Segui il ritmo. Ipertesto

di Livia Del Gaudio

© Giulia Travaglio

Più forte della tempesta

Libertà e relazione in Maria Lai

di Livia Del Gaudio

Una bambina si rifugia in una grotta durante un temporale quando a un tratto un nastro azzurro trasportato dal vento le appare davanti: il desiderio del nastro è più forte della tempesta, così la bambina esce, gli corre incontro. Un attimo dopo la grotta frana. 

Questa è la favola da cui parte Maria Lai quando, nel 1981, realizza la sua opera di land art più famosa, Legarsi alla montagna. Conosciuta come il primo intervento di Arte Relazionale, l’operazione di allestimento durò tre giorni, a partire dalla data (non casuale) dell’8 settembre: il primo giorno fu tagliato il nastro, lungo 27 chilometri; il secondo fu distribuito fra gli abitanti di Ulassai; il terzo fu legato a porte, finestre e terrazze ridisegnando lo spazio (e la relazione) tra case e persone. Alla fine, un gruppo di scalatori legò il nastro al Monte Gedili, la vetta che sovrasta e minaccia il paese con le sue frane.

Il percorso artistico di Lai è profondo e variegato, spazia dall’installazione alla scultura; dalla pittura alle iconiche tele cucite; qui però non ci interessa ripercorrere il cammino dell’artista quanto legare un filo tra l’esperienza di Ulassai e una sua breve intervista. Il video, reperibile su YouTube1, la vede anziana, camminare nei dintorni del paese, esplorarne le grotte; «una capretta ansiosa di precipizi», secondo le parole del padre.

«Chi non risponde a tutte le leggi che governano la società scopre lentamente che qualunque affetto gli è proibito e inizialmente si sente condannato» dice «quando hai capito questo però sei salvo, quando hai capito che non essere di qualcuno è essere universali, essere più vasti».

Mentre parla, Lai si stringe la sciarpa sotto il mento, si appoggia alla lana: «Quando ero bambina fuggivo sempre di casa. E allora mi si guardava con un’interrogazione: non ti amiamo abbastanza? Perché stai meglio lontana? Perché ti nascondi sempre? Io amavo stare sola. E sempre ho avuto il bisogno di creare distanze tra chi mi ama e me, non sopporto di essere amata più di tanto».

«Il vero amore», conclude, «è quello che aiuta l’altro a essere libero; bisognerebbe trovare un compagno che sappia essere inesistente».

Quello che colpisce, in queste parole, è la dolcezza di chi le pronuncia; l’aspetto fragile, delicato di Lai che conferisce a frasi tanto lapidarie su amore e affetto un significato diverso che riporta ai nastri che nel 1981 legarono la montagna al paese di Ulassai. Per tenere insieme gli estremi tra libertà e relazione, sembra dire Lai, non tanto con le parole quanto con la presenza, con i gesti, è necessario attraversare lo specchio, entrare nella dimensione della fiaba.

Nelle fiabe, come nei sogni, si mostra enfatizzando l’aspetto dello scomposto, del separato. Ma, nello stesso tempo, nello stesso spazio, si evoca enigmaticamente un senso, si risolve ciò che noi si chiama «il senso» nella forma stessa dell’enigma.

Il senso evocato nelle fiabe, come nei sogni, è dato nella forma e allo stato dell’enigma – in modo tale che noi non si possa evitare di sentirne la presenza. In modo tale che la stessa distanza che dobbiamo colmare per raggiungerlo – misurata dall’oscuro desiderio che ci spinge a raggiungerlo – sia una prova del suo sostanziale valore.

Nelle fiabe, come nei sogni, il senso, protetto e avvalorato nel suo darsi in quanto enigma, si pone come garanzia di una ricomposizione2.

È così che, quasi mettendo in pratica le parole di Tadini, sul finire dell’intervista Lai si rivolge a chi la ascolta come trent’anni prima aveva fatto con gli abitanti del suo paese: evocando l’unico linguaggio capace di sciogliere e lasciare intatto l’enigma, quello della fiaba.

Il ricordo descritto appartiene all’infanzia. A nove anni, racconta, due carrozzoni avevano sostato per una breve stagione davanti alla casa degli zii dove abitava. Appartenevano a una compagnia di zingari che allenavano i loro bambini a diventare giocolieri; insieme a quei bambini, Maria aveva imparato a volare sollevandosi sulle punte e facendo grandi giri attorno al campo. Al momento della partenza, per non privarsi dell’esperienza del volo, si era nascosta mischiandosi agli altri bambini e aveva assaporato, anche se per poco, la libertà della fuga.

«Partii con loro», dice. «E forse non sono mai tornata».

  1. https://youtu.be/4dPLso-EHvQ?si=k_ROOQNioMqxu-Iu ↩︎
  2.  E. Tadini, La distanza, Einaudi, Torino, 1998, p. 22 ↩︎

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