Il sogno di Palmiro. Ipertesto

a cura di Mario Emanuele Fevola

© Giacomo Riccardi

Palmiro Togliatti, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, scrisse un articolo pubblicato sulla rivista Rinascita (vol. VII, n.11-12, anno 1950) in cui, criticando 1984 di George Orwell, scrive di utopie e malintesi.

Qui se ne propone un estratto.

Hanno perduto la speranza

Con la pubblicazione e diffusione di questo racconto dell’inglese George Orwell, che si intitola 1984, la cultura borghese, capitalistica e anticomunistica, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire. Il romanzo d’avvenire! Il semplice richiamo a questo genere letterario è pieno di fascino per chi sa quanta e quale parte esso ha avuto nella marcia degli uomini verso una miglior comprensione del loro destino, verso una più grande padronanza di sé stessi, delle proprie forze e di quelle della natura. Si chiude il mondo antico con l’immagine della Repubblica ideale, evocata dalle menti più elette; si apre il mondo moderno con le Città del Sole, con le Utopie, con le Atlantidi, con le Oceane, con le Città felici, con le Repubbliche immaginarie, costruite dai più audaci tra i sognatori, dai più conseguenti tra i ragionatori. Il Settecento riprende il motivo, lo giustifica in sede di filosofia, lo estende, deduce secondo ragione un ideale regno della natura, introduce e fa muovere sulla scena del tempo personaggi nuovi: il cittadino di un mondo sconosciuto che, seguendo principi di natura e di ragione, critica, schernisce, distrugge le incongruenze della realtà e della storia; il selvaggio buono, che ha nella mente e nel cuore uno specchio di razionalità. La gente saggia, ch’è venuta poi, dice ch’erano tutte ingenuità e fantasie non giustificate. È in gran parte vero; ma sotto quelle ingenuità e quelle fantasie si avvertono due cose grandi, che sono state molle potenti del progresso umano: da un lato l’audacia di un pensiero che scopre le flagranti ingiustizie della società esistente e lo slancio di un sentimento che ad esse non si acqueta; dall’altro lato la fiducia spesso senza limiti nella ragione umana, e la certezza, quindi, che le ingiustizie presenti saranno riparate e corrette, e un mondo migliore sarà costruito, dagli uomini stessi, e potrà esistere, e in esso vi sarà benessere, felicità, gioia, per il maggior numero possibile di umani.

Altra cosa è il romanzo d’avvenire della borghesia dei nostri giorni, capitalistica e anticomunista, convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina, e decisa, perciò, alle ultime difese. Che alcuni dei suoi uomini, o degli uomini di cultura che si conformano al costume della casta dirigente e la servono, ̶  letterati, artisti, filosofi,  ̶  possano avvertire le flagranti ingiustizie del mondo contemporaneo e metterle in luce; parlare dei ricchi e dei poveri, dire che quelli son tracotanti e questi son disperati, che i quartieri operai d’una grande città sono un inferno e che è una dannazione la esistenza dei lavoratori nelle grandi fabbriche, nelle colonie, negli ergastoli dove si creano ricchezza e fasto per una casta di privilegiati,  ̶  sì, questo potrebbe ancora, entro certi limiti, venir tollerato. Sia ben chiaro, però, che se si insiste troppo questa non è più arte, è attività politica, è lavoro dell’“agit-prop”. La realtà bisogna che l’artista la sappia trasfigurare, perbacco; infonderle un soffio di “eticità”; vederla nella coscienza del singolo, dove si possono far diventare grigi tutti i gatti, e l’atto di chi si mette il pigiama per andare al cesso può sprigionare, attraverso il crogiuolo delle parole, altrettanta emozione dello spirito quanto il fatto del bambino che è morto di fame perché il padre e la madre non hanno lavoro. Se vi tenta la descrizione dei fatti, ebbene, descrivete; ma non vi tenti Victor Hugo o Emilio Zola, non date giudizi, non li suggerite. La società non è il vostro tema. Se mai il male sociale vi colpisca e vi soffochi, evadete, evadete: quante cose non si possono scoprire al di sopra della realtà! E non vi seduca nessuna indagine da cui possa scaturire il richiamo a un’azione liberatrice, soprattutto! Non evocate il demonio che è all’agguato! Le radici del male stanno in ciascuno di noi, perché siamo tutti egualmente peccatori, e se anche non abbiam proprio colpa per aver individualmente peccato, c’è il peccato originale, che spiega tutto, che dà egual senso metafisico all’azione di chi nega la mercede e a quella di chi deve lottare per ottenerla. Come si può prevedere, giunti a questo punto, o costruire, o sognare un avvenire diverso, una diversa società, la fine per il genere umano delle ingiustizie, delle sofferenze inutili, delle miserie, della guerra, di tutte le altre cose mostruose del giorno d’oggi? Non soltanto questo non si può fare, ma occorre fornire la dimostrazione precisa, scientifica vorremmo dire, che qualsiasi sforzo generale e vasto si compia all’umanità, o dalla parte più avanzata e cosciente degli uomini, per uscire dalle contraddizioni e dalle angosce del presente, gettar le fondamenta di una società nuova e bene ordinata, e costruire questa società, non può condurre ad altro che a un disastro, alla umiliazione della ragione umana, al suo annientamento e all’annientamento di tutto ciò che per gli uomini ha sempre avuto e sempre avrà un valore: la libertà, la dignità personale, la passione per il vero, per il bello, per il giusto.

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