Anatomia di un incantesimo

di Fabio Bortesi

© Sonia Bouslama

Ella li condusse dentro, li fece sedere su sedie e seggi,
e per essi formaggio e farina e giallognolo miele
mescolò con vino di Pramno; e nell’impasto aggiunse
veleni funesti perché del tutto scordassero la patria terra.
Ma quando a loro lo diede ed essi bevvero, allora subito
li percosse con la sua verga e li rinchiuse nel porcile.
(Odissea, X, 233-238)

Uno dei ricordi più vividi della nostra casa in via Ho-Chi-Minh è il garage.
Il pavimento era stato realizzato con piccole mattonelle rettangolari color mattone, disposte a lisca di pesce. In qualche punto era macchiato dall’olio che la macchina di mio nonno perdeva dal motore. Alcune mattonelle erano sberciate, come se qualcosa di pesante gli fosse caduto sopra.
C’era una piccola finestra con gli infissi in legno color panna, ma la vernice era vecchia e scrostandosi lasciava intravedere il color verde salvia delle pitture precedenti. In fondo al garage, tra la finestra e la porta della lavanderia, stava un vecchio mobile a cassettoni dall’aspetto massiccio. Era di un color marrone scuro, ma non uniforme; negli anni era stato trattato con olii, vernici, cere e certi prodotti che negli anni ‘80 trovavi nelle case di tutti. La superficie si era fatta un po’ appiccicosa, soprattutto in estate, col caldo. Prendevo con cautela le maniglie in finta madreperla per aprirlo e non sporcarmi le mani o i vestiti. Mia nonna si sarebbe accorta che ci avevo guardato dentro: non voleva che andassi a rovistare dove mio nonno teneva le erbe. Minardi & Figli. Dal 1930 era stampato sui sacchetti bianchi con l’interno avana. Solamente avvicinandoti al mobile potevi sentire gli odori mescolati di tutte quelle piante essiccate; era quasi impossibile distinguerli tra di loro, cambiavano in base alle stagioni.

Ne ricordo però uno in particolare, quello dell’artemisia. L’assenzio maggiore. Mia nonna non voleva che si tenesse in casa, diceva che era una droga. Da bambino non capivo il significato di quella parola, ma sapevo per certo che doveva essere qualcosa di pericoloso. Il nonno Luigi la teneva perché ci faceva il Vermouth, un vino liquoroso dal colore ambrato. Di nascosto aprivo il tappo, lo annusavo, e l’odore mi arrivava così forte da farmi chiudere gli occhi. Non ricordo quanti anni avessi, ma la curiosità fu più forte di qualsiasi monito, e un giorno lo assaggiai.
Fu un’esperienza poco gradevole, un sapore forte da stordire. Mi bruciavano la lingua e il palato e sputai il tutto quasi senza deglutire nel lavello della vecchia lavanderia. Poi aprii l’acqua per non lasciare tracce.
Fu il mio primo vero incontro con il mondo delle erbe.

© Sonia Bouslama


Quando cammino per i boschi di golena, nelle terre che furono di Zavattini e Villani, tengo ancora gli occhi bassi, come quando accompagnavo mio nonno che andava per erbe spontanee e, di buon grado, alla vecchia osteria sul fiume. Raccoglieva erbe lungo i filari dei pioppi, o le rive degli arginelli, conosceva molti nomi, che a me sembravano così difficili da ricordare. E allora ogni tanto mi raccontava i loro nomi vernacoli, le loro storie. Le storie le ricordi, quelle sì. Per questo le fiabe antiche resistono ancora. 

«Il soffione» mi diceva «è il fiore del diavolo», in un dialetto che non ho mai imparato a scrivere. «Quelli sono gli orecchini della Madonna» indicando la veronica persica, «e quella, sai come si chiama? Risùna» e spostava con le mani alcuni steli più alti per mostrarmi una specie di Crepis che cresce nei campi della Bassa Padana. A me sembravano tutte uguali al Tarassaco, con quelle foglie a dente di leone, ma mio nonno conosceva bene le diverse specie e i loro usi.
Il Tarassaco mi ha sempre affascinato. Non riuscivo a capire perché lo chiamassero il fiore del diavolo, non aveva un aspetto minaccioso, e poi lo mangiavamo come insalata. Sentivo anche chiamarlo dente di leone, dente di cane, piscialetto, fùgada. Ma la cosa che mi incuriosiva di più era la sua metamorfosi: da un fiore giallo intenso, come un piccolo sole, a una palla soffice e delicata, tonda come la luna. Far volare via i suoi acheni era il gioco di noi bambini. 


Chinarsi a raccogliere un’erba, anche solo per osservarla meglio, implica una reverenza. Inginocchiarsi. Questo semplice gesto, anche se compiuto per necessità pratica, assume una dimensione simbolica profonda che si intreccia con il nostro rapporto con la terra, con la forza generativa: inginocchiarsi al cospetto di Demetra (Dēmḗtēr, dalla radice indoeuropea Gē- Méh₂tēr, Madre Terra, da cui il nome Gea). Alcune piante hanno come epiteto specifico humilis, dal latino humus, suolo/terra. Inginocchiarsi significa essere humiles, più vicini alla terra. Nei monasteri, il giardino dei semplici era l’orto delle piante officinali, quelle usate nelle officine, nelle botteghe degli speziali, nelle farmacie. I raccoglitori di erbe hanno spesso le ginocchia sporche di verde, le mani di scura linfa verde e terriccio. Alle volte, quando torno a casa, passo molto tempo a pulirmi le mani macchiate di quel sangue vegetale. Una raccolta implica sempre un sacrificio, e un sacrificio necessita di un’espiazione. Un tacito scambio, una parola, un canto, un carme. Una preghiera.
Un tempo si pensava che raccogliere una pianta a scopo medicinale, senza lasciare nulla in cambio, le avrebbe impedito di trasformarsi in phàrmakon. Rimedio, veleno, incantesimo sono i tre significati di phàrmakon, a sottolineare quanto la conoscenza del mondo vegetale sia di natura complessa ed esoterica. Per attivare la pianta, per garantire la sua funzione magico-rituale, servivano il gesto e la parola.


Qual è l’anatomia di un incantesimo? Quali sono gli elementi che lo compongono? Se facciamo appello al nostro immaginario ne emergerebbero tre fondamentali: la bacchetta, la formula magica e la polvere o pozione magica. Provando ad analizzarli, emerge che non è tutto opera di fantasia o capacità immaginativa. Nelle prime rappresentazioni cristiane risalenti al III e IV secolo, Gesù appare imberbe e la sua figura si accompagna a un bastone, lo stesso che troviamo tra le mani di Mosè o di Aronne. Nei racconti biblici, anche grazie a quel bastone Mosè è in grado di compiere miracoli. Andando a ritroso, solo restando in area mediterranea, troviamo altri esempi di bastoni dotati di capacità magiche e divenuti anche simboli del comando: il caduceo di Hermes, il tirso di Dioniso, il bastone di Asclepio. La bacchetta, come la conosciamo oggi, è fortemente radicata nella letteratura e nel folclore medievale, ma la sua origine può essere tracciata fino agli antichi bastoni del comando. I racconti europei di fate, maghi e streghe trasformano il bastone in un oggetto più piccolo, funzionale alla narrativa magica e più accessibile nel suo uso simbolico. Una delle bacchette magiche più famose rimane però quella di Circe, la prima vera figura dotata di questo strumento, a cui ci si riferisce con il termine ῥάβδος (rhábdos). Circe, più di tutti, incarna il legame profondo tra la conoscenza delle erbe e dei loro effetti con l’arte magica. Il bastone di Asclepio è ancora oggi simbolo designato di medicina e guarigione, tanto da trovarlo come insegna nelle farmacie. 

© Sonia Bouslama

L’idea di formula magica, quel Sim Sala Bim che recitava il mago Silvan mentre compiva le proprie magie in televisione (e che io guardavo ammirato dalla poltrona della sala dove stava una vecchia televisione in bianco e nero), sembra avere una genesi molto simile: può trovare una radice storica negli antichi carmi rituali e nelle formule di guarigione utilizzate durante la raccolta delle erbe o nei riti terapeutici. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, menziona che alcune erbe venivano raccolte solo in momenti precisi (ad esempio, sotto specifiche fasi lunari) e accompagnate da invocazioni o canti rituali per aumentarne le proprietà curative o protettive. Anche le antiche pratiche mediche, soprattutto nelle culture sciamaniche, celtiche e germaniche, spesso prevedevano il canto o la recitazione di formule durante la somministrazione delle piante medicinali. Mio nonno, ricordo, non recitava formule particolari, ma accompagnava la raccolta a parole che, oggi, mi sembrano avere una funzione molto simile: «Guarda Chico, che bella che è! Hai visto? Queste erbe sono importanti, tienile a mente!». Quelle parole non erano un ringraziamento diretto, ma esprimevano un forte senso di gratitudine verso quelli che considerava doni della terra.
Il terzo elemento, la polvere magica o ingrediente magico, si svela a questo punto da sé: le erbe curative. In realtà non solo curative, ma anche con valenza simbolica o magico-religiosa, tutte quelle essenze che direttamente o indirettamente erano coinvolte nelle pratiche di guarigione, la cui funzionalità dipendeva dai riti di raccolta o dalla loro consacrazione a una divinità. Per questo, un tempo, come racconta Erika Maderna in Le mani degli dèi, gli antichi parlavano di principi divini, gli stessi che noi oggi conosciamo come principi attivi. La Pizia, sacerdotessa dell’oracolo di Delfi e legata al serpente mitologico Pitone da cui prende il nome, si racconta utilizzasse l’alloro per entrare in uno stato alterato di coscienza durante i riti oracolari. Il Laurus nobilis, questo il nome botanico, contiene alcuni composti che potrebbero avere effetti psicoattivi. Alcuni studi suggeriscono che l’inalazione dei vapori provenienti dalle foglie o il consumo di piccole quantità di esso possa indurre uno stato di rilassamento o alterare la percezione sensoriale.
Di esempi su come le piante influiscano su mente e corpo ce ne sono davvero molti. Nel tempo diversi autori, con approccio medico-scientifico o più evocativo, hanno spiegato come le piante contenenti sostanze psicoattive – alcaloidi, terpeni e flavonoidi – abbiano effetti farmacologici che possono alterare la percezione, il comportamento, l’umore e persino la coscienza. Tra i tanti libri che mio nonno teneva in garage, alcuni riuscivano a catturare la mia attenzione più di altri, Magia delle erbe, Il libro delle piante magiche, Erbe, Magia e Stregoneria, Le piante degli Dèi. Sembravano nascondere segreti inimmaginabili, promettevano un sapere antico che avrebbe dimostrato che la magia esiste veramente. Cosa poteva affascinare di più un bambino? Avere la prova che la magia esiste.


Quanto fosse reale però, lo scoprii solo più avanti. Fu l’incontro con i The Doors. In un’intervista, Morrison raccontava come fu ispirato dal libro di Aldous Huxley The Doors of Perception, le porte della percezione, dove l’autore scriveva della propria esperienza con le sostanze psicotrope naturali, in particolare la mescalina. Servì del tempo, qualche anno a dire il vero, ma riuscii a collegare tutti gli indizi.
Incontrai Huxley proprio tra i libri del nonno Luigi, non ne avevo tenuto memoria subito, forse gli stimoli e le suggestioni erano state troppe per ricordare tutto. Eppure il libro lo avevo avuto per le mani ben più di una volta.
Huxley sosteneva che l’uso di piante psicoattive avesse facilitato esperienze di risveglio o illuminazione che, nel corso della storia, sarebbero state interpretate come visioni divine o incontri con il sacro. Si potrebbe dire che queste esperienze avrebbero contribuito alla creazione di narrazioni mistiche e spirituali alla base di molte tradizioni religiose.
In quel mobile massiccio, che oggi non so più dove sia, mio nonno custodiva tutta la sua conoscenza, i libri, i suoi appunti, ritagli di giornale, fogli ciclostilati, le erbe, le beute, gli alambicchi, i fornelli ad alcol, vecchie strisce di lenzuola di lino, imbuti. Così immaginavo l’antro di uno stregone. Solo più grande e disposto, libero.


Nella mia famiglia, le erbe e la sapienza magico-religiosa erano materia per gli uomini. Ho capito negli anni quanto questo rappresenti un’anomalia, quanto il femminile fosse investito di questa funzione. Non credo ancora di essere arrivato a una spiegazione: mia nonna, mia madre e sua sorella non ne hanno mai voluto sapere, ma io ne rimasi irrimediabilmente affascinato. Stregoni e Streghe, Merlino, Panoramix, la Baba Jaga, Morgana, Medea, Circe.
Nel tempo che trascorro nei boschi di golena, naturali casse di espansione del Po, la compagnia dei grandi pioppi, dei salici, degli ontani, delle farnie e di tutte le decine di erbe spontanee che amano questi luoghi umidi e nebbiosi, mi riporta, come un’estensione radicata della memoria, ai giorni in cui camminavo qui col nonno Luigi. Ancora non lo sapevo, ma quella era una vera e propria iniziazione all’arte magica.
La vecchia osteria non c’è più, oggi un locale più adatto ai tempi ha preso il suo posto. Quanto avevano da raccontare quei luoghi: non erano solo ristoro, ma ambienti sociali cruciali dove si intrecciavano tradizioni popolari, discussioni e storie.
Di storie mi sono circondato per tutta la vita, senza che il passare del tempo scalfisse la fame di racconti. Una bulimia di parole che ripongo alla rinfusa nei cassetti della memoria. Anche oggi, nonostante il mio lavoro si alterni tra ricerche di laboratorio e pubblicazione di papers, se dovessi dare una forma alla mia memoria, la immagino proprio come quel vecchio mobile a cassettoni del nonno. Anche lei profuma di erbe e vecchie pagine. Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come realmente è: infinito.
William Blake, The Marriage of Heaven and Hell

Editing di Fabiana Castellino

Fabio Bortesi proviene da una famiglia che da tre generazioni si occupa di piante officinali e rimedi tradizionali. Ha cominciato a undici anni a seguire il nonno nella sua attività di erborista ambulante e a questa professione, che è ormai uno stile di vita, affianca l’attività di divulgatore. Appassionato di erbe spontanee, etnobotanica, mitologia, antropologia, folklore e fiabe antiche,  tiene corsi, conferenze e laboratori. Nel 2018 è ospite del Festivalletteratura a Mantova con l’evento “Quando le erbe erano divinità”. Dal 2020 partecipa al progetto Cultipharm che si occupa di studiare e coltivare botanici in vertical farm e di formulazioni innovative per il settore nutraceutico e farmaceutico. Nel 2024 è uscito il libro La ricetta dell’incanto (edizioni WUDZ) in collaborazione con Francesco Boer, sui miti, le leggende e la simbologia degli alimenti.

Attraverso il lavoro della fotografa Sonia Bouslama l’inconscio sembra testimoniare la propria presenza attraverso elementi di lapsus, elementi simbolici inavvertiti, che organizzano l’opera per piani sovrapposti e ripetizioni, dove trova posto per metafora la soggettività umana. La modalità fotografica di rappresentazione della realtà quasi viene negata o ritenuta insufficiente, laddove l’artista sembra più interessata alla creazione di un’immagine mentale che funge da motivo e lavora nel ricordo e come ricordo; ne consegue l’impossibilità di pensare il rapporto memoriale rispetto all’evento in termini puramente rappresentativi. La stessa possibilità di ricordare è un trauma nella sua non-aderenza tra il presente e l’evento passato che si ri-vive come una sorta di incontro mancato con il reale. Questo confronto assume necessariamente i tratti di un’esplorazione frammentaria che perlustra le scorie semiotiche di quell’evento originario; questa dismisura è talvolta resa dalla forma come l’uso della ripetizione di inquadrature identiche, l’intervento con un segno grafico sulla superficie dell’immagine, talaltra dal contenuto che produce un effetto di ritorno con tracce accidentali – oggetti e momenti di infanzia, oggetti dello spazio domestico, abbracci spontanei, sempre troppo brevi, che sembrano durare il tempo di uno scatto.

Maria Teresa Rovitto

Sonia Bouslama, classe ’97, ha studiato Fotografia alla RUFA di Roma e ora frequenta l’ultimo anno di regia di cinema documentario al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo. Con la fotografia esplora i ricordi e il modo in cui, stratificandosi, si trasformano nel tempo; nel cinema documentario, invece, si concentra su narrazioni che indagano le dinamiche politiche dell’esperienza femminile.

Lascia un commento