Segui il ritmo

di Ilenia Sara Perra

© Giulia Travaglio

Non importa che tu capisca, segui il ritmo.

Mi fermo, sono stanca. Poggio la zappa nel tronco del fico, ormai grigio d’inverno.

È accaduto qualcosa intorno a me, lo sento, anche se non vedo nulla. Lavorare la terra regala un senso in più, o forse lo risveglia soltanto. Mi inginocchio sul manto soffice dove ho seminato le lenticchie durante l’ultima luna crescente: in più punti, a intervalli regolari, la terra è sollevata. Sapevo che qualcosa era accaduto, la radichetta primordiale ha perforato il terreno e ha spinto verso il basso e verso il cielo. Lo sanno anche la lumaca e la talpa che è successo. E i bambini, così piccoli e vicini alla terra, sentono tutto, senza occhi, senza orecchie.

Non importa che tu capisca, segui il ritmo.

Diceva così Maria Lai a chi cercava di trovare una spiegazione per i suoi libri tessili, ricamati con parole che parole non sono. 

Segui il ritmo.

Con questo approccio, come se stessi guardando un libro tessile, in assoluto silenzio e contemplazione, senza pretese di spiegare, sto davanti a un seme che germoglia. Davanti a questo miracolo, a cosa dovrebbe servirmi capire come e perché?

A voler spiegare a tutti i costi la Natura, ci è sfuggita di mano.  

Segui il ritmo. 

Sì perché la Natura è prima di tutto ritmo, vibrazione, musica. Più si sta in silenzio e più la si riesce a scoprire. È un crescendo. È un bolero di Ravel.

La sentite?

© Giulia Travaglio

Riprendo in mano la zappa. A capovolgere una zolla di terra si rischia di diventare sordi tanto rumoreggia il trafficare delle formiche, lombrichi, dorifore, e quel diorama di radici ancora bianche nel buio, che sembra un bosco innevato. 

Ho sete, ho voglia di mandarini.

Questo inverno l’albero ne è ricolmo tanto che alcuni rami toccano il terreno, piegati per il peso. 

È stato il giardino a convincermi ad acquistare una vecchia casa degli anni Settanta: due ulivi secolari, un albero di mandarini, uno di limoni, un fico, un nespolo e un melograno. Nella parte posteriore della casa c’è abbastanza terreno da poter fare un orto. La veranda che riversa sull’ingresso della casa conserva ancora i vasi della precedente proprietaria: vasi di terracotta con dentro basilico perenne, prezzemolo, aspidistre. Ho aggiunto delle grandi fioriere e le ho destinate ai pomodori, alle zucchine, all’insalata. 

Quando sono entrata per la prima volta, mentre ero ancora nel giardino immaginai la sensazione che avrei potuto avere ogni mattina nell’alzami e, ancora in vestaglia e pantofole, uscire in giardino e cogliere la frutta per la colazione. I profumi, i colori dell’alba sulle foglie, lo schizzo di succo mentre avrei colto un mandarino ghiacciato dalla notte. E il profumo dei fichi neri, che non è paragonabile a null’altro se non a sé stesso.

Nelle case accanto alla mia, costruite su un identico progetto, gli alberi sono stati per lo più abbattuti e al posto della terra ci sono quintali di cemento e piastrelle, al più dei francobolli di prato verde. Non riesco a spiegarmi perché le persone abbiano smesso di aver bisogno degli alberi. Li sento trascorrere intere domeniche a pulire le piastrelle con un’infernale idropulitrice e a tosare l’erba. Si dice che non abbiamo più tempo per l’orto ma poi perdiamo il tempo a prenderci cura di spazi che in cambio non danno nulla. 

L’orto domestico invece ha così tanto da offrire che risulta salvifico quanto una fonte di acqua pura nel mezzo del deserto. Bastano pochi semi, una zappa, poca acqua. Tanto amore.

La scorsa primavera nelle fioriere della veranda ho seminato delle zucchine striate. Era la prima volta che le coltivavo. La gioia che ho provato per mesi nel coglierle poco prima di pranzo, scalza, con un coltello da tavola in mano, trovato nei cassetti della vecchia cucina in formica, era incontenibile, strabordante, esagerata.

Stacco un mandarino: la sentite l’ape che spinge avanti le zampe per posarsi sui fiori di zagara? E lo spruzzo dei vacuoli gonfi di olio essenziale mentre sbuccio questo piccolo frutto arancione? Chiudo gli occhi per godere a pieno la dolcezza.

Seguo il ritmo. 

Mastico.

Respiro

Ascolto

Sento

Divento.

La semplicità ci salverà?

O saremo noi a salvarla?

Nel divenire è l’interscambio, l’afflato che ci prepara all’epifania.

© Giulia Travaglio

Butto le bucce del frutto nell’aiuola proprio dove c’è la pianta madre: tra nove mesi saranno nuovamente dei mandarini. 

Una parte della casa è ancora come l’ha lasciata la precedente proprietaria. Ho atteso a lungo l’apertura della sua credenza verniciata di azzurro, anni Cinquanta, con un vano a semicerchio ricoperto da minuscoli quadratini di specchio e la zuppiera a forma di pomodoro. Ho rimandato l’apertura per prolungare il senso di piacere, come se fosse un regalo da scartare. 

Apro l’anta della dispensa e un profumo intenso di spezie mi fa chiudere gli occhi, per un attimo mi ritrovo nella cucina di mia nonna, la rivedo mentre spolvera di Saporita l’arrosto della domenica. Solo quando riapro gli occhi mi giunge anche l’odore muschiato di chiuso. Sono innumerevoli le scatole e gli utensili da scoprire ma non posso fare a meno di notare il calendario appeso con una vecchia puntina di ferro arrugginito nel retro dell’anta. È fermo al febbraio del novantasette, il giorno uno è cerchiato a penna e accanto c’è scritto: carote sbarra ravanelli. 

La stampa del mese è una natura morta di Mirò, dove gli animali sulla tavola sono tutti vivi, tranne il pesce. Tolgo il calendario dalla puntina per guardare le altre stampe.  

Per ogni mese c’è una natura morta, a marzo la Fruttivendola di Vincenzo Campi, dove la cesta delle fave è adornata da romantiche rose. Vado al mese di luglio, il mio mese di nascita: Mela cotogna di Juan Sanchez Cotan. Lo sfondo è nero, un melone estivo tagliato approssimativamente, una mela cotogna ed un cavolo appesi con un semplice spago rubano la scena. Il modernismo di questo dipinto seicentesco mi commuove. Nessun orpello, nessun dettaglio se non il realismo dei vegetali che sono perciò gli unici protagonisti.

Cosa spinge i pittori di varie epoche a dedicare tanta maestria a del comune cibo?

Ma forse è più lecito chiederci come mai non diamo più la stessa attenzione alla semplice bellezza dei frutti della natura. Siamo ancora in grado di incantarci davanti ad un’opera d’arte ma poi, in casa nostra, scegliamo la tristezza delle tovaglie di plastica, acquistiamo verdure già tagliate e avvolte in innumerevoli strati di inquinante packaging. Mangiamo in fretta, distratti davanti a uno schermo e, per assurdo, nel frattempo guardiamo reels in cui si apparecchia la tavola con il servizio speciale o si cucina in mezzo al bosco. 

Cosa ci siamo persi?

© Giulia Travaglio

L’attenzione. Non siamo più in grado di fermarci e di stare in silenzio per godere semplicemente di ciò che abbiamo intorno. La bellezza c’è, certo che c’è, anche nelle moderne cucine in cui viviamo, ma non siamo attenti, concentrati altrove su quello che passano la tv e i social. Siamo schiavi privati della capacità di attenzione, la sola a farci cogliere la semplicità. 

Nel mese di settembre ci sono grappoli d’uva e pere selvatiche, dipinte da Carlo Levi. C’è tutta la dolcezza dell’autunno in poche pennellate, basta uno sguardo per desiderare di mordere quella frutta. 

Quanto ci farebbe bene mangiare in piatti di ceramica, sfiorare una tovaglia di cotone e gustare alimenti preparati dalle nostre mani?

Riporto il calendario a quel febbraio del novantasette, lo riappendo. Mentre rovisto distratta tra le vecchie cianfrusaglie profumate di Saporita, mi rendo conto di quanta malinconia mi abbiano trasmesso le nature morte, che di morto non hanno nulla. Penso a quanto sia cambiato il nostro modo di alimentarci, a quanto siamo indaffarati a esaltare la complessità delle ricette, delle quali in realtà non sappiamo riconoscere gli ingredienti.

Sembra che il cibo sia degno di riguardo solo se viene trasformato, sfigurato, solo se somiglia a tutto tranne che a sé stesso. 

Non siamo più in grado di gustare un pasto nella sua semplicità. I legumi devono necessariamente diventare un facsimile della carne, i semi devono somigliare al formaggio. 

Eppure, se guardiamo la foto di un burger di soia, non ci viene lo stesso appetito che ci verrebbe davanti a una tavola con pane e vino dipinta da Antonio Bueno. Quanto più ci impegniamo a elaborare la gastronomia, tanto più il nostro subconscio cerca la semplicità di un piatto di spaghetti al pomodoro. Perché lì c’è la nostra infanzia, il basilico di nonna, il sugo di mamma, che non riusciremo mai a fare altrettanto buono.

La nostra fame di successo ha sovrastato quella del vero cibo.

Il vero cibo è quello che i nostri antenati riconoscerebbero come tale. Le nostre bisnonne non riconoscerebbero neppure il pane di oggi, tanto meno una torta.

Dilagano video in cui i prodotti da forno sono bianchissimi, l’impasto appare come un palloncino gonfio che deve essere inciso con un bisturi, modellato, allontanato dalla sua forma, teatralizzato. Violentato. Il pane di un tempo lievitava lentamente, rimaneva basso, scuro, croccante e profumava di grano. La decorazione era una croce. La pasta madre lo rendeva digeribile e sano, era un alimento fedele a sé stesso. Esisteva per nutrirci e non per guadagnare follower e denaro dagli sponsor.

Mentre milioni di umani muoiono per fame, noi cuciniamo cose che nessuno mangia solo per gonfiare il nostro ego. Per citare un verso tratto dal saggio Fame di Martín Caparrós: «Come cazzo riusciamo a vivere sapendo? Non dicono: la fame è la dimostrazione di quanto poco ci importa che esistano altre persone messe molto male. Non dicono: di quanto poco ci importa che esistano altre persone. Ma come cazzo riusciamo a vivere sapendo che succedono queste cose?1».

Voglio credere che dietro a tutta questa fascinazione per il cibo virtuale ci sia di fondo il grande desiderio di rimettere le mani in pasta, di coltivare, di produrre. Se ancora creassimo da noi le nostre pietanze, probabilmente gli daremmo più valore, saremmo in grado di rallentare, di non sprecare. Forse avremmo bisogno di risvegliare la consapevolezza che tutti siamo in grado di cucinare e di coltivare, fosse pure un semplice vaso di insalata sul balcone, e che il pollice nero è un’invenzione – l’ennesima forma di sottrazione all’autostima imposta dal sistema affinché la nostra vita sia dedicata unicamente al lavoro necessario per acquistare tutti quei beni che potremmo autoprodurre, oltre a tutto l’inutile di cui ci circondiamo.

© Giulia Travaglio

Dodici rintocchi: è mezzogiorno.

Pane, olio e origano: il cibo più a lungo descritto da Elio Vittorini nel suo Conversazione in Sicilia. Per giorni, dopo quella lettura, non riuscivo a desiderare altro, tanta era stata la suggestione. Anche oggi sarà il mio pranzo, semplice, sacro. Anche se non ho invitati, apparecchio con una tovaglia di lino antica, pazienza se si macchia. Prendo un piatto dalla credenza della precedente proprietaria, lo lavo con cura, è una porcellana bavaria con fiorellini dorati. 

Raccolgo un cespo di cicoria spontanea da una delle aiuole. Colgo anche un limone che userò per condirla.

Quanto poco basta per creare un momento di pace e di bellezza?

Spengo il cellulare, la tv non ce l’ho dal duemilanove. 

Ci siamo solamente io e tutta la sacralità di questo pasto, così emblematico da farmi sentire davanti ad un altare.

Mi viene voglia di pregare.

Di ringraziare. 

Man mano che mastico, scompaio dentro la fragranza del pane e l’amaro della foglia.

Divento il cibo che ho tra i denti, nient’altro.

Forse è proprio diventando un sapore, un odore, un silenzio, che possiamo riscoprire la bellezza sfacciata della banalità, della quotidianità. 

È così bello non farsi domande, non aver bisogno di possedere nulla e soprattutto non sentirsi artefici di nulla, se non figli della Natura.

Editing di Viola Carrara

Ilenia Sara Perra nasce a Cagliari nel 1982. Si diploma al liceo classico e studia Biologia. Vive a Serramanna e porta avanti il suo mestiere di sarta alternandolo all’insegnamento e al quotidiano lavoro in campagna. Da sempre grande e onnivora lettrice, cura una pagina di divulgazione etnobotanica e organizza manifestazioni a tema. Ha vinto l’ultima edizione del premio internazionale Canne al vento ed altri concorsi nazionali. I suoi racconti e poesie sono presenti in varie antologie. È impegnata nella campagna di crowdfunding per il suo primo romanzo Anna Luxi.

Il senso della vista e la fibra dell’esperienza sensoriale, condotta dalle fasce muscolari e dalla nostra pelle, creano lo spazio. Questa forma intuita dello spazio è il nostro modo di entrare in contatto con le cose. L’immaginazione spaziale della fotografa Giulia Travaglio si materializza nel mondo sensibile attraverso il suo progetto Lontano, un archivio che raccoglie dettagli che testimoniano lo spopolamento delle aree rurali, in particolare di quelle meridionali colpite dal terremoto del 1980. Fotografare l’architettura per parlare di un fenomeno sociale, cercando delle connessioni estetiche, lascia intendere che questo archivio è molto più di uno spazio cognitivo, di una mappa mentale materiale di 

luoghi costruiti e non vissuti ancora abbandonati.  

Nello sguardo di Travaglio prende forma un immaginario architettonico come incontro di superfici – creta, erba, legno, vetro, fibre tessili, pietra –, tracce mnemoniche, vuoto, prospettive sociali, relazioni, molteplicità di storie; un immaginario che nella sua apparente immobilità tratta di movimento. Un movimento dove risuona anche il rapporto transitorio tra l’opera d’arte e chi la osserva. 

Maria Teresa Rovitto

Giulia Travaglio, classe 1997, è cresciuta a Muro Lucano (PZ) con la passione per il disegno, avvicinandosi alla fotografia e alla storia dell’arte negli anni del liceo. Nel 2016 si trasferisce per studiare Design e Comunicazione Visiva al Politecnico di Torino, lavorando, come tesi di laurea, a un progetto fotografico sull’abbandono. Prosegue gli studi con un corso di Comunicazione Digitale allo IED di Torino e un Master in Writing & Visual Storytelling con IAAD. e Scuola Holden. Dopo un’esperienza nel campo della comunicazione, attualmente lavora come grafica e fotografa freelance nel capoluogo piemontese, continuando a coltivare l’interesse per la cultura visiva. Ideatrice e curatrice di Lontano, un progetto di fotografia documentaria sul tema dell’abbandono e dello spopolamento dei piccoli borghi.

  1. Martín Caparrós, La fame, Einaudi, Torino, 2022.

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