di Marco Piazza

© Dalia Guerguache
Se c’è una cosa che adoro è defecare nel bosco. All’aria aperta, nella natura. Ho perfezionato la tecnica da adulto, nel corso di oltre vent’anni, ma sicuramente devo averlo fatto più volte da bambino. Sui monti, intorno al lago di Como, quando con tutta la famiglia andavamo a fare lunghe passeggiate nei fine settimana e non immaginavo che un giorno l’avrei fatta nel Borneo.
La vera iniziazione però, la presa di coscienza, è avvenuta nei boschi della Deschutes National Forest, Oregon. Era il 1996. Subito dopo la laurea avevo trovato il lavoro perfetto. In sostanza venivo pagato per camminare nel bosco, da solo, e raccogliere dati. Passavo le giornate attraversando infinite distese di “Loblolly pine” (Pinus taeda). Boschi aperti, con gli alberi distanti tra loro e un sottobosco arido e roccioso. C’erano stati eventi meteorologici particolarmente intensi durante l’inverno precedente: violenti acquazzoni e folate di vento e molti alberi erano caduti, o rimanevano in bilico appoggiati ad altri. Procedevo come in una corsa a ostacoli, scavalcando i tronchi abbattuti o passandoci sotto, oppure camminandoci sopra come un equilibrista. Quando avevo fame mi fermavo benedicendo quegli alberi che con la loro immensa chioma mi regalavano un posto all’ombra. Per qualche minuto chiudevo gli occhi e rimanevo ad ascoltare i suoni del bosco. La sera tornavo al campo base dove avevamo le tende e le giornate si spegnevano attorno al fuoco, a bere birra e mangiare noccioline e fagioli in scatola. Qualche volta, sdraiato sulla brandina, mi facevo cullare dalle pagine di John Muir, e dai suoi ruggiti nella Sierra Nevada. È in quel periodo che è nata la mia passione per la letteratura di viaggio e di boschi. In pochi mesi ho divorato tutto ciò che riuscivo a trovare fra le bancarelle dei libri usati: Aldo Leopold o Ralph Waldo Emerson. Un posto speciale l’ha sempre avuto Thoreau, con lui mi intrattenevo in lunghi dialoghi immaginari mentre camminavo. A lui devo l’abitudine di tenere nella tasca della camicia un taccuino e una penna – cosa che ho fatto per anni – per prendere appunti e scrivere brevi note, pensieri e osservazioni. Volevo diventare come loro, un avventuriero solitario nel bosco. Poi, ogni settimana, o al massimo ogni due, cambiavamo zona. Rimontavamo le tende e continuavamo con la medesima routine: tutto il giorno in giro a camminare nel bosco.

© Dalia Guerguache
I giapponesi usano il termine Shinrin yoku [森林浴] “foresta + bagno” per indicare la pratica del camminare e immergersi nel bosco. È un concetto abbastanza recente: coniato da ricercatori nei primi anni Ottanta, quando il governo si trovò di fronte a una vera e propria emergenza sanitaria. I casi di malattie dovute a situazioni di stress erano in aumento, conseguenza di ritmi lavorativi sempre più snervanti e un contatto costante con tecnologia e mondo artificiale. Fu allora che vennero prese iniziative per favorire il riavvicinamento alla natura tramite un sistema di sentieri e itinerari nel bosco.
Ma la simbiosi fra il popolo giapponese e il bosco è ben più profonda. Due terzi della superficie del Giappone è coperto da boschi e in un contesto shintoista (e animista), secondo il quale ogni cosa è una divinità da venerare e rispettare, è facile intuire che la natura e gli alberi assumono un significato culturale e religioso fondamentale. Quante storie e descrizioni della natura e degli alberi si leggono nelle scritture zen e buddiste, così come nelle opere più recenti. Il tocco soffice e velato delle novelle di Yasunari Kawabata, le valli e i piccoli borghi di montagna nelle pagine di Natusume Soseki.
Ma questo non vale solo per il Giappone. Fin dalle sue origini, l’uomo ha avuto un rapporto simbiotico col mondo che lo circondava e del quale si nutriva. È stato così per il 99.9% della storia dell’umanità. L’evolversi di un processo di adattamento che è diventato un archetipo e giace profondo nell’essenza della vita umana sulla terra.
Da questa premessa si è sviluppato un ramo della ricerca scientifica che mira a dimostrare i benefici psicologici e fisiologici del camminare nel bosco. Numerosi studi hanno evidenziato che passare anche soltanto un quarto d’ora a contatto con la natura ha effetti benefici sull’umore e attenua stress e ansia. Lo stato di relax mentale che emerge dal contatto con l’ambiente naturale agisce da anti depressivo e rinforza il sistema immunitario.
Lo Shinrin yoku è un’immersione sensoriale nel bosco. Si rimane in silenzio e a parlare è la natura con i suoi suoni, colori, profumi, superfici e sapori. È considerata una vera e propria medicina preventiva, una sorta di meditazione dinamica che prevede l’attivazione dei sensi concentrandosi sui profumi di resine, pigne, fiori e foglie. Sui colori degli alberi e i giochi di luce tra le foglie. Sui suoni del fruscio del vento, dello scorrere dell’acqua e i versi degli animali. Sul tatto di mani che accarezzano le cortecce e di piedi che camminano sul muschio.
Come è noto, lo stress fa aumentare il livello dell’ormone cortisolo con un conseguente impatto negativo sulla pressione sanguigna, disturbi al cuore ed emicranie. Studi scientifici hanno riscontrato una diminuzione del livello di cortisolo dopo una camminata nel bosco. E poi c’è il fatto che gli alberi emanano olii essenziali volatili chiamati monoterpeni ma non mi dilungherò oltre.

© Dalia Guerguache
Qualche volta abbiamo costruito una zona bagno, una ventina di metri dentro al bosco: una semplice buca scavata nel terreno e possibilmente vicino a un albero. Fissavamo un’assicella a fare da seduta e un paletto per reggere la carta igienica. A portata di mano accatastavamo fronde di alberi e foglie secche. Fatto il proprio dovere buttavamo un paio di fronde e un po’ di terra. Non ho mai sentito odore. Quella però era, diciamo, la toeletta della sera. Al mattino ognuno sceglieva il proprio posto dove più gli aggradava. Io avevo preso l’abitudine di aspettare una mezz’ora, quando già ero dentro al bosco circondato da alberi a perdita d’occhio. Sceglievo con precisione il punto giusto e il più delle volte mi fermavo sotto la chioma di un grande abete bianco (Abies concolor) o di un pino (pinus spp.) la cui chioma circolare arrivava quasi a toccare terra. Lì sotto era il posto ideale. Un tappeto di aghi e rametti secchi rendevano il terreno soffice e facile da scavare. Col tallone creavo una piccola conca che poco dopo ricoprivo con quel misto di terra e aghi di pino. Col passare dei giorni però quella sorta di tenda arborea, come una stanza composta da elementi della natura, cominciò a starmi stretta. Volevo guardare il cielo, perdermi con lo sguardo verso l’orizzonte. E così ho cominciato a puntare verso aperture nel bosco, dossi spogli di vegetazione, prati aperti o zone di bosco con gli alberi distanti.
In quel modo mi sentivo circondato dalla natura, mi sentivo parte di essa. In perfetta simbiosi con il ciclo della vita e della morte, della decomposizione e della rinascita. Uno scambio energetico, uno fra gli infiniti scambi di energia che avvengono nell’universo. Io che di natura mi nutrivo, a essa restituivo i miei fertili scarti. In quei momenti ricordo di aver provato una forma di felicità pura, forse mai più raggiunta e della quale allora non ero completamente cosciente. Nella strabordante energia dei vent’anni a darmi gioia era semplicemente il fatto di cagare nel bosco.
Non so se il Shinrin yoku contempli anche la pratica dell’accovacciarsi ma la questione del defecare nel bosco è argomento di discussione, sulle riviste di trekking e nei regolamenti dei parchi nazionali americani. L’ideale – come si legge sulle pagine di Backpacker – sarebbe non lasciare traccia e vengono elencate indicazioni step-by-step su come farla nel bosco: identificare un punto a circa cinquanta metri dal sentiero più vicino, o corso d’acqua o zona campeggio; con una paletta scavare una buca profonda almeno venti centimetri e larga quindici (possibilmente scavare la buca in anticipo, in un punto adeguato, per non correre il rischio di scavare una buca non a norma per la fretta di liberarsi). Insomma, un vero e proprio vademecum.
Ma sto divagando, perché invece eccomi qui, molti anni dopo, seduto con le gambe a penzoloni fuori dalla mia baracca. I ricordi dell’Oregon tornano come un vento tiepido che mi riscalda il cuore. Sono parte della mia narrazione personale. Parte di un passato remoto, quando sbranavo la vita a morsi con un’avidità che ora fatico a mantenere o a ritrovare. Avventuriero stanco. E poi, ormai da molti anni, raramente vado nel bosco per diletto, sempre per lavoro.

© Dalia Guerguache
Sono a trenta chilometri a sud da Pontianak, nel Borneo indonesiano e ci sono arrivato con un carico di nuvole in testa che da mesi mi rendono esausto. Gli occhi mi si chiudono mentre fisso una lampadina penzolante con la luce che va e viene. Tra poco spegneranno il generatore. Ma non sono le lunghe ore di cammino nella giungla a rendermi stanco. La stanchezza non è mai fisica, é sempre mentale.
Al mattino ci mettiamo in cammino. Giù al villaggio è crollato un ponte e con le jeep non si può andare oltre. Nei giorni scorsi avevamo costeggiato per decine di chilometri le piantagioni di palme da olio (Elaeis guineensis), alberi bassi e tozzi che si stanno mangiando la foresta. E così procediamo a piedi lungo la strada sterrata, schivando le pozzanghere. Nessuno parla, perché è mattino presto e perché la natura che ci circonda offre uno scenario silenzioso e assordante di colori. Tutto luccica dopo le piogge della notte. I colori sempre più intensi col passare dei minuti, quando il sole si alza e le gocce di sudore scivolano lungo la schiena.
A tirare il gruppo è sempre il francese, abbigliato in perfetta uniforme da trekking. Lo si riconosce subito, anche da lontano, non solo per la sua altezza ma anche per un paio di ghette color arancione fosforescente che, a detta sua, servono a tenere lontano dalle caviglie insetti e serpenti. Davanti a lui soltanto i due uomini del villaggio che ci fanno strada e aprono il sentiero nella giungla a colpi di machete. Si muovono agili e saltellano da un lato all’altro a piedi nudi. Il francese è giovane; si è appena unito al nostro gruppo di lavoro e nei suoi occhi, dietro a un paio di occhiali a lenti spesse, si vede l’entusiasmo della prima volta. Mentre io rimanevo con le gambe a penzoloni fuori dalla baracca, lo vedevo trafficare intorno al suo zaino da quaranta litri. Sistemava le sue cose con ordine maniacale disponendole di fianco al mio materassino. Dalla mia posizione vedevo il fascio di luce della torcia elettrica che teneva fissata alla fronte con un elastico, tutt’intorno un’esposizione di gadget e accessori che pensavo esistessero solo sulle riviste di escursionismo.
Cammino quasi in uno stato di trance. Ai bordi della strada, a darmi il benvenuto vedo i ciuffi della canna da zucchero (Saccharum officinarum), montagne di noci di cocco ai piedi delle palme (Cocos nucifera) e gli steli filiformi e nodosi della Manioca (Manihot esculenta). Qua e là qualcuno è già al lavoro. Donne chine a frugare la terra, uomini che camminano al rallentatore. Non c’è fretta. Si muovono in sincronia con il respiro della natura. C’è un silenzio che pervade ogni cosa, una sensazione di perfetta armonia tra gli elementi. Di tanto in tanto passa qualcuno in motorino, un lieve rombo che richiama il suono di una motosega in lontananza. Lungo la strada, oltre il canale, le case del villaggio. Tutte in fila, tutte diverse. Solo alcune sono di mattone, la maggior parte costruite con assi colorate, ma tutte mantengono una dignità che rincuora. Dietro ogni casa un rettangolo di terra che le famiglie coltivano per la propria sussistenza. Gli alberi del Durian (Durio zibethinus L.) si ergono imponenti e sovrastano il sottobosco dove le piante di caffè (Coffea arabica L.) con fiori bianchi e delicati trovano il loro habitat naturale nella penombra. I bambini giocano a schivare le pozzanghere e vanno avanti e indietro su biciclette troppo grandi per loro. Mi guardano curiosi e passano oltre. Io continuo a camminare col peso delle mie nuvole sulle spalle.

© Dalia Guerguache
A pesare non è lo zaino. Sono i venti anni di matrimonio, i venticinque di lavoro, i figli adolescenti e l’idea di futuro, la pensione. La sensazione di aver raggiunto tutti o quasi tutti gli obiettivi che mi ero posto quando avevo vent’anni. E ora? Cos’altro c’è da fare? Perché non riesco a farmi entusiasmare più da niente? Questi pensieri mi orbitano nella testa e io cerco di mandarli giù, di deglutire quell’amalgama vischioso e amarognolo. Provo a mandare giù tutto, a farli attraversare il mio corpo per poi liberarmene. Si addolciscono quando passano per il cuore ma poi ristagnano nello stomaco ed è difficile liberarsene. Mi sento gonfio e pesante e stanco e forse solo nel bosco riesco a dimenticare tutto e a sentirmi veramente libero.
Ma che ne sa il francese di tutto questo? Per lui è tutto un leggere i manuali ed eseguire con rigore i protocolli del lavoro sul campo. L’ho visto infervorarsi per dettagli superflui, impartire consigli dall’alto della sua carnagione chiara. Ben presto i colleghi del posto lo emargineranno. Succede sempre così.
A dire il vero, vicino alle baracche per dormire ce n’è una adibita a toilette, equipaggiata con una turca e un catino pieno d’acqua. Me l’ha fatta notare il francese ed è stato quello il primo segno di cedimento. C’est dégoûtant! Certo, gli ho risposto. Falla nel bosco! Ma non ha apprezzato il consiglio e si è messo a frugare nello zaino alla ricerca di qualche pastiglia per il mal di stomaco.
Neanche io ho mai usato la baracca-toilette. È normale che per alcuni giorni non si avverta alcuno stimolo. Da una parte c’è il bagaglio culturale, l’abitudine al contatto con la ceramica. Dall’altra è il segnale che il nostro corpo si sta preparando, sta accumulando, sta facendo confluire tutte le nuvole, verso una nuova uscita, che non sia la rabbia o la frustrazione, lo sconforto o le grida o il pianto. Si sta preparando a quel momento di condivisione con l’universo, allo scambio energetico con la natura, in un ciclo continuo di decomposizione e rinascita.
Mi accovaccio in quella posizione che sembra non combaciare con il dna di noi bianchi ma che con la pratica diventa fonte di benefici per il corpo, i muscoli e i legamenti. Come si medita nella posizione del loto, si va di corpo accovacciati. Si possono anche tenere le mani giunte o allungarle in avanti se aiuta a mantenere l’equilibrio. Saldamente ancorati al terreno, finalmente capaci di percepire ogni singola vibrazione della natura. Un gallo che razzola a pochi metri, il gracchiare delle rane, le fronde degli alberi che si accarezzano al vento. E poi formiche, o vermi intenti alla nostra stessa pratica. Sento tutto ma non ascolto niente. Lascio che ogni rumore mi attraversi senza trattenerlo.
Seguendo il rituale dello Shinrin yoku accolgo la natura con i miei cinque sensi, prendo consapevolezza del mio corpo e godo della sensazione di essere vivo. In sintonia con il mondo naturale trovo il posto giusto ai bordi di un campo di banani (Musa acuminata) dove il terreno sabbioso si inclina verso una canalina. Con la coda dell’occhio scorgo il francese che gironzola con lo sguardo perso. Punto i talloni nella terra e inizio la mia cerimonia di gratitudine.
Editing di Livia Del Gaudio
Marco Piazza è nato a Como nel 1973 e lavora come forestale nell’ambito della cooperazione internazionale. Vive a Bangkok. Ha pubblicato racconti e traduzioni su riviste cartacee e on line (retabloid, Satisfiction, flanerí, Cadillac, Altri Animali, minima & moralia, Vicolo Cannery). La sua traduzione di una lettera di Breece D’J Pancake è contenuta in Trilobiti (minimum fax, 2016). Dal 2011 cura il blog Country Zeb dedicato a lettura e scrittura: https://countryzeb.wordpress.com/





L’artista Dalila Guergache entra nel bosco con la macchina analogica per allontanarsi dalla luce satura delle cose del mondo che non hanno ancora perso massa e peso nel movimento che le fa diventare memoria. Allontanarsi dalle cose fisse del presente. Camminare. Schiarire. E allora l’arco dei rami, l’aria fresca, l’acqua a lungo invisibile trattenuta nei canali linfatici delle piante, le ferite ancora umide delle foglie, la varietà delle forme: il paesaggio che si vede due volte; la seconda negli scatti che cercano di ricomporlo. Nel bosco tutto è passato prima ancora che vi si penetri. È dove si può ristabilire un contatto con la materia che ci precede, ciò che è familiare ma non esattamente conosciuto. La via del ritorno si perde con facilità. Muta. Le foto sono tracce anomale. Una testimonianza imperfetta di ciò che abbiamo visto. Quando l’artista le mostra a chi non era con lei, segue lo sconcerto e solo un attimo dopo la contemplazione. Gli occhi di uno sguardo che si posa su uno scatto si svuotano lentamente del superfluo, mentre il soggetto si proietta nel ricordo che ha recuperato o nella risonanza delle sue impressioni. Il margine di un bosco è il punto indecifrabile dove la luce si divide.
Maria Teresa Rovitto
Dalila Guergache nasce a L’Aquila agli inizi degli anni Novanta. Cresce in un ambiente multiculturale e ricco d’ispirazione artistica. Dopo aver frequentato il liceo sceglie di proseguire gli studi presso l’Accademia di Belle Arti. Di poche parole e con un obiettivo che la protegge dal contatto diretto con la gente, Dalila usa la fotografia analogica per intrappolare la decadenza del mondo, ricercando l’essenza estetica di un arcobaleno fatto di bianco e nero.
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