American Pasta. Ipertesto

di Livia Del Gaudio

© Isabella Nitto

Ricercare nel passato ciò che prepara al presente: il mito della pasta e il marinaio Spaghetti

di Livia Del Gaudio

In esergo al volume 11 del Macaroni Journal – 15 ottobre 1929 – è riportato l’estratto di un discorso di Herbert Hoover, trentunesimo Presidente degli Stati Uniti d’America:

My conception of America is a land  
Where man and woman may enjoy the advantages of wealth, not concentrated in the hands of the few but spread through the lives of all;
Where they build and safeguard their homes and give to their children the fullest advantages and opportunities of american life;
Where a contented and happy people, secure in their liberties, free from poverty and fear, shall have the leisure and impulse to seek a fuller life1. 

Un continente ideale, recita il titolo. Così ideale da difendere ogni interesse; specie se economico, specie se il Paese si trova a fronteggiare la fase acuta della Grande depressione successiva ai fallimenti che colpirono gli istituti finanziari all’indomani del giovedì nero. All’interno di questo panorama di forzata rinascita si diffonde una rivista dedicata alla pasta. L’intento dell’impresa editoriale è nobilitare un prodotto legato a una categoria di immigrati particolarmente scomoda, gli italiani, per farne alimento di massa: riscrivere l’origine degli spaghetti si rivela la strategia vincente.

È del 1938 l’articolo pubblicato sempre su Macaroni Journal che ascrive a uno dei compagni di Marco Polo la scoperta: il marinaio Spaghetti, sceso dalla nave alla ricerca di acqua, si imbatte in una contadina intenta a mescolare un impasto semiliquido che si solidifica al clima caldo e asciutto del Catai. Da qui l’intuizione: un cibo secco, in grado di durare, potrebbe rivelarsi utile nei viaggi di mare. Ne compra un po’ e torna a bordo. Maneggia e tira l’impasto fino a ottenere sottili cordoncini. Per cuocerli sceglie di bollire gli spaghetti nell’acqua salata del mare2.

La notizia, con tanto di riferimento al Milione, è falsa. Si tratta di un’abile operazione di marketing, smentita alla fine degli anni Ottanta, dotata di tale forza persuasiva da essere diffusa ancora oggi. E questo perché la strategia del mito fondativo risponde al bisogno di storie di ogni essere umano.

Idolo delle origini lo definiva Marc Bloch, il più grande storico europeo del Novecento: ricercare nel passato ciò che prepara al presente. E ancora, Michel Foucault: «la storia è ciò che ci separa da noi stessi e ciò che dobbiamo attraversare e oltrepassare per pensare a noi stessi». 

Per raccontare una storia serve un principio – In principio era il verbo – poco male, anzi meglio, se l’origine si rivela un inganno: è utile per aggirare un determinismo storico contraddetto dall’esperienza.

Dalla seconda metà del Novecento il termine storytelling – letteralmente l’arte del narrare, la capacità affabulatoria –  esce dal recinto della pratica retorica per diffondersi in campi lontani da quello di partenza. L’ambiente pubblicitario contribuisce a farlo diventare il nuovo credo della comunicazione, dalla politica ai social: il viaggio dell’eroe; i tre atti; l’estetica della trasformazione che sboccia in fioritura diventano in breve tempo l’unica forma di descrivere il reale, una grande narrazione collettiva sorretta dalla metafora del seme che contiene in nuce la forma dell’albero. Così si trasmettono le informazioni: stringhe di narrazione che da un punto di partenza portano a un inevitabile (e prevedibile) epilogo.  

Eppure ogni via maestra contiene la sua pietra di inciampo. Con l’avvento di Internet, il moltiplicarsi delle fonti di informazione, l’illusione di una descrizione hic et nunc di ogni fenomeno prolifera anche la possibilità di errore: eccoci dunque a fare i conti con fake news, manipolazione comunicativa e inevitabile sfiducia nei media. Difficile, e forse improduttivo, immaginare adesso possibili strategie d’uscita; tanto vale tornare al nostro marinaio Spaghetti. 

Lo guardo avanzare spaesato alla ricerca d’acqua in una terra sconosciuta. Provare a spiegarsi in veneziano prima di rinunciare al linguaggio. Mi chiedo se, nel momento dello scambio tra moneta e pasta, lui e la contadina si siano sfiorati le mani. Mentre nella mia testa si compone l’immagine di un uomo tanto più vero quanto mai esistito, sento tra le dita dei piedi la sabbia. Ogni passo è un affondo. Alle mie spalle le navi di Marco Polo ondeggiano in rada. Nel movimento della risacca, oltre la barriera di schiuma, si disperde anche la più grande delle menzogne con cui ci hanno nutrito: il mito fondativo dell’America, la libertà.

  1.  trad: «La mia concezione dell’America è una terra dove uomini e donne possano godere dei vantaggi della ricchezza, non concentrata nelle mani di pochi ma diffusa nella vita di tutti; dove costruiscano e proteggano le loro case e offrano ai loro figli tutti i vantaggi e le opportunità della vita americana; dove un popolo contento e felice, sicuro delle proprie libertà, libero da povertà e paura, abbia tempo libero e l’impulso di cercare una vita più piena.» ↩︎
  2. Aneddoto riportato in: Massimo Montanari, Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Laterza, 2019 ↩︎

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