di Barbara Bernardini

© Nicolò De Finis
Queste settimane al termine dell’inverno sono un momento di grandi progetti e infinite speranze per chi coltiva un orticello: con l’arrivo della primavera si partirà a seminare, trapiantare, squadrare aiuole e tirare linee sul campo per ordinare i filari. Nell’attesa, si prepara il terreno e si scelgono semi e varietà, si sogna l’orto che verrà d’estate, il propagarsi delle piante verso l’alto, il trionfare dei loro colori e sapori.
Ogni anno, poi, tutte queste aspettative si riversano in un pezzetto di terra, si scontrano con la realtà, spesso si infrangono con qualcosa che è lì, alla prossima luna o a quella dopo ancora, pronto ad andare storto: le cimici asiatiche che assalteranno i pomodori, un sole troppo cocente che brucerà le zucchine o un fungo che farà marcire le patate.
Prendersi cura di un orto è un raffinato esercizio di misura dei propri limiti, una scuola dove imparare la pazienza dei tempi lunghi che passano dalla semina alla raccolta del frutto, l’occasione per far pratica con la limitatezza del controllo che abbiamo sulla vita – nostra e degli esseri viventi con cui armeggiamo, siano essi una pianta di lattuga o la lumaca che vorrà mangiarsela.
Al tempo stesso, bisogna resistere alla tentazione di dare a un orto un significato che vada troppo al di là del fare: renderlo metafora della vita, dei propri sogni e delle proprie ambizioni, dei buoni propositi per il futuro – quanto sarebbe facile vedere in un seme il simbolo di ciò che verrà? Perché se c’è una cosa che avere a che fare con la terra insegna per davvero è proprio la concretezza. A ridare forma, sostanza, materia, dignità, pienezza a quello che ci sta intorno, a riconoscerne un’esistenza indifferente a noi e al nostro fardello di parole, pensieri, ragionamenti, regole, casini e dolori, e insieme ricerca di soluzioni a casini e dolori, di espiazione, di scorciatoie. Non è una scorciatoia, non è una salvezza, è solo un orto. È solo una pianta, è solo un seme, è solo terra. Ed è proprio qui che forse c’è la chiave che cerchiamo: nell’essere solamente delle cose. E di come questo loro essere sia legato al nostro, di essere e di esserci, ma non dipendente, né subordinato: certo, abbiamo messo noi un seme a terra, ma non ne siamo né i padroni né i dominatori. Siamo in un punto stranamente in equilibrio fra la responsabilità della sorte di quel seme e la rinuncia al controllo totale sul suo futuro.


© Nicolò De Finis
Tutto questo è bellissimo ma sfiancante, perché il più delle volte devo arrendermi al fatto che le cose non vanno come avevo pianificato. Vengo da un inverno in cui le piante di broccoli sono cresciute poco e stortignaccole, le sfolgoranti piante di bieta rossa Rhubarb Chard sono state assaltate dai merli che non ne hanno lasciato nulla (le ho seminate di nuovo, perché sono testarda, ora sono appena spuntate dal terreno, due foglioline verdi su cui già si intravedono le venature rossissime) e anche il resto dell’orto non se l’è passata benissimo, perciò avrei davvero bisogno di una piccola soddisfazione prima di ripartire daccapo coi progetti per l’estate e con i dubbi sulla loro riuscita. Perché va bene non assegnare significati di carattere esistenziale alle vicende dell’orto, certo, ma avere una soddisfazione concretissima, un premio per le proprie fatiche così tangibile da poterlo raccogliere, cucinare e mangiare, ecco, questo serve.
Una piccola coltura che dia risultati a breve termine, che non richieda troppo impegno, che nasconda meno insidie e meno imprevisti. In queste settimane di passaggio, con l’orto invernale a fine ciclo e quello estivo tutto da progettare, si apre una finestra per i poco ambiziosi, adatta alle piccole cose, ai miti che non amano il troppo freddo né il troppo caldo ma la moderazione, alle pianticine democristiane dal ciclo breve: insalatine da taglio, erbe aromatiche, verdure da foglia come gli spinaci, e poi i ravanelli, piccoli gnomi del buonumore.
I ravanelli – raphanus sativus – sono un ortaggio di cui si consuma la radice, che è di tipo fittonante (cioè ha un fittone principale ingrossato da cui si sviluppano poi i filamenti più sottili secondari) come quella di carote, rape e barbabietole, dove accumulano acqua e sostanze nutritive utili allo sviluppo della pianta. Fanno parte delle crucifere, o brassicacee – la famiglia di cavoli, broccoli e verze – e pare debbano il nome al persiano rafe, apparizione rapida, per la velocità con cui il seme germina. È questa velocità che me li fa scegliere per riempire lo spiraglio di mezza stagione: l’ho capito solo col tempo, ma l’orto permette infiniti incastri, nascosti nelle curve dell’alternanza fra ortaggi estivi e invernali, ma anche piccoli ritagli da riempire, piani b che danno nuova speranza, e qualcosa da mettere in tavola, quando i piani ufficiali vanno storti. E poi perché vederli crescere, scoprire che c’è una testolina rossa che spunta appena dal terreno, è buffo e sa di magia.


© Nicolò De Finis
La prima volta che li ho seminati è stato quasi casuale: avevo partecipato a uno scambio di semi, organizzato dalla biblioteca di Baggio a Milano, ero arrivata con dei semi di tagete, di zucca barucca e di peperone corno di toro giallo; me ne sono andata con semi di capperi, di nasturzio e, appunto, di ravanello tondo rosso. Li ho distribuiti in questa breve fila rimasta libera, spargendoli troppo vicini fra loro, ma questo l’ho capito solo quando sono spuntati. Ho scoperto solo dopo, alla raccolta, che sono buonissimi, niente a che vedere con quelli che avevo assaggiato fino ad allora – sarà certo tutta una suggestione della mente, ma niente è tanto buono quanto quello che hai coltivato –, e che si possono preparare in molti modi. Non solo, come avevo sempre fatto, aggiunti all’insalata per darle un sapore un po’ più piccante, ma anche cotti, saltati in padella o gratinati al forno: diventano di un bel rosa pastello, e si addolciscono di sapore. E anche a crudo, tagliati a fettine sottili e messi a marinare con olio, pepe e limone, diventano un modo per completare molti piatti, dargli un po’ di colore e un sapore acidulo che li rende più gustosi. In cucina, i ravanelli sono un complemento, un particolare, una minuzia che riempie piccoli spazi, proprio come nel campo. Finora ho coltivato solo la varietà rossa tonda a punta bianca – non credo abbia un nome specifico –, ma mi incuriosiscono anche il ravanello candela di ghiaccio, con una radice lunga e bianca, a cui fa da contraltare la candela di fuoco, che è rossa fiammante; il tenebroso nero di Spagna; il curioso watermelon, che fuori è bianco e dentro rosso; il gigante siciliano, che produce queste enormi ciliegie che, mentre aumentano di dimensione, accrescono anche piccantezza e gusto.
Forse, se mi trovassi ora, come quindici anni fa, a mettere su per la prima volta un orto, partirei proprio da queste coltivazioni brevi: poco tempo, poco spazio, poche esigenze, pochi imprevisti, poche difficoltà. E poche aspettative: nessuno mira a raccogliere venti chili di ravanelli, per un uso domestico. Nessuno fa delle gare per il ravanello più imponente, come si fa per le zucche o per i pomodori giganti.
In realtà, i primi anni sono andati bene lo stesso, forse perché l’entusiasmo con cui si inizia tiene a riparo dai grandi errori: si fa tutto in grande, ci si mette così tanto impegno e costanza, la fatica non si sente perché tutto è insieme sia una nuova scoperta, sia una memoria che riaffiora, degli orti dei nonni, dei loro gesti da provare a replicare anche se sfuggono nei dettagli.
Le difficoltà sono arrivate solo dopo, quando la stanchezza e le distrazioni sono sopraggiunte: bisogna avere costanza, non tanto fare fatica, ma esserci quotidianamente, anche solo per osservare cosa accade. E quando inizio qualcosa di nuovo lo faccio sempre, poi la mia attenzione scema attratta da altro, a volte da niente, d’inverno salto un giorno perché fa troppo freddo, e il successivo perché piove, mentre d’estate la mia voglia di curare l’orto soccombe nella lotta per evitare il caldo più afoso di giorno, e le zanzare di sera.


© Nicolò De Finis
Mi dispiace non aver la costanza che questa terra richiederebbe. E prima ancora, mi dispiace non aver compreso da subito come tutto possa essere, insieme, ancora più minuto e ancora più complesso. Le colture a ciclo breve non sono solo il riempimento di uno spazio libero e di una stagione di mezzo, ma anche le mie compagne d’incertezza, che mi rincuorano quando un progetto è andato storto; e quel fallimento, poi, è un successo lo stesso: che i merli abbiano mangiato la bieta vuol dire anche che hanno cantato qui per giorni, sotto la mia finestra, mentre lavoravo di fronte a un computer muto. Non è forse, la loro compagnia, qualcosa per cui vale la pena perdere una manciata di semi? Loro sono qui a ricordarmi che esiste un mondo, là fuori, un mondo il cui funzionamento non ha niente a che fare con quella stupida email che sto scrivendo, né con le aspettative che tutti, compresa me stessa, hanno verso di me. Che c’è un livello concreto delle cose, che è esattamente qui, e io ne faccio parte. A mostrarmelo mentre sto scrivendo qualcosa, mentre sto provando a scrivere qualcosa che dentro contenga un po’ di quella concretezza, può essere un merlo che fischia mentre mi porta via le ciliegie, o il gracchiare di una cornacchia che ha appena devastato una pianta di pomodori.
È questo, in fondo, il motivo per cui stagione dopo stagione, continuo a seminare: comunque vada, c’è un risvolto positivo che invade le mie giornate. Che sia il cesto pieno di fagiolini e zucchine, la bellezza dei fiori di melanzane, al tramonto, o della brina sulle foglie dei broccoli, al mattino, l’allegria del canto dei merli o il silenzio misterioso, e la fame implacabile, delle chiocciole: ognuna di queste piccolissime cose sta con me, invece di non esserci, e c’è perché ho inforcato una zappa, ho messo un seme a terra, ho annaffiato. Ho aspettato, dando fiducia alla sapienza del regno vegetale, che ne sa molto più di me su come si sta al mondo.

© Nicolò De Finis
In queste settimane in cui può capitare anche a chi non ha mai coltivato nulla che il breve desiderio di veder germogliare una pianta gli attraversi la mente, consiglierei di scegliere un seme di ravanello: può metterlo anche in vaso, non richiederà molte cure, già dopo pochi giorni spunterà dal terreno con un gambetto rosso e dei cotiledoni a forma di cuore. Crescerà veloce, in un paio di settimane la radice farà capolino dal terreno, in testa un ciuffetto buffo di foglie lobate, e dopo altri quindici giorni si potranno raccogliere. Lasciando alcune piante arrivare alla fioritura, si scoprirà che i fiori sono piccoli, a quattro petali, bianchi con venature rosate o lilla più o meno leggere. Dai fiori nasceranno i frutti, che sono delle silique a forma di piccoli baccelli al cui interno sono conservati i semi. Solo allora, quando la pianta comincerà a seccare, sarà finita la storia dei ravanelli. Se ne potrà custodire un nuovo inizio, per l’anno successivo, quando ci sarà ancora bisogno di riempire un piccolo spazio, di avere conforto da una pianticina che cresce e di essere indulgenti con i propri errori.
Editing di Fabiana Castellino
Barbara Bernardini è nata e vive in provincia di Latina. Lavora in editoria da quasi vent’anni nell’organizzazione di corsi di formazione. Cura una newsletter, Braccia Rubate, che parla di orti, agricoltura e ambiente. È una degli attivisti di Terra!.Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica (nottetempo) è il suo primo libro.








Estrattivismo, combustibili fossili, concentrazione di anidride carbonica, fumi tossici, miasmi, amianto, silice, nubi, naturali o artificiali, dalle traiettorie infinite; in parte archeologia industriale, in parte presente nostro o di altre geografie. E intanto l’arte, come già nei cloud studies di Turner e di Gainsborough, e la fotografia di Nicolò De Finis materializzano l’aria, compost atmosferico sempre più venefico. I suoi lavori sembrano provenire dal bisogno di una gestione spaziale del tempo attraverso lo sguardo, zona porosa e metamorfica dove si manifestano déjà-vu di fallimenti architettonici, urbanistici, ma anche di volumi destinati a essere canone.
Il fotografo reagisce a suo modo alla crisi delle variabili fisiche del movimento, spazio e tempo, all’illusoria riduzione del primo e all’accelerazione del secondo, per riposizionare la propria individualità nel territorio che abita, per recuperare una soggettività precaria continuando a mettere in discussione la soglia tra pubblico e privato.
Maria Teresa Rovitto
Nicolò De Finis, nato a Roma nel 1997, è un fotografo amatore autodidatta con una passione per la pellicola in bianco e nero. Nei suoi scatti racconta momenti di vita quotidiana e particolari che spesso sfuggono allo sguardo. Trova ispirazione anche nei suoi lavori di collage digitali, dove utilizza fotografie analogiche d’epoca per creare composizioni che mescolano elementi del passato con uno sguardo contemporaneo. Oltre alla fotografia, coltiva da sempre una forte passione per la musica e per l’artigianato, lavorando come birraio. Con semplicità e curiosità, cerca di cogliere la bellezza nascosta nelle cose comuni e nei dettagli dimenticati.