Il sogno di Palmiro

di Maddalena Crepet

© Giacomo Riccardi

Ho sognato di svegliarmi con le sembianze di Palmiro Togliatti. Dico sul serio. Era il 17 ottobre del 1976. Non credo ci siano ricorrenze storiche, non che io sappia. Caos del post Sessantotto a parte, si intende.

Comunque, la mattina del 17 ottobre del 1976 ho sognato di essere come Palmiro. Sì, quel miscuglio fra un Leopardi del Nord e un Andreotti dell’altra sponda. Nessuna allusione sessuale, per carità di patria. Solo allusioni politiche. Fisiche, al più. Stesso naso sottile, e un po’ adunco, stessa fronte spaziosa, stesso sguardo miope e acuto. Ebbene, dicevo, non come il giovane Gregor di kafkiana memoria, non come un Bellocchio prime maniere, o una preveggente Cassandra. Nulla di tutto questo. Ho sognato – forse dovrei dire sperato – di destarmi come Palmiro, l’uomo nato il giorno della Domenica delle Palme.

Nel sogno, la vista si era fatta offuscata, come se non riuscissi a mettere a fuoco, la testa si era ingrossata di molto, e sembrava piazzata su un collo inesistente, come una televisione a incasso. Perfino il pigiamino di flanella rammendato dalle mani secche e macchiate di mia nonna era stato sostituito da uno dei suoi completi impeccabili. 

Dunque, ero, ai miei occhi chiusi, cisposi, e gonfi di sonno, a tutti gli effetti la reincarnazione di Palmiro Togliatti, l’indiscusso e indimenticabile segretario del Partito Comunista d’Italia, una delle sue menti fondatrici.

Era una domenica – buffa casualità –, ed era piuttosto presto, stranamente. Le nove, nove e mezza al massimo. Presto per alzarmi, e molto presto per alzarmi di domenica, si capisce. Mia madre – o quella che per circostanze e brevi congetture logiche doveva essere mia madre – passava lo straccio per terra, i panni erano già tutti appesi al filo fuori dalla finestra della cucina, il forno emetteva rumori inquietanti, aspettando di partorire un ciambellone, metà bianco, metà nero. Dovevamo essere una famiglia molto progressista. Mio padre – quello che doveva essere mio padre – occupava il bagno. Io mi pisciavo sotto. Ed è stato allora che me ne sono veramente accorto. O, suppongo, ho pensato di accorgermene. Mi sono tastato lì sotto. I testicoli, insomma. Non è una questione ornitologica. Non è una storia urologica questa, state pur tranquilli. Semplicemente, avevo le mutande. Io non dormivo mai con le mutande. E non erano mutande normali. Cioè, non erano le mie solite mutande. Slip neri, cento per cento cotone. Erano boxer, lunghi quasi come braghe, e con tanti quadretti, rossi e blu. Che Palmiro avesse questo vezzo? Non saprei dirlo con certezza. Fatto era che oltre al completo blu notte, oltre alla cravatta di lana borgogna, oltre alla camicia bianca con colletto button down, oltre ai pantaloni con la piega perfetta, oltre alle mutande-calzoncini, oltre a tutto questo ambaradan, c’erano anche i capelli. Neri e folti. C’era la corporatura gracile nell’indole, già ingrossata dalla vita. C’era una bocca, una bocca né veramente carnosa né inesistente come la mia. E come parlava poi. Giuro che non ho mai parlato così in vita mia. Sembrava mi fossi mangiato un vocabolario italiano-latino per intero, al posto della pasticca per dormire. Una cosa orribilmente stupefacente. 

Mia madre, poveretta, si rivolgeva con uno strambo impasto di dialetto e italiano, e io le rispondevo mischiando italiano e costrutti latini. Cose tipo che mettevo il verbo alla fine della frase. Nemmeno fossi un crucco. 

Mia madre allora ha iniziato a pregare, e il dialetto si è fatto stretto come stringesse le parole fra i denti. Pregava che mio padre non sapesse, non se ne accorgesse che io mi sentivo Palmiro, che mi comportavo come lui. Che non uscisse da quel bagno. Allora io replicavo, veemente e declamatorio, «Fallo pur uscire da quel tugurio». Mia madre chiaramente non sapeva cosa significasse “tugurio” – apriva e serrava la mascella pronunciata come fosse un pesce fuor d’acqua, e i pugnetti chiusi sembravano colpire con rabbia i fianchi secchi –, doveva però aver capito benissimo non essere un carezzevole complimento. Allora non sapeva più che fare, se lamentarsi del “tuburio”, se sbarrare il bagno con il manico della scopa, se segregare mio padre, o sfornare il dolce che dall’odore sembrava sul punto di carbonizzarsi. 

© Giacomo Riccardi

Insomma, alla fine non ha rinchiuso mio padre, non ha salvato la torta, e tantomeno me. D’altro canto, era salvare l’insalvabile. 

Quello che doveva essere mio padre aveva la camicia a maniche corte fuori dai pantaloni, il viso rasato, le basette imbiancate di spuma da barba, e i capelli più scuri dei miei. Non era né bello né brutto. La familiarità era plausibile. Non se n’era accorto, che io mi stessi comportando come Palmiro, come se lo fossi veramente. O almeno non subito. Mia madre si era asciugata il viso sudato con uno strofinaccio. 

Poi, alla fine è successo. Che mi scappasse il latino per intero, voglio dire. E là c’è stato il putiferio. Il secondo putiferio. Ancora peggiore del primo. 

Dunque, mio padre, gambe semi incrociate sotto il tavolo da pranzo – l’adipe delle cosce gli impediva un accavallamento completo “da starlet” –, busto proteso sull’asse di legno coperto da una tovaglia di plastica industriale, camicia ancora svolazzante, ha detto, «Mi sa che qua non basta Vincenzo». Infatti non si è limitato a chiamare solo tale Vincenzo.

Qui la faccenda ha iniziato a complicarsi non poco. E non solo per le reazioni dei miei genitori, il bagno di sudore di mia madre, la virata dal pallore etereo al paonazzo segnale di stop di mio padre, ma per tutto il resto. E per “tutto il resto” intendo dire che non solo quelli erano evidentemente i miei procreatori – mio padre, a guardarlo bene, a guardarmi bene nel riflesso del frigorifero messo a lucido, aveva la mia stessa scucchia, o meglio, io avevo la sua stessa scucchia, e i capelli ispidi e radi di mia madre dovevano essere quelli che io ostinavo a radermi, altro che chioma folta –, ma che tutta quella gente faceva incontrovertibilmente parte della mia vita, e non di quella dell’amico Palmiro: l’agente Vincenzo Cagliari, l’amica del cuore Annetta, la Dottoressa Carolina Pezzetti. Per quanto mi sforzassi di rimuovere, per quanto mi sforzassi di “assumere altre vesti”, sapevo tutto di loro, e loro dovevano sapere tutto di me. Gusti in fatto di mutande a parte, si capisce. Non parliamo poi degli altri: i forestieri. Loro no, non sapevano proprio un bel niente, ma rompevano le balle comunque.

Mentre io tentavo di destreggiarmi ancora fra latinisti e articoli della Costituzione, mia madre infatti chiamava la neuro.

 E poi la suddetta Annetta, che faceva le pulizie insieme a lei nelle case dei ricconi novaresi. E poi anche il suo medico di base, che era poi anche il mio, la Dottoressa Carolina Pezzetti, una che se la chiami tre secondi dopo l’orario di chiusura del suo studio medico attacca con una sinfonia infinita di Beethoven, e poi parte con la solita voce squillante da subrette laureata, “Sono la Dottoressa Carolina Pezzetti, al momento non sono in studio, lasciate un messaggio e sarete ricontattati quanto prima”. Un mio amico c’è morto così, dico sul serio. Mia madre però ha una fede incrollabile nella Dottoressa Carolina Pezzetti, laureata all’Università di Torino in Medicina e Chirurgia, pieni voti e bacio accademico. Come l’abbia scoperto, questo non l’ho mai saputo. Mia madre non crede in Dio, nella Madonna, in Padre Pio, nel patrono di Novara, San Gaudenzio, primo vescovo della città, e nemmeno in quello attuale, Mons. Enrico Pettorino. Non crede in nessuno, ma crede tenacemente nel potere salvifico di Carolina Pezzetti, modesto medico di famiglia, con un paio di occhi da ipertiroidea e dei capelli crespi da africana. 

Insomma, se mia madre, Maria Carmela Calò, nata nell’assolata Agrigento, trapiantata nel “profondo Nord” alla tenera età di sedici anni – le piace raccontare che nonno Peppino le disse, davanti a un treno sbuffante vapore, con la valigia di cartone in mano, «Ora sei anche tu una sopravvissuta»; nonno Peppino, oltre a essere come la figlioccia Carmelina “un trapiantato”, aveva anche aderito in tempi sospettabilissimi alla Repubblica di Salò –,  se mia madre un po’ siciliana, un po’ piemontese si è rivolta a medici e donne delle pulizie, mio padre ha optato in maniera decisa e chirurgica per le forze dell’ordine. Prima per la polizia di Agognate, poi per il commando di carabinieri di Novara, e infine anche per la questura di Torino. Mio padre ha sempre creduto poco in Dio, pochissimo nella Chiesa, non prega credo dalla Prima Guerra Punica, ma crede fermamente nelle forze dell’ordine. In tutte. Senza eccezioni, discriminazioni o gerarchie. Dall’agente Vincenzo Cagliari, all’ufficiale Sebastiano Santovito, che è della provincia di Torino, ma da anni si è trasferito in città, e «Fa la vita da gran signore».

Dunque, ormai il velo di Maya era caduto, squarciato, distrutto. Ne rimanevano coriandoli, adatti solo a rallegrare qualche ragazzino a Carnevale. 

Cala il sipario. Pubblico muto.

La timorata Maria Carmela è chiaramente mia madre, il temerario Virginio è decisamente mio padre, e io ho di nuovo il pigiamino di flanella rattoppato, i piedi freddi, la sveglia che suona, gli occhi ancora cisposi, ma non più chiusi, incollati, e sto anche facendo piuttosto tardi a un colloquio di lavoro, il terzo a cui per la terza volta avrei dovuto rispondere al nome di Tacco Pietro. Si accomodi.

© Giacomo Riccardi

Faccio una forse noiosa, ma doverosa precisazione. Non voglio lavarmi la coscienza. Voglio dire, non userò questo espediente narrativo-onirico-psicopatologico per commuovere qualche anima pia, per smuovere a compassione qualche lettore. 

Anche perché, non diciamo una cosa per un’altra, mica sono un bombarolo, un p38ittista, un brigatista, un gambizzatore seriale. Ma vogliamo pur scherzare? Per qualche manifestazione a cui ho aderito o qualche sciopero operaio a cui ho partecipato? Per qualche lacrimogeno o bomba carta che ho tirato? Non sono un delinquente. Sono un figlio degli anni Settanta. E un nostalgico dei Sessanta. 

Per la questura di Milano sono Pietro Tacco, nato a Novara, il 14 maggio del 1951. Qualcosa in comune con Palmiro ce l’ho sul serio. PT. Il resto è solo una questione di consonanti e vocali.

Era per questo, è stato per questo che ho tirato quelle bombe carta, quei lacrimogeni – due o tre eh, al massimo quattro – contro quelle pattuglie? Per assomigliare a Palmiro? Per Palmiro? Per diventare veramente Palmiro? Io, che non sono nemmeno nato a Novara, ma nella frazione di Agognate, che già dal nome sembra un malocchio.  Noi siamo gli agognanti. E che cosa agogniamo? Io un’idea ce l’avrei, ma non voglio essere monotono e ripetitivo. Insomma, io, che di certo non sono nato a Genova, sul mare ligure, che però sì, ho origini piemontesi, non certo torinesi, ma poco male; io, che non solo non riesco a parlare in latino, ma a volte mi dimentico anche come si parla in italiano; io, che non ho fondato niente, nemmeno una scarcassata band musicale liceale; io, che non sono mica miope, ma che ci vedo come una faina (giuro che mi è capitato di vedere nel buio); io, che sicuramente non sono più avvenente né di Leopardi, né di Andreotti, né dell’amato amico Palmiro; io, per un attimo – forse più d’uno – ho sognato di essere davvero come lui. 

Mio padre, oltre ai capelli tinti, le cosce grasse da pollo da batteria, la mano lesta, gli amici sbirri, vive beato in un’ignoranza che coltiva come la pianta più rigogliosa del suo giardino. Non ha una laurea, tantomeno un diploma. Ha la terza media, ha venduto frutta e verdura al mercato per mezza esistenza, almeno finché non gli sono scoppiate tre ernie del disco e per mesi è stato come paralizzato in casa, muovendosi con scatti robotici fra la camera da letto, il bagno e il divano. Un vero incubo. Poi si è ripreso, e si è messo a fare il vigile del fuoco. Sempre per stare vicino alle forze dell’ordine, si capisce. Non che ora sia scattante come una volpe, ma almeno non passa le sue giornate sotto le coperte o sulla tazza del cesso.

Mio padre non ha mai letto i giornali. Nemmeno mia madre. Non si sono mai interessati di politica, anche se mio padre, Virginio Tacco, nato e cresciuto ad Agognate – un agognante doc –, si è sempre dato arie di grande intenditore. E per lui “intendersi di politica” equivale a ciancicare qualcosa al bar insieme a Vincenzo, fra un morso di brioche e un sorso di caffè, dire che «quel Berlinguer la sa lunga, ma non mi piace mica», e che «quel Moro sa tante cose, forse troppe». Sì, perché per mio padre la cultura è sempre stata una minaccia. Più sai, e più sei schiavo del sapere. Come se entrassi in un tunnel foderato di cellulosa, ottundente e fagocitante. Un inferno cartaceo. Se conoscesse il motto socratico “So di non sapere”, ne andrebbe pazzo. 

Se Moro è già visto come una minaccia per aver peccato di “troppa conoscenza”, figuriamoci Togliatti. Un’anima prava.

La mia passione – ossessione? – per Palmiro però l’ha scoperta solo in quel disperato ‘76, l’anno più fosco di quel decennio di Piombo. Almeno per le attente ricostruzioni storiche di Virginio. 

Prima c’è stato il duro colpo dell’università. 

Mio padre era convinto che fossi vittima di un doppio pericolo: la cultura, e la politica. Effettivamente, sono stato trafitto da entrambi. Un San Sebastiano sulla croce, ricoperto di mille frecce avvelenate: Heidegger sulla coscia destra, Marx su quella sinistra, il professore di Sociologia sul petto, quello di Filosofia politica in pieno viso, sulla fronte, appena sopra l’attaccatura delle sopracciglia folte. 

Comunque non avevo i capelli lunghi come San Sebastiano, né tantomeno come “le zecche”, come le chiamava lui. Non ce li avevo solo perché erano già troppo radi per avere la parvenza di una capigliatura normale. Calvizie precoce, eredità del sopracitato nonno Peppino. Quindi me li tagliavo a zero, testa rapata. Il rumore del rasoio sul mio cuoio capelluto, passato religiosamente ogni domenica mattina, lo rassicurava, dandogli un brandello di speranza a cui aggrapparsi. Fascista, tanto tanto, ma comunista, mai. 

Ovviamente, avevo scelto Scienze Politiche, ma niente di troppo serio. Era pur sempre l’Università di Torino, mica Padova o Roma. C’erano cortei sì, picchetti, sbandieramenti di lenzuoli imbrattati, occupazioni di aule, diciotto politico, interruzione delle lezioni, ma mai niente che potesse avvicinarsi al magistero del professor Toni Negri, o ai casini di Valle Giulia. 

© Giacomo Riccardi

Mio padre e mia madre raccontano di aver scoperto “la faccenda di Togliatti” solo il giorno della discussione della mia tesi di laurea. 11 ottobre 1976.

In effetti, la questione del sogno kafkiano è avvenuta dopo i miei indoramenti accademici, precisamente una settimana dopo. 

La cosa comunque non torna.

Fosse anche solo perché avevo già da almeno un anno – l’ossessione si è affacciata agli albori del ‘74 per poi impossessarsi di me con il gelo dell’inverno novarese – i muri della mia camera tappezzati dalla faccia miope, bonaria e acuta del Maestro. Mentre giocava a scacchi sopra la testiera del letto; mentre era in Russia con un bel colbacco piantato sul capoccione sulla parete di fronte; mentre era intento a battere i tasti della sua adorata Olivetti sul muro della scrivania, accanto all’unica finestra e alla pila di manuali universitari.

Non è quindi assolutamente plausibile che non sapessero, che ignorassero. Che va bene, “Viva la beata ignoranza!”, ma fino a un certo punto. Sta di fatto che loro tuttora – giuro che lo fanno – si ricordano quel giorno non come uno dei più felici della loro vita, ma come uno dei peggiori. La più fragorosa caduta dal pero. Insomma, una bagarre infinita. Mio padre che interrompe la discussione insultando il povero professor Cavallino, il mio relatore, e poi la commissione intera, Cavallino che sbraita, sbuffa e poi sbatte sul tavolo una copia della mia tesi su Palmiro e la fondazione de L’Ordine Nuovo, mia madre che interviene cercando di evitare l’inevitabile, di riparare l’irreparabile, mio padre che urla ancora più forte – gli esce un’inedita voce da castrato e una vena sulla tempia destra –, e dà a tutti, ma in primis a me e al povero Cavallino dei “comunisti di merda”, mia madre che frigna, io che sudo freddo, Cavallino che si agita sulla sedia, il presidente di commissione che accelera la pratica, che mi liquida con un centocinque stitico. Macché lode, ma quale bacio accademico, mica come la Dottoressa Carolina Pezzetti. Fuori, a calci in culo. A me, e a tutta la famiglia Tacco.

La conversazione in macchina, poi, è stata surreale. Mio padre diceva che facevo parte di qualche “cosca brigatista”, e che avrei finito presto per ammazzare qualcuno. Io volevo dirgli che avrei voluto ammazzare solo lui, in quel momento, e forse non solo. Diceva che tanto lui lo sapeva che sarei finito così, «Ah, se lo sapevo». D’altro canto, un debosciato impenitente che altra fine poteva fare? Uno che invece che andarsi a sporcare le mani e a spaccarsi la schiena come aveva fatto lui per tutta un’esistenza, si metteva a “filosofeggiare”, a “parlare di Russia e di comunismo”. «Sei peggio dei peggiori borghesi salottieri», aveva chiosato, mentre mia madre non respirava più dal pianto, forse per le grida e le accuse di mio padre, per la discussione interrotta e rovinata, per il centocinque strappato, per il mio comunismo, per Palmiro, o per tutto questo messo insieme. Fatto stava che era diventata una maschera di rimmel, fard e ombretto azzurro, un impazzimento cromatico su un viso piccolo, stropicciato dalle lacrime. L’unica cosa che osava ripetere era, «Chissà che dirà ora Annetta», e poi aggiungeva, più flebile, «e anche la Dottoressa Pezzetti, chissà che penserà ora la Dottoressa Pezzetti». 

Alla fine, poco prima di scaricarmi dalla sua 128 verde, davanti ai cancelli del Parco del Valentino – come sarei tornato fino ad Agognate, era un mistero della fede –, aveva grugnito, «E ora sì che ti metto Vincenzo alle calcagna». Per l’appunto. Sai che paura. 

Non avevo una corona d’alloro, non avevo nemmeno più una copia della mia tesi perché l’ultima l’aveva lanciata mio padre in piena corsa, colpendo un ciclista che, beato sulla sua Graziella, aveva biascicato qualcosa di orribile in un dialetto a noi incomprensibile. 

Non avevo una macchina. Non avevo un amico da chiamare, terrorista o non. Ero solo come un cane. Peggio, ero solo e basta. 

Allora ho pensato a cosa avrebbe fatto Palmiro in una situazione analoga. Mi sono messo a sedere sotto un grosso pioppo, e ho iniziato a riflettere. Chiudendo gli occhi, era come se Palmiro mi parlasse, avvicinasse il suo naso fino, i suoi occhietti miopi, i suoi occhiali rotondi e spessi, mi raccontasse di quando il suo, di padre, l’intransigente maestro Antonio, non avesse accettato di buon grado il fatto che il figlio fosse il migliore del suo liceo, in seguito al conseguimento del diploma. Alla sorella però, risultata anche lei come la studentessa più brillante dell’istituto, non aveva detto proprio un bel niente. Mi raccontava della loro litigata, dei sensi di colpa che aveva nutrito, e che si sarebbe portato dietro per il resto della sua esistenza. «Vedi, nemmeno io sono perfetto, neanche io sono un esempio, posso essere fallace, fragile e frangibile», poi si era tolto gli occhiali – presumo che a quel punto non ci vedesse proprio nulla –, e ne aveva curvato una stanghetta, «Vedi», aveva continuato, nella sua calma serafica, «proprio come questa stanghetta», aveva inforcato di nuovo la montatura argentata, «siamo tutti così».

Avevo riaperto gli occhi, umidi di emozioni o di pollini, e avevo tirato un lungo respiro. Mi ero toccato la faccia, il naso adunco, gobbo come la schiena mal ridotta di mio padre, il mento sottile e appuntito, gli occhi piccoli e non miopi, la testa calva. 

Possibile che fossi arrivato a parlarci? Che mi avesse parlato, davvero

Che sarei arrivato presto alla deriva pseudo psichiatrica di un’identificazione – seppur onirica – c’era forse da aspettarselo, mi direte voi. Ma comunque. Faceva piuttosto caldo, e mi ero tolto la giacca da completo, di un grigio fumo con righine terrificanti, da agenzia funebre. 

Un gruppetto di giovani militanti di estrema sinistra mi aveva camminato a fianco, uno dei quattro aveva un sorriso di scherno, e aveva detto qualcosa all’amico pieno di orecchini e anelli, qualcosa che finiva con “-ista”, e una risata canzonatoria. Dubito che fosse “comunista”. Non ci avevo badato. Mi ero messo la giacca in vita, aggiustato i pantaloni sporchi d’erba, allacciato le scarpe lucide non più lucide, e a passo spedito mi ero diretto verso l’uscita. 

Non so cosa mi abbia spinto a percorrere più di cento chilometri. Senza una macchina, una moto, un motorino, una bicicletta, uno scarcaticcio qualsiasi. Non so quanti autostop abbia fatto, quante ore ci abbia impiegato per tornare a casa. Non so neanche perché ci sia tornato a casa, con quale forza, e con quale obiettivo. Come abbia fatto a sopportare la visione dei poster maciullati, della faccia sfregiata del mio amico, del mio unico vero amico. 

© Giacomo Riccardi

Vorrei dire che non ho più parlato ai miei genitori, che anche io, come tanti miei coetanei dell’epoca, sono scappato di casa, sono finito in una comune, ho abbracciato i fiori, me li sono messi in testa – senza capelli, forse finalmente con una corona –, che me li sia fumati. Che abbia fatto della politica una ragione di vita. E una di morte. 

Non è successo niente di tutto questo. 

Non sono diventato un terrorista, e nemmeno un militante. Non sono entrato a far parte di nessuna “cosca brigatista”, nemmeno di una coschetta. Non ho ammazzato nessuno, neanche mio padre, neppure metaforicamente. Non ho assunto nessun nome di battaglia, nemmeno d’arte. Non sono morto, in quella battaglia, per quella battaglia, e non sono morto neanche in una città straniera della Crimea. Con tutta onestà, non so neppure dove morirò, se ad Agognate come un agognante, se nel capoluogo come un borghese, se in un qualunque posto straniero che non abbia niente di storicamente e politicamente affascinante.

Non sono diventato un politico, e nemmeno un politicante, un portaborse, un reggimicrofoni. Uno storico, uno studioso, un professore tantomeno. Sono stato ai funerali del professor Cavallino, e la cosa non mi è piaciuta per niente. Quando l’ho visto nella camera ardente, steso in quella bara pregiata, ho ripensato ai suoi sbuffi acidi, ai baffoni che si alzavano e si spettinavano, alla mia tesi scossa e piegata. Me ne sono andato senza salutare la vedova, e nessun altro mio ex compagno di studi.

Non ho mai venduto frutta e verdura, ne mangio anche poca, infatti sono piuttosto emaciato.

Non ho nessun amico vigile, poliziotto, carabiniere o secondino. 

Non ho nessuna amica lavandaia o medico.

Ho pochi amici, e uno è un ultracentenario che si chiama Palmiro, che ama molto la politica, gli scacchi, il russo e il latino. Ha tantissimi capelli, bianchi come la neve, e due occhi a volte marroni, a volte verdi, miopi come le talpe. È intelligentissimo – molto più di me –, e ora riposa sotto un imponente cipresso del Verano. 

Ogni tanto lo vado a trovare, gli porto dei tulipani perché so che erano il suo fiore preferito, provo a recitare qualche proverbio latino, ma spesso non mi ricordo le declinazioni. So che comunque gli fa piacere. 

Ricordo di quando tiravo i lacrimogeni e le bombe carte, e pensavo di passare alla storia, di diventare qualcuno come lo è diventato lui. Ci rido su, ma è quasi sempre una risata amara, un rigurgito acido. 

Ricordo il pioppo, e i suoi pollini allergologici, gli occhi rossi non si sa di che. I suoi discorsi salvifici, e la mano che mi ha stretto per più di cento chilometri. Era salda, di chi rimane. 

Non gli ho mai raccontato del sogno, della mia reincarnazione in lui. O della mia presunta tale. Ho avuto paura. Che si chiedesse, che mi chiedesse, come ho fatto a farlo davanti al suo volto sfigurato, dopo il suo sfregio. Che si domandasse, che mi domandasse, come ho potuto farlo – e crederlo – davvero. Che mi invitasse a riflettere sul perché l’ho fatto, pure. Che si rivolgesse anche lui a qualche suo amico strizzacervelli, senza dubbio. Magari a uno già morto, imbalsamato, incenerito, divorato dagli insetti. Ho preferito evitare.

Gli ho detto però che ora ho un cane e l’ho chiamato Palmiro, in suo onore. Ma non so se sia veramente un onore o piuttosto un alibi. Non so nemmeno se gli farebbe davvero piacere, che un cane giapponese si chiami come lui. O se gli avrebbe fatto piacere in misura maggiore del sapere che quando avevo venticinque anni suonati ho sognato di svegliarmi nei suoi panni. Prima o poi approfondiremo la questione, e non sarà un bel quarto d’ora.

A casa però, nella mia e non più nella loro, c’è un suo bel primo piano. Sorride lieve e si aggiusta gli occhiali sul naso sottile. Non è Berlinguer, e non è neanche Toni Negri. Non è Moro, Andreotti. È Palmiro Togliatti, l’unico per cui mi vanti di chiamarmi Pietro Tacco. PT.

Editing di Fabiana Castellino

Maddalena Crepet nasce a Roma nel 1994. Dopo la maturità classica, decide di lasciare la Capitale per studiare Lettere Moderne a Padova, dove si laurea nel 2016 discutendo una tesi di Storia contemporanea incentrata sul tentato omicidio del professor Sergio Lenci da parte della banda armata Prima Linea, avvenuto nel 1980. Sempre nello stesso ateneo, consegue la laurea Magistrale in Linguistica. In seguito, si iscrive al corso biennale Scrivere alla Scuola Holden di Torino, dove si diploma nel 2021. Rientrata a Roma, lavora come ufficio stampa editoriale. Oggi collabora con diverse case editrici e realtà editoriali come editor e correttrice di bozze. Il suo romanzo d’esordio, Ci siamo traditi tutti, uscirà a inizio 2024 per Solferino.

Nei lavori dell’artista Giacomo Riccardi la mímesis fotografica ambisce a stabilire una connessione con la parte di ogni individuo mai riducibile nella sua molteplicità: l’espressione della sua realtà interiore. Non la si può documentare con il mezzo fotografico se non ricavandola dalle alterne vicende delle luci e delle ombre che passano sul corpo o dalle sue proiezioni nello spazio minimo della cornice di uno scatto. Chi osserva cerca una somiglianza con sé stesso nella speranza di non farsi ingannare o distrarre dai vestiti indossati, dagli oggetti posseduti, dallo sfondo attraversato dalle figure e dai loro travestimenti. 

In alcuni lavori il processo di trasfigurazione fotografica sembra fare eco alla tradizione del chiaroscuro pittorico, quando cerca di cogliere la plasticità di uno stato di incertezza, il moto estatico dello stupore, quando rimanda al nesso tra un’apparizione e la sua sparizione, giocando con il grado di realtà di cui gode, e illude, la presenza umana. Bisogna servirsi di certi dettagli per dar rilievo ai volti, per smarginare tra le storie individuali; dettagli che Riccardi non piega mai a una rigorosa scelta compositiva, come se volesse invece lasciare spazio al pieno svolgimento di una scena. Senza fare il giro del mondo, nelle figure umane e nelle sagome dei suoi lavori avvertiamo la sacralità di certi incontri fortunati che qui è lo sguardo dell’artista a cavare dall’indistinto della vita quotidiana. 

Maria Teresa Rovitto

Giacomo Riccardi, nato a Roma, vive a Roma, e probabilmente morirà anche a Roma. Tutto quello che ha fatto e vissuto nella sua vita è sempre stato scandito dalla curiosità e dalle immagini. La fotografia è il suo strumento, il suo pennello; la fotocamera è un’estensione di sé stesso, non un accessorio estetico: gli permette di catalogare le sensazioni e di dare un senso alle cose che lo circondano in un determinato momento, cercando di metterle in correlazione tra loro perché molto spesso nemmeno lui riesce a dare ordine ai suoi pensieri. Non ha studiato fotografia ma in realtà non ha studiato in generale; legge spesso e fotografa ancora più spesso perché ne sente il bisogno.

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