Postulante. Ipertesto

di Fabiana Castellino

© Giulia Ferrando

La vestizione

di Fabiana Castellino

Avevamo ventiquattro anni e ci eravamo appena laureate. Io avevo ricevuto da amici e parenti braccialetti e collanine che in quei giorni indossavo tutti insieme. Lei venne a casa mia e mi disse che si era trattato di un innamoramento e che non poteva farci niente. Si fece accompagnare da un’amica comune, come se per dire di essere innamorati servisse un aiuto, e trovai la cosa ridicola. Le dissi probabilmente quello che sperava le dicessero tutti, «Buon per te, se sei contenta tu, contenti tutti» e il tintinnio dei miei braccialetti e delle mie collanine mi sembrò fuori luogo. A differenza mia, gli altri si sconvolgevano, si lamentavano, piangevano, qualcuno dichiarò «Pregherò il Signore perché ti faccia cambiare idea», che per chi desidera la clausura è il massimo livello di contraddizione. 

A tutte queste cose non pensavo quando ero sul treno. Mi accanivo su quello che non potevo capire, perché credevo che l’ostinazione fosse un modo sincero di vivere. Ero sulla tratta più brutta e pericolosa che avessi mai percorso. E anche nel futuro che non avevo ancora vissuto, avrei trovato conferma che non c’era ferrovia più mostruosa di quella che stavo attraversando. Si partiva dalla stazione Flaminia e si attraversava la Tuscia, che era fatta di colline di tufo e nella loro pelle butterata si nascondevano discariche e tristi vigneti. 

Così mi parve o forse era la mia immaginazione, perché non avrei visto niente oltre i buchi del tufo. 

La verità è che non mi ricordo che cosa pensassi su quel treno, inclinato sul dirupo, su binari troppo sottili, fermandosi ogni piè sospinto in stazioni che sembravano guardare in cagnesco già dal marciapiede. Pensavo solo che non avrei mai più rifatto questa strada. 

Il convento era protetto da un enorme portone di legno, nessuno veniva ad aprirti. Bussavi ed entravi, con tutta la forza di cui eri capace. Delle persone giunte per l’occasione io non conoscevo quasi nessuno. Noi dovevamo restare nella foresteria, un edificio costruito nel cortile antistante il convento, che era circondato da spesse mura, e le porte erano chiuse a chiave. Il cibo ci fu offerto, ma dopo dovemmo lavare i piatti. Io mi misi a strofinare posate e bicchieri, perché mi sembrava una buona occasione per non dire niente e ascoltare molto. In ogni caso nessuno aveva veramente qualcosa da dire. 

Della cerimonia non abbiamo visto nulla, ma abbiamo sentito tutto. L’altare era nascosto da una pesante arcata, oltre la quale c’eravamo noi, i forestieri, quelli venuti da lontano. Avevamo il posto di ciò che è transitorio. Il convento era solido invece da un centinaio di anni. Riuscivamo solo a scorgere lei mentre si muoveva avanti e indietro dall’altare, con il velo bianco, la veste bianca, a ricevere benedizioni. 

«Vieni alla mia vestizione, tu non puoi mancare» mi aveva detto. E io ci andai davvero solo perché l’ostinazione era quello che avevamo in comune. 

Dopo la cerimonia abbiamo potuto vederla nella stanza delle visite, in cui c’era solo un tavolo le cui estremità arrivavano a toccarne le pareti. Le parlammo, l’abbracciammo, ma il tavolo non si poteva oltrepassare. Tutto diventa simbolico quando la realtà rimpicciolisce. 

Le dissi «Sei una stronza», e chissà perché gliel’ho detto, lei si è fatta una risata. È persino venuta nella foresteria con noi, «solo per questa volta», un’eccezione, abbiamo festeggiato, non sapevamo bene cosa. 

Dal convento uscì una suora che si diresse con un secchio vuoto verso la foresteria e lasciò la porta aperta. Si intravedeva un giardino. Un prete mi si avvicinò, «Approfittane, non ti ricapiterà mai più». Rimasi sull’uscio, tutto era simbolico. Vidi un enorme giardino con cespugli di rose, l’erba verde e alta. Si scorgevano in lontananza campi di terra nera e umida, così spessa che si poteva sentire solo guardandola. Ho fatto un passo indietro e ho ricordato il tufo e i vigneti polverosi, e ho pensato che soffrire per qualcun altro è un fatto puramente egoistico. In realtà si soffre per sé stessi, per tutto ciò che bisogna affrontare, a volte senza alcun motivo. 

Ci siamo salutate, promesse di rivederci presto, sapendo che lei non sarebbe mai più uscita e io non sarei più tornata. Poi ho ripreso il treno, e mi sono addormentata fino a casa.

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