

Philip K. Dick
Philip K. Dick è diventato celebre come scrittore di fantascienza, tuttavia le sue opere si prestano a una lettura che va oltre i clichés della letteratura di genere.
Nato nella fredda e ventosa Chicago, in Illinois, nel 1928, ma trasferitosi con la madre in California quando era ancora un bambino, si mette a scrivere quando ha poco più di vent’anni, dopo avere abbandonato gli studi universitari a Berkeley, in quanto renitente alla leva, e dopo avere lavorato in un negozio di dischi.
La scoperta della fantascienza avviene per caso, grazie a una rivista che aveva acquistato per sbaglio, ma ha un effetto folgorante. Nel 1952 pubblica il suo primo racconto su «Planet Stories». Da quel momento, non solo avrebbe continuato a sfornare storie ogni due settimane, ma avrebbe lavorato, in parallelo, ai suoi quarantasei (quarantasei!) romanzi.
In essi è ricorrente, se non costantemente presente, la riflessione sul rapporto tra realtà e illusione, verità e menzogna; le opere di Dick fioriscono attorno a realtà alternative scaturite da improvvise virate nella percezione dei personaggi, i quali, costretti a un impensabile sforzo adattativo, devono affrontare esiti imprevedibili. A volte il tema è sviluppato in chiave gnostico-religiosa (si pensi, ad esempio, a “Valis”); altre volte, invece, offre l’occasione per rappresentare le conseguenze della manipolazione delle coscienze operata dal potere (probabile allusione al clima politico statunitense negli anni Cinquanta e Sessanta).
L’inizio degli anni Sessanta vede nascere i romanzi che, secondo il critico di settore Darko Suvin, sono i meglio riusciti di Dick: si ricorda, ad esempio, la “La svastica sul sole”, uscito nel 1962, vincitore del premio Hugo nel 1963 e poi ripubblicato sotto il titolo di “L’uomo nell’alto castello”. In ogni caso, l’ascesa di Dick nel firmamento letterario (sempre che di ascesa si possa parlare) è di breve durata. Nella seconda metà del decennio, infatti, si diffonde la notizia che l’autore è un tossicodipendente con problemi mentali e questo, nell’America che ancora sta metabolizzando il decennio maccartista, impedisce ai romanzi di ricevere il riconoscimento loro dovuto.
Dick muore misconosciuto e in povertà, ossessionato fino all’ultimo dalla morte della gemella Jane e prostrato dalla coatta attività scrittoria a cui si era dedicato per poter pagare gli alimenti alle ex mogli. Il valore della sua produzione sarebbe stato “scoperto” poco dopo la sua morte, anche grazie al successo di “Blade Runner” (1982), pellicola di Ridley Scott tratta dal racconto “Il cacciatore di androidi”.
Oggi viene celebrato come un esponente di spicco del postmodernismo, oltreché come uno degli antesignani dell’Avantpop e del cyberpunk.
La trilogia di Valis.
“Ci sono due romanzi, Radio Libera Albemuth e Valis, che raccontano la medesima storia in due modi diversi. Ci sono due protagonisti in entrambi i romanzi, per un totale di quattro personaggi principali. Uno dei due, e quindi due dei quattro, è Philip K. Dick; l’altro è il suo alter ego letterario, ovvero il destinatario di visioni inviate da un sistema superiore che il romanziere è incaricato di tradurre nel linguaggio della fantascienza”.
«L’esaurimento nervoso di Horselover Fat cominciò il giorno in cui ricevette la telefonata di Gloria, con cui gli chiedeva se avesse del Nembutal. Lui le domandò perché lo volesse, e lei rispose che aveva intenzione di uccidersi. Immediatamente Horselover Fat balzò alla conclusione che quello fosse un suo sistema per chiedere aiuto. Era da anni un’illusione di Fat quella di poter aiutare la gente. Il suo psichiatra una volta gli aveva detto che per star bene avrebbe dovuto fare due cose: rinunciare alle droghe (cosa che non aveva fatto) e smetterla di cercare di aiutare la gente (cercava ancora di aiutare la gente)».
Così inizia “VALIS”, acronimo di “Vast Active Living Intelligence System”, il primo libro della trilogia uscita negli Stati Uniti tra il 1981 e il 1982 e pubblicata in Italia da Mondadori, nel 1993. Il romanzo riprende e amplia “Radio Free Albemuth”, esito di un’esperienza mistica che Dick avrebbe vissuto nel 1974 quando avrebbe ricevuto informazioni sulla malattia del figlio e sulla natura del mondo: «Ho fatto esperienza di una invasione della mente da parte di una intelligenza razionale e trascendente. Come se fossi stato pazzo per tutta la vita, mi sono scoperto improvvisamente sano».
L’io narrante del romanzo, nonché alter ego dell’autore, Phil Dick, intraprende una ricerca teologica insieme all’amico Horselover Fat, dopo che questi gli ha chiesto di aiutarlo a interpretare la massa di dati scaricati nel suo cervello da una misteriosa intelligenza divina (il Valis del titolo). Il romanzo, così come i seguiti “Divina invasione” e “La trasmigrazione di Timothy Archer”, è talmente ricco di citazioni religiose e filosofiche da rendere impropria la definizione di opere fantascientifiche; non mancano, del resto, elementi riconducibili al genere giallo e alla meta-autobiografia, così come riflessioni sociali sulla controcultura degli anni Sessanta e sul suo fallimento.
Parsifal.
“Una citazione dal Parsifal ricorre in Valis, dove Horselover Fat conclude che tutte le voci che sente appartengono a diverse estensioni di sé stesso che gli parlano attraverso diverse dimensioni dello spazio, percepite erroneamente come tempo: «Vedi, figliolo, qua il tempo si tramuta in spazio»”.
Il 26 luglio 1882, al Festival di Bayreuth, Hermann Levi dirige l’ultimo dramma musicale di Richard Wagner, il “Parsifal”. L’opera, che trae ispirazione dal ciclo arturiano, arriva in Europa, precisamente a Bologna, solo il 1 gennaio 1914, cioè pochi mesi prima dello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli intellettuali dell’epoca lo accolsero con riserbo, soprattutto perché mal si coniugava con lo spirito positivistico di quegli anni; al contrario, doveva rappresentare, per Wagner, il massimo esempio di dramma “liturgico”, cioè di opera musicale connotata in senso mistico, spirituale e, in definitiva, sacrale. Secondo Wagner, infatti, l’arte non avrebbe altro compito se non quello di «salvare la religione, [poiché] spetta all’arte» impossessarsi «dei simboli mitici autenticizzati dalla stessa religione», per darne «una rappresentazione ideale» e farne «trasparire la verità profonda.» (Cfr. R. Wagner, “Religione ed arte” [1880], Il nuovo Melangolo, 1987)
Nell’eremo fondato da Titurel sul Monsalvato, i puri di cuori trascorrono un’esistenza pacifica e difendono il bene traendo forza dal Sacro Graal e dalla Lancia di Longino, quella con cui venne ferito Cristo sulla Croce. Tuttavia, il cavaliere Klingsor, incapace di reprimere l’attaccamento nei confronti del mondo e dunque respinto da Titurel, si vota all’esercizio della magia nera convertendo le pendici del Monsalvato in un giardino dei piaceri, a cui soggiace Amfortas, figlio di Titurel. Il destino dell’eremo appare ormai segnato, a meno che non intervenga un redentore, un folle dal cuore puro; ovvero, Parsifal.
La famiglia Brontë.
Era il 1802 e Patrick Prunty era appena entrato nel Saint John’s College, quando decise di cambiare il suo cognome in Brontë, in onore dell’ammiraglio Horatio Nelson, diventato Duca di Bronte per grazia del re Ferdinando IV delle Due Sicilie. Fu così che questo cognome passò ai suoi figli: Maria, Elizabeth, Charlotte, Branwell, Emily Jane e Anne.
Nessuno di loro, tuttavia, ebbe vita longeva.
Maria e Elizabeth morirono giovanissime di tubercolosi; Branwell, che a quanto si dice era un giovane talentuoso, cadde preda di una grave depressione, si diede all’alcolismo e al consumo di oppio e laudano e morì per una crisi di delirium tremens, nel 1848; la sorella Emily, autrice di “Cime tempestose”, lo seguì pochi mesi dopo, e così Anne. La sopravvissuta Charlotte riuscì a curare le opere delle sue sorelle e a scriverne una breve biografia, dopo avere pubblicato alcuni romanzi, tra cui “Jane Eyre”, ma spirò a trentanove anni a causa di complicazioni legate alla gravidanza.
Alle tre sorelle, che avevano scelto di pubblicare sotto gli pseudonimi di Currer Bell (Charlotte), Ellis Bell (Emily) e Acton Bell (Anne), per timore di non essere prese sul serio da editori e lettori, fu riconosciuto valore letterario soprattutto dopo la loro scomparsa. Tuttavia, se Charlotte e Emily sono ben note anche ai non lettori, grazie ai film tratti dalle loro opere, varrebbe la pena riscoprire i romanzi di Anne Bronte, che sono meno mainstream. In particolare, in “La signora di Wildfell Hall”, una storia “sbagliata” secondo Charlotte, perché incentrata su un matrimonio infelice raccontato con un linguaggio a tratti violento, si potrebbero trovare interessanti spunti di riflessione.
I segreti di Twin Peaks.
«Nel corso di un’indagine così intricata la via più breve fra due punti non è necessariamente una linea retta». (Agente Cooper)
Nella tranquilla cittadina di Twin Peaks, nello Stato di Washington, viene scoperto un cadavere denudato e avvolto in un sacco di plastica: si tratta di Laura Palmer, una delle ragazze più popolari del posto, nonché figlia di un noto avvocato. Poco dopo il macabro ritrovamento, un’altra giovane viene recuperata al di là del confine canadese, mentre vaga ferita e in stato confusionale. Viene chiamato a indagare sul caso l’agente Cooper dell’FBI il quale ben presto si rende conto che, per scoprire l’identità dell’assassino, deve fare affidamento soprattutto sul suo sesto senso.
Questa, a grandi linee, è la pista narrativa su cui si costruiscono gli episodi della serie, divenuta ben presto un cult. Ideata per l’emittente ABC e andata in onda tra il 1990 e il 1991, è stata scritta e diretta da Mark Frost e David Lynch, nonostante la forte avversione di quest’ultimo per la televisione, definita un «medium orrendo». Ispirata in parte a “The Goddess: the secret lives of Marilyn Monroe”, una biografia scritta da Anthony Summers, la serie mescola il grottesco alla parodia delle soap-opera anni Ottanta, il poliziesco all’horror, la realtà al soprannaturale. Non a caso, l’ambiguità emerge come cifra significativa del telefilm già dalle sequenze incipitarie del primo episodio, in cui ricorrono elementi doppi (due cascate, due anatre, due soprammobili a forma di levriero). Non solo: volutamente ambiguo è anche il tempo in cui si svolgono i fatti. Nelle intenzioni di Lynch, infatti, gli anni Cinquanta avrebbero dovuto incontrare – e contaminare – gli anni Novanta.
La popolarità della serie comincia a calare dopo che gli autori, pressanti dall’ABC, vengono costretti a rivelare l’identità dell’assassino. È comunque probabile che la diminuzione negli ascolti è stata causata anche dallo scoppio della Guerra del Golfo, che ha spinto i telespettatori a seguire con maggiore frequenza i notiziari. Nonostante ciò, “Twin Peaks” è una delle pietre miliari nella storia dei serial televisivi e ha segnato in profondità l’immaginario di più generazioni. Non è un caso, infatti, che nel 2017 sia stato finanziato un revival, ancora una volta diretto da Lynch.