e negli ospedali per cure palliative.



© Veronica Mecchia
Piante, steli e fiori, garze, bendaggi per febbre e capogiri, il dolore, la nausea e il vuoto, foglie delicate su cui si incide una verde speranza quando le catene stringono troppo forte, l’orologio sembra non avanzare e il peso delle incombenze non ha mai fine.
Wislawa Szymborska diceva che parlare con le piante è necessario e impossibile allo stesso tempo. Io credo che le piante restino in silenzio perché parlarci, come se si trattasse di piccole dee, risulta loro possibile ma non necessario. O chissà, forse il silenzio è il loro modo di comunicare, questo sottile linguaggio quasi del tutto sconosciuto in cui siamo soliti tentennare.



© Veronica Mecchia
La nostra vecchia fede in loro resta l’unica consolazione, la fede nei vasi che viene da lontano, un amore di secoli e secoli, le loro radici oscure che si connettono al nostro sangue in qualche luogo indecifrabile, fraternizzando l’un l’altro, non ci resta che guardarle, toccarle, offrire loro un po’ d’acqua, azoto, fosforo, potassio, potarle, coccolarle, abbellirle e, nel punto più ignoto dei nostri incubi, sentire la loro presenza rasserenante, essere grati, in attesa che termini la giornata di lavoro, sapere che domani saranno ancora lì, nelle nostre prigioni, vie di fuga in vicoli ciechi, legate in qualche modo alla mistica, alla metafisica, alle ali, alle altezze, così umili.
E poi la nostra goffaggine cronica, l’ostinata indigenza, l’abbandono, la sete, la cecità, così tanto bisogno, piante da interno, come non adorarle.
Il racconto originale, in spagnolo, pubblicato il 19 giugno 2024, può essere letto su Revista Purgante, a questo link: https://revistapurgante.com/author/daniel-mocher/
Daniel Mocher è uno scrittore valenziano nato ad Amburgo nel 1977.Autore di aforismi, ha pubblicato Días señalados (2020) El punto sobre la y (2021) e Los propios pasos (2022). Suoi testi, aforismi e poemi sono stati pubblicati su Cuadernos de Humo (USA), Purgante (Messico), Plumas hispanoamericanas (Cile) e Sugiero Leer (Bolivia).







I lavori della fotografa Veronica Mecchia ci mettono di fronte a un’apparente contraddizione: proprio quando il soggetto sembra volersi sottrarre allo sguardo, mimetizzarsi, sparire, la macchina lo cattura. La luce cruda e l’atmosfera chiara conferiscono alle immagini un effetto di apertura, laddove la figura femminile cerca invece di ridurre lo spazio necessario ai suoi movimenti. Quella luce sembra svolgere solo la sua naturale funzione: metterci in condizione di vedere. Questo è ciò che appare a chi sente separati l’umano e il naturale: la ricerca di Mecchia cerca, invece, di recuperare l’interezza. Si concentra sui modi e sui toni di un umano che rinuncia a una spinta aggressiva e esclusivistica in un evento spaziale dove fluisce l’ordine temporale dell’inerte e del vivente, si intensificano i cicli della natura e l’energia dello sguardo è volta alle radici naturali, al segno più spoglio. Il lavoro di spoliazione scava nella dimensione presocratica, accade il nodo biologico che siamo fuori e dentro di noi.
Interno: il tempo nebbioso è ideale per le riprese di interni poiché riduce i contrasti tra l’interno e l’esterno.
Esterno: può accadere di dover aspettare il momento migliore della giornata e le condizioni metereologiche più adatte al ritratto di una superficie, in questo caso della terra, per esprimere come sarebbe se la toccassimo. Sarebbe pelle al tatto. La fotografa rilancia l’immaginazione per sciogliere dinamiche in sé fluide che alcune tecniche di vita pratica irrigidiscono; si mette dalla parte dei corpi che vogliono riappropriarsi della loro memoria – legame organico.
Maria Teresa Rovitto
Veronica Mecchia vive a Parigi, città in cui è nata da genitori italiani. È cresciuta a Milano e ha studiato all’Università di Pavia, presso la quale ha conseguito una laurea in Storia dell’Arte. La sua passione per la fotografia nasce ai tempi del liceo, quando ha iniziato a scattare le prime fotografie con la reflex degli anni ’70 di suo padre. Si è formata presso la galleria “Il Diaframma” di Milano con Giuliana Traverso e in seguito è stata studente di Arno Rafael Minkkinen in Italia. Dal 2003 è tornata a vivere nella sua città natale per specializzarsi in Arte contemporanea all’Università della Sorbona e per dedicarsi alla fotografia. Lavora in analogico, con pellicole in bianco e nero. Alcuni suoi lavori come L’impermanenza di ogni cosa, Vanitas, Viaggio in Italia, Abitare poeticamente nel mondo, sono stati esposti in Francia, Belgio, Italia, Germania, Grecia, Panama e Stati Uniti. Alcune sue fotografie sono presenti in collezioni private in Italia, Francia, Belgio, Germania, Stati Uniti, Svizzera, Taiwan, Colombia, Libano, Filippine e Giappone. Il suo libro d’artista Fotografie (Paris, mai 2016) insieme a due sue fotografie all’interno del fondo “anti-Aufklärung 2019” è entrato a fare parte della collezione della Biblioteca Kandinsky del Centre Georges Pompidou di Parigi.
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