Uno spazio instabile e aperto. “La figlia unica” di Guadalupe Nettel.

Aurora Dell’Oro

La figlia unica è il terzo romanzo di Guadalupe Nettel, dopo Il corpo in cui sono nata (2011) e Quando finisce l’inverno (2014). La scrittrice, nata in Messico ma attualmente residente a Barcellona dove insegna e traduce, è anche autrice di diverse raccolte di racconti, di cui Bestiario sentimentale e Petali e altri racconti scomodi sono stati tradotti in italiano.

L’ingresso nel testo avviene attraverso un movimento scandito in due tempi. Il primo è dato dalle tre epigrafi poste in esergo (D. F. Wallace, Alda Merini, il “Sutra del diamante”); il secondo si compie per mezzo della descrizione di un neonato addormentato, a cui si intreccia una riflessione che contiene alcuni dei nuclei tematici del romanzo: la maternità, la fragilità della condizione umana, la necessità di avere e ricevere cura. 

La voce narrante è Laura, una prima persona singolare la cui individualità si circoscrive inizialmente attorno a una scelta, quella di non avere avuto figli e di non volerne avere nemmeno in futuro. L’immagine che ci restituisce di sé è quella di una donna giunta alla soglia dei trent’anni con un bagaglio di esperienze che, per quanto ricche di viaggi, studi e relazioni, le hanno però lasciato qualcosa di irrisolto. Ne prende consapevolezza lentamente, soprattutto attraverso una vicenda di cui è testimone partecipe e che coinvolge la sua migliore amica, Alina. Benché essa costituisca il motore narrativo del romanzo, si intreccia ad altri fili narrativi, solo in apparenza secondari. Essi si sviluppano all’interno di capitoli brevi, capitoli che sono istantanee fotografiche in cui avviene una continua rimessa a fuoco dell’obiettivo narrativo, attraverso una scrittura che non giudica, ma esprime punti di vista, mutevoli quanto possono esserlo le circostanze di una vita.

Tutti fanno capo a personaggi femminili: la madre, di cui Laura scopre con sorpresa l’impegno militante all’interno di un collettivo, la già citata Alina, Doris, la vicina di casa, vedova di uomo violento alle prese con un figlio problematico, e poi altre donne, comparse che danno un contributo fondamentale al percorso di crescita intrapreso – suo malgrado, si potrebbe dire – dalla narratrice. Aiutano Laura ad appropriarsi di un’identità nuova, l’accompagnano in un percorso di studio della realtà grazie al quale costruisce un rapporto più complesso con il concetto di maternità, non più fondato su una visione binaria (essere madre/non essere madre), ma aperto a strade, e sentimenti, che forse non pensava potessero esistere. 

A fare da contrappunto al dipanarsi degli eventi, l’attenzione per il comportamento animale, nella fattispecie per una coppia di piccioni diventati genitori “surrogati” di un pulcino, funge da correlativo oggettivo per la storia della narratrice e porta a interrogarsi su cosa sia davvero “natura” e cosa sia invece sovrastruttura, concrezione storica e sociale.  

Nel futuro prospettato dalla chiusura del romanzo, nulla è stato ancora deciso in modo irreparabile; persino la maternità di Laura è diventata realizzabile, per quanto non biologicamente. All’interno di questo spazio instabile e aperto a ogni possibilità, permane in ogni caso la certezza che la vita è più inesorabile di un destino. 


La figlia unica, Guadalupe Nettel, trad. Federica Niola, La Nuova Frontiera, 2020, 224 pagine.

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