di Roberto Ferrini

© Isabella Nitto
La pasta in America è diversa da quella italiana, anche se sembra uguale. È molto più pesante, perché in più contiene diverse sostanze che vengono aggiunte alla fine del processo di produzione. È enriched, come dicono loro. Per questo è meglio mangiarla in porzioni più piccole, e meno spesso di quanto faresti con quella italiana. Qui a New Haven molti italiani si portano la pasta da casa. Quando a fine estate e dopo le vacanze di Natale tornano negli Stati Uniti ne infilano dei pacchi nelle valigie, in mezzo ai vestiti e ai libri. Tanto anche se a JFK ti sbatacchiano la valigia alla pasta non fa niente. Altri se la fanno spedire dall’Italia in un pacco di cartone insieme all’olio d’oliva (travasato nella plastica, quello sì, contro gli sbatacchiamenti) e a quei biscotti del Mulino Bianco che qua non si trovano. Il pacco è bello perché fa sentire vicini a casa, dà l’illusione di essere a Bologna o a Milano invece che in Connecticut e che il cibo ti arrivi da giù.
Poi però ci sono anche persone a cui la pasta americana piace. Giulia, per esempio, non si è mai portata né fatta spedire niente da casa. Né pasta, né olio, niente. A dire la verità, a parte la pasta, sembra quasi che ce l’abbia proprio con l’Italia in sé. Disprezza l’accademia italiana, ma questo è normale fra gli espatriati qua. La cosa strana se mai è che evita anche tutto quello che gli italiani fanno quando vogliono sentirsi italiani. Non esce quasi mai con gente italiana, per esempio. Vive con due coinquilini greci, e dice che da siciliana si sente più a casa coi greci che coi lombardi o i toscani, basta sapere l’inglese.

© Isabella Nitto
Una mia cara amica è presidente dell’Italian Society di New Haven, e io ho invitato Giulia diverse volte alle serate che organizzano. Lei è venuta solo una volta e ha fatto incazzare un marchigiano della School of Management a cui era partito il momento nazionalistico e stava facendo il solito discorso su quanto sia più bello vivere circondati dai reperti di una storia così lunga e gloriosa come quella italiana piuttosto che nell’anonimato di un paese senza storia come gli Stati Uniti. Lei gli ha risposto che se vivere senza storia fosse possibile sarebbe una condizione meravigliosa, perché la storia è bello studiarla da lontano ma ad avercela addosso pesa tantissimo sulla testa delle persone, e se già avere un padre spesso è soffocante avere una genealogia intera di padri è un macigno che ti schiaccia sia le gambe che, soprattutto, i pensieri. Lui non deve aver capito tanto bene e ha iniziato a tirar fuori una lista di motivi per cui la cultura italiana sarebbe superiore. A quel punto lei si è scocciata e gli ha detto che in realtà l’Italia nemmeno esiste e che il patriottismo che lui dice di sentire è solo merda retorica che viene fatta trangugiare agli italiani sin da bambini proprio per compensare il fatto che in Italia un’unità nazionale vera e propria non c’è mai stata. O una roba del genere. Al che il marchigiano ha sbottato qualcosa che non mi ricordo e se n’è andato, ferito nel suo italico orgoglio.

© Isabella Nitto
Questo tizio comunque non è il primo che ha fatto incazzare con quel tipo di discorsi, tanto che qualcuno per ripicca ha iniziato a dire in giro che parla così dell’Italia solo perchè ha problemi con la sua famiglia. Io non lo so se è solo per questo, però problemi con la famiglia deve averli davvero. Non torna in Italia quasi mai, e tutte le volte che qualcuno le fa domande sui genitori o sul suo preciso luogo d’origine fa di tutto per cambiare discorso. Risponde: «I miei sono insegnanti», «un paese in provincia di Catania», e poco altro. Non so neanche se ha fratelli o sorelle. Ho sempre avuto l’impressione che il pensiero della famiglia e del paese risvegli in Giulia qualcosa di oscuro, forse di indicibile, che il tempo invece di cancellare ha solo coperto di polvere e che quindi lei cerca di anestetizzare con lo spazio. Una sera mentre stavamo fumando una sigaretta fuori da un locale dal nulla se ne è uscita dicendo: «In America sono rinata». Ho pensato che parlasse di università e le ho risposto che per me era lo stesso, che anche se l’idea di lasciare l’Italia mi aveva spaventato a morte si era rivelata la scelta migliore che potessi fare, almeno a livello di accademia. Lei mi ha sorriso come avrebbe sorriso a un bambino che fa del suo meglio per inserirsi in una conversazione fra adulti. Poi mi ha detto di come in America si sentiva alleggerita, ripulita da tutte le inibizioni e le incrostazioni mentali da cui in Italia si sentiva inquinati i pensieri e che odiava ancora di più perché le percepiva come estranee da sé, come un prodotto degli sguardi e delle parole degli altri che per certi innati meccanismi di sopravvivenza il suo cervello aveva ormai assimilato alla radice, perché in mezzo a quegli sguardi e a quelle parole ci era cresciuta. Diceva che le piaceva non avere un’identità oltre a quella plasmata dalle sue azioni, essere Giulia e non la Portera, essere per la prima volta convinta in concreto e non solo in astratto che essere cresciuta in una famiglia di merda non è una macchia impressa indelebilmente né sulla fronte né, che è peggio, sulle sinapsi. Di come amava sentirsi un’astronauta libera di esplorare mondi sconosciuti senza l’obbligo di comunicare con la Terra e senza nessuna bandiera cucita sul braccio.
«Però se su un pianeta trovi dei mostri poi sei da sola» fu la prima cosa che mi passò per la testa di dire. Non so come venne fuori, sarà stato l’alcol o l’impulso di compensare l’uscita storta di prima con qualcosa che sembrasse un minimo intelligente. Dall’improvvisa dilatazione delle sue pupille capii che stavolta il bambino era riuscito a entrare nella conversazione anche troppo bene.
«Ero più sola prima» disse rapidamente, prima che riuscissi a cambiare discorso. A mezza voce, come se più che con me stesse parlando con se stessa, come se più che una frase rivolta a un’altra persona in quel preciso momento fosse un mantra che ripeteva tutte le volte che c’era bisogno di soffocare sul nascere il principio d’incendio innescato da qualche pensiero piromane. Credo che fu questo, più che il fatto che io avessi iniziato a parlare di altro, a dissolvere l’ombra che per un istante le era scesa sul viso.


© Isabella Nitto
Dopo quella sera non l’ho vista per diverso tempo, finché qualche giorno fa l’ho incrociata per strada. Mi ha detto di aver vinto un postdoc a Cape Town e che si sarebbe trasferita in Sud Africa entro due o tre settimane. Mi ha spiegato che sì, qui a New Haven ha una bella borsa di ricerca e un gruppo internazionale di amici che adora, però a Cape Town il progetto è più interessante, la pagano meglio, e comunque le è sempre piaciuto Coetzee. Così in pochi giorni ha firmato il contratto, avviato le pratiche per il visto e trovato un appartamento vicino al centro. Prima di separarci mi ha invitato alla festa che sta organizzando per salutare gli amici di New Haven e siamo rimasti d’accordo per prendere un caffè solo io e lei uno di questi giorni.
Chissà se anche a Cape Town si trova la pasta De Cecco. Chissà quanto è diversa da quella italiana. Mentre tornavo verso il mio appartamento pensavo che io non ce l’avrei fatta a trasferirmi in un continente nuovo così, da un mese all’altro. L’ho fatto una volta sola ed è stato faticosissimo. Pensavo a come deve essere vivere in quel modo, senza legami, liberi da tutto. Forse Giulia si è americanizzata troppo e ha sviluppato quell’individualismo estremo che non ho mai sopportato, perché totalmente incompatibile con l’ideale di società unita e solidale che ho sempre avuto in mente, per cui la ricerca della realizzazione individuale non prescinde dalla considerazione verso gli altri esseri umani. Forse invece ha ragione lei. Forse pima di costruire bisogna per forza distruggere. Liberarsi dalla genealogia dei padri e da tutte le cose che pesano sulla testa e sulle gambe. Forse, ho pensato, è meglio mangiare la pasta americana, anche se all’inizio è vero che fa un po’ schifo. Ai miei amici dell’Italian Society però non ho detto niente.
Editing di Viola Carrara
Roberto Ferrini è nato ad Arezzo nel 1994, ma da qualche anno vive a New Haven, in Connecticut. Attualmente è studente di dottorato in letteratura italiana e appassionato di letteratura degli Stati Uniti. Fa parte di un collettivo di scrittura formato da lui e le voci. Suoi racconti sono apparsi su CrunchEd, Nido di Gazza e L’Appeso.





Dentro la fotografia di Isabella Nitto la realtà sparisce: sezionata e restituita all’occhio come altro, fa parte di un processo di appropriazione e consumo dell’immagine che si oppone alla natura della pellicola. Assistiamo a un pasto i cui effetti non sono prevedibili. Il risultato è l’istantanea di una trasformazione.
Come negli esperimenti sui primi dagherrotipi il processo di sviluppo non è fissato; per questo si ha l’impressione di una fotografia che procede per fasi, che documenta più che dichiarare. L’utilizzo degli oggetti ne è naturale conseguenza: non c’è altro cui ancorarsi se non la materia nella sua forma più semplice, quella geometrica. Le nature morte di Nitto conservano il ricordo della riflessione pittorica di De Chirico e Sironi, si mostrano come metafisiche. Nella luce, nel contrasto e nell’inversione cromatica negativo/positivo si ha un effetto simile a quello di pseudosolarizzazione ma senza nessun riferimento al Novecento: un’estetica del frammento digitale, senza corpo né memoria.
Livia Del Gaudio
Isabella Nitto, nata nel 1998 a Napoli. Si è diplomata al liceo classico. Ha conseguito la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso la Sapienza, con una tesi sperimentale incentrata sul significato delle immagini nella fotografia, nel cinema e nella videoarte. La fotografia, fin dall’adolescenza è stata il linguaggio eletto nella sua produzione creativa, funzionando come dispositivo di tracciamento emotivo, visivo, concettuale; come una penna di luce. La forma degli appunti visivi è stata per anni la chiave stilistica: tante foto atte a creare un mosaico visivo, ciò poi ha lasciato spazio alla volontà di arrivare ad immagini-concetto, che fossero la sintesi visiva di impressioni, emozioni. Lo scatto si è consolidato negli anni come pratica estetica-concettuale che manifesta il rapporto con la carne del mondo, ma anche come atto in un certo senso filosofico sul mezzo della fotografia: volontà rappresentativa e simbolizzazione delle immagini. L’istanza della sua ricerca creativa è che il funzionamento della nostra mente sia già “per immagini”, e che la fotografia, in quest’ottica, tramuti questo funzionamento in un processo tecnico, estroverso. Ha pubblicato, negli anni, con Zone Magazine, Yogurt Magazine, e riviste online. Attualmente ha in produzione ricerche e progetti, nell’ambito fotografico e teatrale, con un’impostazione antropologico-visiva, sempre dialogando con gli altri linguaggi artistici.