di Emanuele Grittani

© Marina Marcolin
Gli uomini iniziano ad assomigliare al proprio lavoro quando ne sono stanchi. Prima assomigliano al loro padre, ancora prima assomigliano al loro nonno, e a un certo punto assomigliano al loro pane quotidiano. Fernando Pessoa la mattina pare una sottrazione in colonna, tutta ordinata, a forza di lavorare in quella ditta di import-export. E poi la sera diventa una confusa serie di numeri raggranellati, che non sa se sta per sottrarsi, dividersi o moltiplicarsi. E io sembro Fernando Pessoa, da quando gli faccio da copista ne ho assunto un po’ della fisionomia. Forse la postura. Certamente il portamento, dato che devo girare con la valigetta, ché altrimenti perdo tutti i fogli e mi si incazza che non ne avete idea. Copista; non che ne abbia particolare bisogno, più un traduttore di pensiero. Lui parla e io, João Gaspar Simões, scrivo, dato che lui è troppo stanco per riportare le sue stesse parole. Dice per pudore, lui, per me gode del mio martirio.
Lisbona è un catalizzatore tanto eccentrico. La pioggia la porta a essere una danzatrice che ha appena indossato il costume di scena, a cui però annullano la prima a teatro. Allora, come tutti i posti d’acqua – di mare, d’oceano, di fiume; Lisbona ha tutto quanto, tutto insieme – si mette a fare la nostalgica.
Ma sul Signor Pessoa la pioggia ha un effetto particolare.
«Buonasera», mi dice entrando nella stanzetta della pensione che dividiamo.

© Marina Marcolin
Quale martirio? Vi starete chiedendo quale martirio possa esserci nel fare da copista al più grande poeta della storia del Portogallo.
Questo martirio. Chissà con chi avrò a che fare stasera.
Indago.
«Buonasera», rispondo cordiale.
«Lei non crede che le forme di saluto non siano altro che la configurazione di una vergogna reclusa?»
Cominciamo bene.
«Le comunicazioni tra le persone procedono e si instaura via via un grado di intimità maggiore. Dopo ogni conversazione, sento di essere più vicino a qualcuno. Poi le convenzioni sociali. Questi saluti che rimettono gradi di ristagnante distanza, come dovessimo di nuovo conoscerci. E allora quando, mi chiedo, quando arriveremo a conoscerci per davvero se ogni giorno ripartiamo dallo stesso saluto, come fossimo due sconosciuti?».
Devo già scrivere? Mi sono perso l’inizio del discorso. Chiedo: «Signore, vuole che cominci a scrivere?»
«Che vuol dire scrivere?»
«Bene», questo deve essere Alberto Caeiro. Tento di fare la prova del nove: «Signore, sarà il caso di parlare della sua morte? Così, per iniziare a conversare?».
«Non so quando morirò, è l’unica cosa che non so di me».
Aspetta, allora è Ricardo, Ricardo Reis. No, ti prego non Ricardo Reis.

© Marina Marcolin
«Eppure la morte è stato l’unico obiettivo della mia ricerca nella vita», non si ferma, «semmai è proprio questa mia asepsi alla vita che si spiega con la ricerca della morte».
Reis no, ti prego. Reis parla strano, un po’ latino, un po’ inglese, sta sempre a citare Orazio e Lucrezio e che cazzo, non gli sto dietro. Stasera no, ti prego.
«Eppure sono convinto che la vita si somigli solo agli antipodi. Non troverai mai un padre che sia identico al proprio figlio neonato, appena lo prende in braccio. Persino se sovrappongono le loro teste e si sfregano le fronti in un abbraccio che è una annessione. Ma troverai un nonno morente essere identico al proprio nipote in culla».
Io, nel dubbio, scrivo.
«Eppure, sono così misero da non sapere la data della mia nascita».
Allora non è Ricardo. Forse è Bernardo Soares. Sì, deve essere Soares. Per fortuna l’ho scampata. Mi risparmio Reis e faccio una bella serata di tabacco e filosofia con Soares. Temevo il peggio.
«Signore, è un problema se accendo una sigaretta?» domando mestamente.
«Le hai con te?»
«Sì, le ho prese prima in tabaccheria».
«Tabaccheria!» che errore, no! Adesso attacca: «Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo».
Il martirio di avere a che fare con un uomo jukebox che potrebbe cambiare identità ogni sei parole.
Almeno siamo sicuri. Non è né Reis né Soares. Oggi è Àlvaro de Campos. Nevrotico e provocatorio uomo col monocolo. Prima o poi finiremo a parlare di Ophélia. Chi è Ophélia? Lasciate fare. De Campos è un treno senza macchinisti senza controllori e senza conducente; non si muove su rotaie, non si ferma in stazione. Insomma, non si sa dove può andare, ma a un certo finisce da Ophélia. Sempre. Lasci andare solo le cose che sai dove ritrovare.

© Marina Marcolin
«Gli uomini possono essere felici?»
Devo scrivere o rispondere? Abbozzo un tentativo di conversazione per divincolarmi: «Signore, questa credo sia una domanda a cui solo Lei è in grado di rispondere. Sicuramente è più in grado di me».
«Giusto».
«Grazie della fiducia».
«Chieda pure».
«Signore, gli uomini possono essere felici?»
«No».
«Non avevo dubbi», poteva almeno temporeggiare, lasciare una tiepida speranza. Invece No! diretto.
«Possono solo essere tristi allora?» per deduzione, evinco sarà così.
«No».
«Nemmeno. Quindi: mezzo e mezzo?»
«Non mezzo e mezzo».
«Come?»
«Tutto insieme, entrambi, contemporaneamente, nello stesso attimo. Gli umori sono plurali. E gli uomini devono essere plurali, come l’universo».
Àlvaro guarda fuori. Dalla finestra ad altezza uomo si vede una rua del centro di Lisbona. Lo sferragliare del tram ridesta i suoi pensieri, lo noto perché digrigna i denti. Lo disturbano i rumori improvvisi.
«Guarda» indica fuori. Mi affaccio anch’io, con il foglio in mano. «Cosa ti sembra Parigi?».
Peggio del solito stasera.
«Vedi Montmartre?» un piccione si poggia sul nostro davanzale esterno, immobile, non curante di me e di Àlvaro.
«Tipico piccione di Montmartre».
«Cosa?»
«Nulla» singhiozzo «la prego, continui».
«E sotto Montmartre, quel boulevard con i surrealisti, i modernisti, gli esoterici e tutti i malinconici, gli infelici, gli insoddisfatti. Nessuno di quelli soddisfatti può fare letteratura. E io come farò a portare tutto qui?».


© Marina Marcolin
«Signore», mi intrometto, «ma Lei ha già portato tutto qui».
«E guarda, Londra, quel quartiere che si chiama Camden, in cui l’arte erompe via povertà».
Io vedo sempre e solo il piccione, che mi guarda negli occhi, sembra che mi consigli di assecondarlo, sa anche lui che altrimenti non ne si esce.
«Come farò a portare tutto in queste vie spente e lontane?».
«Signore» ci riprovo «ma Lei c’è già riuscito. È Lei che ha portato tutte le avanguardie qui a Lisbona. Lisbona esiste grazie a Lei».
«Non dica sciocchezze João. Il portoghese è la lingua dei naviganti, il Portogallo, una nazione di marinai. Come posso, io, aver portato qualcosa a questo popolo? Io che ho visto così poco, che ho viaggiato così poco, per poi rintanarmi in questa pensione».
«Ma Lei è capace di andare altrove».
Si riaffaccia alla finestra, nota che il piccione si è ormai disinteressato. Adesso ci dà il culo volatile, prende lo slancio per andar via e vola lontano. L’abbiamo annoiato.
«E se cominciassi a parlare per animali?»
Sono fregato.
«Che intende Signore?»
«La mia identità primordiale, la più recondita. Quella che finge di vivere perché l’unico modo vero per vivere è fingere. Se quella voce fosse la voce di un animale?»
Questo potrebbe cominciare a tubare e potrebbe farmi scrivere appunti sul suo tubare. O peggio, potrebbe cominciare a gracchiare e io mi dovrei mettere a scrivere cra, cra, cra e magari ne uscirebbe una nuova corrente sull’onomatopoesia. Meglio depistare.
«Signore, perché non mi racconta la sua giornata?»
«Subisco la fascinazione della noia».
Siamo tornati su strade normali.
«Resta il modo per scandire i tempi della propria esistenza. Chi crede di vivere in pienezza rispetto alla vita, non comprende che si sta solo lasciando schiacciare da essa».
Forse.
«Perché condottieri, politici, guerrieri e soldati non sono altro che impostori. Credono di essere coraggiosi e di poter cambiare il corso della storia. Ma come si potrà cambiare il corso della storia se non si comprende che l’unica guerra da combattere è quella che ci abita? Il resto, la storia, là fuori, non sa fare altro che ripetersi».
Io intanto scrivo, almeno ci provo.
«Per questo è il Sonno. È il Sonno. Il momento in cui la noia mi vince. Il Sonno ma non il sogno. Il sogno è ancora imperterrita, ostinata, ricerca della vita, della vita nella più autentica delle sue forme. Io cerco il Sonno puro, lontano dalla veglia».
«Signore, a proposito di Sonno. Non è che per caso?»
«Non ne ho mai. Mi cinge solo una sfibrante stanchezza, ma mai il Sonno».
Appunto. Si prospetta un’altra notte in bianco.

© Marina Marcolin
«Questa stanchezza non mi porta verso il Sonno che vorrei. Il Sonno che vorrei è un Sonno puro e pieno, è un Sonno vitale nella sua affermazione di non vitalità. Invece questa stanchezza mi porta solo al rifugio. Mi porta a una morte fiaccata».
Mi chiede una sigaretta, con il solito riguardo, sentendosi in colpa, come stesse operando un furto. Gliela do volentieri, comincia a fumarla.
«Eppure ho dormito bene, quella volta, sul petto di Ophelinha, del mio piccolo caro Bebè, del mio Bebè angioletto. Ho dormito e la mia inquietudine era quietata».
«E poi cos’è successo Signore?»
Aspira. Prende una boccata più profonda di quelle scandite finora. Poi soffia via il fumo.
«Hanno agito le mie identità, vigliacche. Come potevo non ascoltarle? Come puoi pretendere, tu, persona, di essere uno solo?»
«E Lei, Signore, quante persone è?»
«Non è importante questo. È importante il fatto che sono e sarò per tutti. Quindi, non sono e non sarò mai per nessuno».
Si alza dalla sedia. Si congeda con la solita riverenza, toccando il proprio cilindro nero. Apre il baule nell’angolo destro della stanza. Infila prima una gamba poi l’altra, ci entra dentro per intero e lo chiude dall’interno, senza voltarsi.
Finisco di scrivere le ultime parole mentre continuo a pensare a una confusa serie di numeri raggranellati. Mi alzo, faccio per andar via. Sul davanzale torna a disturbare un piccione, potrebbe essere lo stesso di prima. Mi fermo un istante in più per guardarlo.
Inizia a tubare.
«Ecco», sorrido, «Parigi».
Editing di Viola Carrara
Emanuele Grittani (San Severo, 2001) si è laureato in Lettere moderne all’Università “Aldo Moro” di Bari con una tesi sperimentale sul “Dolore nella composizione nella vita di Charlie Parker, Amy Winehouse e Niccolò Fabi” (nel frattempo sta proseguendo gli studi all’Università di Torino). Ha pubblicato il romanzo d’esordio Il mazziere dei vinti (Les Flâneurs Edizioni, 2023) ed è collaboratore presso il magazine CiakClub.








Al centro dell’inganno ordito da Zeus per sedurre Leda c’è un cigno. Secondo il mito, il padre degli dei, innamoratosi della regina di Troia, assunse le forme dell’animale per avvicinarla sulle rive del fiume Eurota. La donna, vedendo il cigno minacciato da un’aquila, ingenuamente mossa dal desiderio di proteggerlo, lo nascose sotto il mantello. Dall’unione tra dio e mortale fu generato un uovo: nell’uovo due gemelli, Elena e Polluce.
Nel 1845, al Königliches Hoftheater di Dresda, Richard Wagner diresse la prima di un’opera in tre atti da lui composta, Tannhäuser, di cui, come da tradizione, era suo anche il libretto: per l’occasione, nei panni di Elisabeth, debuttò la nipote, Johanna Wagner. L’opera non ebbe il successo sperato. Qualche tempo dopo, però, giunta a Parigi, risvegliò l’entusiasmo di Baudelaire che così ne scrisse: Tannhäuser rappresenta la lotta dei due principi che hanno scelto il cuore umano come principale campo di battaglia, vale a dire della carne con lo spirito, dell’inferno con il cielo, di Satana con Dio.
Nel Tannhäuser, tra canti di sirene e grida di baccanti, fa la sua comparsa il cigno. Che Wagner ne fosse consapevole o meno, scrivere dell’eterno conflitto tra sacro e profano vuol dire mettere in scena l’animale. È attraverso la bestia che il paradosso del doppio si incarna.
La selezione di immagini proposte da Marina Marcolin parte da un cigno rappresentato nella forma di uroboro: privo di testa, conseguente al suo doppio, di difficile catalogazione anche per quanto riguarda la tecnica. Non è un caso. Il doppio, per Marcolin, è il risultato di una scomposizione per frammenti. A proposito del suo lavoro l’artista scrive: Esiste uno spazio imperfetto e misterioso che resta in bilico prima di appoggiare la matita sul foglio, inchiostrare una lastra incisa o sviluppare il rullino fotografico […] Ciò che lega queste immagini non è un filo logico ma è quello da funambolo, un filo che percorro nel mio fare quotidiano in compagnia del grande vuoto che c’è sotto. La connessione tra doppio/animale/dio diventa immagine nello stesso modo delicato in cui la fotografia sfuma in acquarello: è qui che Marcolin incontra Wagner.
Nel mondo senza limiti dell’artista l’unità è garantita dal linguaggio, nello stesso modo in cui opera la musica in Wagner: membrana che raccoglie il frammento senza semplificarlo, rete dentro cui si muovono le conchiglie, le stelle marine, il mondo in continua trasformazione che rifugge la rigidità della forma. L’immagine è catturata all’interno del processo e da questo si suppone derivi la scelta rigorosa del bianco e nero: come a conservare un’impronta. Negli aspetti scientifici, di raccolta, il lavoro di Marcolin assume i connotati dei libri di botanica di fine Ottocento, le raccolte di memorabilia, i diari di viaggio.
La traccia del cigno è conservata nei resti di un guscio. Una piuma ne attesta il passaggio.
Livia Del Gaudio
Marina Marcolin. Pittrice e illustratrice, collabora con case editrici e gallerie nazionali e internazionali. La sua ricerca artistica la porta a esplorare, con diversi strumenti e tecniche analogiche, il mondo e le sue tracce invisibili, le presenze, i silenzi e l’immaginario. Vive e lavora ad Arcugnano, tra un lago e il bosco.