La bocca chiusa dell’ouroboro (heavy mental suite)

di Mario Emanuele Fevola

© Irene Ciafardone

E poi, il giorno dopo, io faccio quello che ho fatto il giorno dopo, e anche tu, e poi il mese dopo faccio quello che ho fatto il mese dopo, e poi dopo e dopo e ancora dopo. Fino al giorno in cui senza dirtelo ti dissi che era finita. E lì c’è un momento indistinto, non so se breve o lungo (ma questo importa poco), che quelli della metempsicosi, nel loro codice, chiamano anàstole, con il quale tutto ricomincia perché il cerchio si chiude e si riapre immediatamente.

Da Il fiume, in Si sta facendo sempre più tardi, Antonio Tabucchi

L’importante è restare lontano, posizionarsi a distanza di sicurezza per non sentire la violenza delle parole che arrivano. 

È questo il dolore che si prova nel vedere quanto siamo diversi. Un rintocco suona puntuale nella mia testa, poi si allontana e porta via con sé ogni dubbio. Ascolto la musica che ho costruito, è come il suono di un crescendo.
Una fitta elettrica parte dal braccio, nel punto esatto in cui mi è stato innestato il T.A.T.U., e dilaga in tutto il corpo: mi paralizza il collo, mi serra la gola.
Ho incontrato Y ma non sono più in grado di parlare. A volte traiettorie di vite diverse si intrecciano tra loro e creano nodi resistenti e dolorosi, che riescono a sciogliersi solo con un taglio netto. Questo è uno dei casi: o c’è un’incisione decisa, inflitta con precisione chirurgica, oppure ci si continua a legare agli anelli del mondo, sempre allo stesso modo. Mi fa male anche solo pensare a Y, che sia nella mia testa o mentre vivo la mia linea orizzontale. Nessuna distanza ci allontana. Immagino Y e la sua coscienza sembra viziare la mia. Ed è questo che mi ammala, mi incastra i piedi in un’altra catena, mi tiene ancorato al momento presente.
L’immagine della sua coscienza a contatto con la mia dà fuoco a troppi neuroni. La avverto da qui, la ignoro da qui, fingo che non ci sia. Fa male anche questo.
Perdo equilibrio nelle mie decisioni. Cos’ha ancora da dirmi? Alla fine dei giochi tutti conosciamo il lato onesto delle nostre ragioni: volersi tenere lontano dal dolore. Ma non è forse il dolore il segno stesso del cambiamento? Il T.A.T.U. inizia a farmi male. Fa male non riuscire a contraddirsi. Eppure, sono salvo… ancora per un po’. Dentro di me, è successo qualcosa. Non mi sono mai spinto così lontano. Devo davvero pensare che la mia traiettoria sia un capriccio psichico? Respiro male e nella mia mente creo spettri che ritornano uguali. Finiamola qui con le repliche.

***

© Irene Ciafardone


Era successo tutto in fretta. X attraversava Piazza Dante con le mani in tasca e il volume del radio brainwave settato a 30, con il meglio della musica sinfonica della sua infanzia. Tutto intorno era un’esplosione di luci e riverberi di voci elettriche: le proiezioni olografiche della Divina Commedia fluttuavano al centro della piazza. Con l’aiuto di GNOSIS, il software di attenzione focalizzata innestato nel nervo ottico, X riconobbe la rappresentazione del Canto V. L’inferno emerse con forza, Paolo e Francesca prendevano vita tra i passanti, che li ignoravano e continuavano la loro camminata. Le proiezioni si abbracciarono proprio di fronte a X, erano interconnessioni di laser elettrici e impulsi magnetici, ma assunsero la forma di un gesto senza tempo. Sono finti, pensò X, ma hanno occhi che si cercano, sembrano custodire il silenzio delle parole non dette. Nei loro sguardi intravide una speranza personale di redenzione. Proiettare sulle proiezioni, pensò ancora X, poi sorrise. Paolo e Francesca si voltarono nella sua direzione, tendendo il libro in dono. X accettò con un cenno della testa, le pagine sfarfallarono. X cercò di leggere, sbirciare qualche frase, ma non appena focalizzò la sua attenzione, il volume del brainwave si azzerò e restò solo l’eco di un fruscio. Paolo e Francesca si allontanarono ridendo e ritornarono al centro dell’olobox che li aveva generati.
X continuò a camminare, arrivò in un angolo nascosto della piazza dove c’era una vecchia bancarella di antiquariato. Trovò un comic sgualcito di ottant’anni prima, il numero 1346 datato agosto 1994. Sulla copertina era illustrato un papero vestito alla marinara, intento a scoccare una freccia da un arco che reggeva in modo goffo. X sfogliò il volume e, tra le pagine ingiallite, si imbatté in un’intervista a Michael Jackson, il più grande compositore di musica classica e sinfonica elettronica che ascoltavano i suoi nonni. Lesse qualche stralcio e poi posò il fumetto. Mentre era attento a riporlo così come lo aveva trovato, la camicia si ritirò dal polso fino all’attaccatura dell’avambraccio, mostrando il T.A.T.U. a forma di ouroboro con la bocca chiusa. Il segno delle catene che cercava di spezzare. Alzò lo sguardo e fu un attimo.
Y era lì, proprio di fronte la catasta di volumi. Stava sfogliando un comic in bianco e nero. Sulla copertina, X notò due scheletri che si baciavano. Entrambi erano vestiti con gli abiti di un vecchio rituale che, al tempo dei suoi nonni, veniva chiamato matrimonio. Guardandosi, si sorpresero. I segreti custoditi negli anni saltarono come un click di una serratura che veniva forzata dagli eventi. Che fantasia la vita.
Y invitò X a prendere qualcosa al bar, la sua espressione era gentile e rassegnata, come chi da tempo aveva reso le armi. Si avviarono in un angolo quieto di un bar defilato, il KOZMIK, mentre Piazza Dante continuava a fornire il suo spettacolo virtuale di scene riprese dall’opera del Sommo Poeta. Appena si sedettero, X spense il software di GNOSIS, che in lontananza gli segnalò Ulisse in dialogo con Diomede. Un androide cameriere si avvicinò con una leggera scivolata, il display interfacciale lo ritraeva in un sorriso metallico.
Y optò per uno Spirito dell’Equilibrio, il drink mutava nel bicchiere a seconda delle emozioni che si provavano. La voce di Y sottintende paura e coraggio. E il coraggio non è il contrario della paura, pensò X, il coraggio è agire col cuore.
X ordinò un Cocktail della Nuova Alba. Non disse nulla, si limitò solo a indicarlo sul menù touch screen.
Si guardarono e Y rise nervosamente. Riflette il mio stato interiore, le mie parole non dette trovano espressione nel suo imbarazzo. O forse è rassegnazione. Magari rabbia. Un ringhio famelico camuffato da un sorriso autoinflitto.

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© Irene Ciafardone


Per il programma di recupero ministeriale sono stato semplicemente X, un’incognita qualsiasi, un signor nessuno. La mia esperienza con la kundashina era stata una spirale discendente.  Sono rimasto in poco tempo prigioniero dei suoi effetti concreti, intrappolato in un limbo di estasi asfissianti e psicoidi. L’abisso della dipendenza mi aveva inghiottito con una fame insaziabile, strappandomi via da ogni connessione con la realtà. Neurotrasmettitori inibitori e sinapsi incendiate suonavano una danza ossessiva ed elettrica nella mia mente, braci di irrealtà si accendevano nel mio campo visivo senza potere intuire che la più fragile scintilla di lucidità si stava consumando. Non era solo un circo della mente, ma un’immersione nelle profondità del mio inferno interiore.
Ero stato affidato al dottor F., un artigiano delle menti frantumate. Per evitare l’escalation di psicopatologie pericolose e per un corretto funzionamento sociale, la tecnocura rappresentava l’unica via di fuga dal pozzo nero che avevo scavato con le mie mani. Le mani che ricordavo sanguinare senza provare alcun dolore quando le battevo contro il muro.
La totale indifferenza del dottor F. si rifletteva dal vetro sporco dei suoi occhiali, mentre le macchine avanzate dietro di lui sembravano scrutarmi con le loro luci intermittenti. I colloqui in sua presenza erano stati un confronto violento. Sapevo bene di essere un paziente, ma anche un esperimento, un’anomalia da reprimere, un pezzo di carne e anima da analizzare e modellare in una nuova personalità.
La mia crisi psicotica, così l’aveva chiamata il dottor F., mi aveva accecato in una notte. Era bastata una sola dose in più, poi un crack, un blackout cupo, e la mia mente si era scatenata senza freni, in preda a un turbine di pensieri orrorifici. L’inferno ce lo portiamo dentro, senza saperlo, o lo dimentichiamo, fino a che non è troppo tardi. Nel farmi del male non ho esitato, nemmeno un istante. Ricordo perfettamente il tonfo pieno e una cascata di dolore bianco che mi inondò gli occhi. L’impatto era stato di una violenza disumana, che non era la mia, che non mi era mai appartenuta. Il mio cranio aveva tremato dal dolore, la sensazione che si fosse spaccato aveva scatenato in me solo una risata isterica. L’ascoltavo provenire da una parete nascosta nel buio come un’eco sinistra, ma che celava un qualcosa che non aveva mai smesso di sussurrare. Era solo una ferita. Capita a tutti, prima o poi, no?
Durante il trattamento, il dottor F. mi aveva costretto a indossare un caschetto da pugile. La sua superficie morbida era un argine preventivo alla mia follia: sapere di essere il mio peggior avversario mi faceva diventare schifoso persino a me stesso. Rinchiuso lì dentro, la voce del dottor F. mi arrivava ovattata, ma il suo tono calmo svelò il meccanismo che mi portava a essere sempre me stesso. Aveva usato un’espressione tecnica: coazione a ripetere. Era quello il nome del mio limite.
Mi introdusse alle funzionalità di T.A.T.U., un nuovo vanto del Ministero del Benessere sociale e individuale, e della clinica in cui ero stato amorevolmente accolto. Mi disse che il nome completo, tecnico, era Tatoo for Augmented Therapeutic Urgencies. Come un custode silente, questo tatuaggio artificiale di tecnocura psicosomatica mi prometteva una lotta quasi ad armi pari con i miei demoni (o “i miei domani” come li chiamavo io durante le mie crisi). T.A.T.U. avrebbe impedito il mio parlare e i gesti ripetitivi, i miei loop autodistruttivi, gli schemi mentali acquisiti e a beneficio della mia salute fisica e mentale. Avrebbe agito soprattutto quando i ricordi dolorosi avrebbero fatto irruzione. Ogni momento significativo, ogni briciola del mio dolore passato, avrebbe avuto accesso negato.

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© Irene Ciafardone


Le bevande giacevano di fronte a X e Y, l’androide cameriere aveva eseguito la consegna con precisione meccanica, portando i bicchieri senza fronzoli. Gli occhi di X si posarono sul drink di Y, che cambiò leggermente di tonalità. Si perse con lo sguardo nel valzer liquido che si muoveva nel bicchiere. X non aveva parole, mentre quelle di Y sembravano sublimate dalle bollicine di anidride carbonica e coagulanti zuccherini che rispecchiavano le sfumature delle sue emozioni.
Il cocktail di Y iniziò a mutare: un blu rilassato si dipanò al centro del bicchiere, Y emise un sospiro di tranquillità dopo il primo sorso dalla cannuccia. Poi, con un movimento quasi sospetto, il rosso si insinuò, crescendo lentamente in intensità, Y incrinò le labbra in un sorriso nervoso. Ancora, dopo il secondo sorso, strinse la cannuccia tra i denti, il suo volto rivelava in sé un senso di serenità e rinascita. È lo spirito reale di Y, pensò X, ma non ne sono sicuro. Ultimo sorso, il nero emerse. È lo spettro di Y che scopre i suoi tormenti interiori? si domandò X. Le tonalità si sovrapposero, sfumarono. Y bevve e la sua espressione assunse toni più rilassati.
X fissò Y, gli parve che una barriera invisibile circondasse la sua figura.
«Non puoi continuare a chiuderti in te», le parole di Y uscirono fluide. Le sue labbra si incurvarono con una sfumatura di inquietudine.
«Sembra sempre che stai guardando un muro», continuò. Le parole di Y arrivavano come una scarica di frustrazione e impotenza.
«E non so cosa pensi. Mai. Non l’ho mai saputo».
X fu catturato dall’istinto di rispondere, ma non gli era permesso parlare. Solo pensare. Sei tu il mio argomento significativo, il ricordo doloroso che non può essere riattivato. Fissò Y negli occhi, ancora e ancora, poi si disconnesse dalla Realtà. Attraverso l’innesto neurottico, X si collegò al software di GNOSIS. L’interfaccia diretta comparve nell’area del suo spazio visivo. Attraverso un’accelerazione neurale, entrò in una dimensione senza tempo e senza spazio. Si loggò nella library multimediale, il gate riconobbe il suo personal ID e infine X riuscì ad avere accesso alla sezione riservata alle informazioni salvate sulla coazione a ripetere.
La pagina di Nietzsche sull’Eterno Ritorno gli apparve per prima.
Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione  –  e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato?”1
È così che mi sento
, pensò X. E poi vide l’ouroboro, il serpente che si morde la coda, il T.A.T.U. innestato sul braccio, capace di bloccare ogni sua coazione a ripetere. Durante l’operazione stereotassica per il collegamento tra la macchina e la psiche di X, il dottor F. era stato molto chiaro riguardo al funzionamento della psicotecnologia: il T.A.T.U. avrebbe impedito a X di mettere in atto comportamenti e azioni capaci di riattivare i suoi schemi procedurali e autolesionistici. X lo ripeté fra sé e sé: il suo limite non era fare sempre le stesse cose, era essere sempre la stessa persona.

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© Irene Ciafardone


X finì di leggere dall’interfaccia olografica attivata da GNOSIS, poi avvertì un improvviso scossone. Il T.A.T.U., silente fino a quel momento, si attivò con una carica elettrica che percorreva tutto il braccio. Il dolore fu subitaneo, esplose nell’amigdala e si diramò nel tronco encefalico fino alle aree cerebrali V3 e V5. Bloccò le interazioni sinaptiche nell’area di Broca e in quella di Wernicke. Qualsiasi comprensione e produzione di linguaggio fu inibita. La frequenza elettroencefalografica di X si ridusse, portandolo a uno stato di rilassamento controllato. Con un sussulto, i suoi muscoli si contrassero e le sue mani strinsero il tavolo. X fissò Y ancora, stavolta senza riuscire a vedere per davvero. Ma nel dolore c’era anche una strana sensazione, l’incrinatura di una catena che si spezza. Poi l’illuminazione, l’idea che scattò nella sua mente: utilizzare frasi, parole di canzoni della musica classica archiviata nel suo software di memoria a lungo termine. Avrebbe utilizzato quegli stralci di canzoni per parlare con Y, per rompere il muro, per dare voce ai fantasmi che dentro di sé mugugnavano senza proferire verbo. Era un linguaggio che conosceva bene, funzionale per organizzare il pensiero e arginare gli schemi modulari di risposta preimpostati dal T.A.T.U. Sì, posso provare, pensò X, sovvertire il meccanismo che mi ha tenuto prigioniero della mia stessa incapacità di comunicare.
Le sue labbra si incrinarono appena, mentre un filo di insofferenza restò attaccato al dolore residuo. Era il momento di rispondere a Y.

***


Y: «Come stai?»
X: «Squillo come una campana dalla testa verso il basso per le dita dei piedi… Come una voce che ti dice che ci fosse qualcosa che dovresti sapere.2»
Y: «Non dev’essere bello.»
X: «Non è forse in momenti come questi che ti chiedi se potrai mai sapere il senso delle cose come appaiono agli altri?»
Y: «È strano come siamo finiti così lontani, vero? Abbiamo smesso di ascoltarci veramente.»
X: «Se c’è un Dio o qualsiasi tipo di giustizia sotto il cielo… Se c’è un punto, se c’è una ragione per vivere o morire… Se c’è una risposta alle domande che ci sentiamo obbligati a chiedere…»3
Y: «Fatti vedere. Sai benissimo chi sei.»
X: «Non lasciarti tenere giù, raggiungi le stelle. Se hai un obiettivo, magari molti. Perché sei l’unica a cui avrei dato il meglio.»4

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© Irene Ciafardone


Sul tavolo i bicchieri sono vuoti. X e Y si lasciano con un saluto imbarazzato che non rende giustizia ai non detti, ma solo alle intuizioni che sono stati in grado di scambiarsi. Y va via e X si allontana nella direzione opposta, passando di fianco alle proiezioni olografiche che si stagliano nell’aria. Immerso in un bagliore di luce blu-argentea, X si avvicina silenzioso alla scena che si materializza davanti a lui: Dante viene accolto da Beatrice in Paradiso, in sottofondo una suite musicale a bassa frequenza.
È la musica degli angeli che sento, pensa X. Finiamola qui con le repliche. Respiro male e nella mia mente creo spettri che ritornano uguali. Devo davvero pensare che la mia traiettoria sia un capriccio psichico? Non mi sono mai spinto così lontano. Dentro di me, è successo qualcosa. 

Fa male non riuscire a contraddirsi. Il T.A.T.U. inizia a farmi male. Ma non è forse il dolore il segno stesso del cambiamento? Alla fine dei giochi tutti conosciamo il lato onesto delle nostre ragioni: volersi tenere lontano dal dolore. Cos’ha ancora da dirmi? Perdo equilibrio nelle mie decisioni. Fa male anche questo. La avverto da qui, la ignoro da qui, fingo che non ci sia. L’immagine della sua coscienza a contatto con la mia dà fuoco a troppi neuroni. Ed è questo che mi ammala, mi incastra i piedi in un’altra catena, mi tiene ancorato al momento presente. Immagino Y e la sua coscienza sembra viziare la mia. Nessuna distanza ci allontana. Mi fa male anche solo pensare a Y, che sia nella mia testa o mentre vivo la mia linea verticale.

A volte traiettorie diverse si intrecciano tra loro e creano nodi resistenti e dolorosi, che riescono a sciogliersi solo con un taglio netto. Questo è uno dei casi: o c’è un’incisione decisa, inflitta con precisione chirurgica, oppure ci si continua a legare agli anelli del mondo, sempre allo stesso modo. Ho incontrato Y ma non sono più in grado di parlare. Una fitta elettrica parte del braccio, nel punto esatto in cui mi è stato innestato il T.A.T.U., e si dilaga in tutto il corpo: mi paralizza il collo, mi serra la gola.È questo il dolore che si prova nel vedere quanto siamo diversi. Un rintocco suona puntuale nella mia testa, poi si allontana e porta via con sé ogni dubbio. L’importante è restare lontano, posizionarsi a distanza di sicurezza per non sentire la violenza delle parole che arrivano. Ascolto la musica che ho costruito, è come il “suono di un crescendo”5.

Editing di Fabiana Castellino

Mario Emanuele Fevola (1992) Dottore in Psicologia Applicata ai Contesti Istituzionali, è esperto di fondi europei e tecniche di progettazione. Legge, fuma e crede nella parola e nell’immagine come altissime forme di tecnologia. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie.

Nel suo Abecedario Gilles Deleuze afferma: «L’uomo imprigiona continuamente la vita, continuamente la uccide. L’artista libera la vita […] Liberare la vita dalle prigioni dell’uomo, questo è resistere». 

Nei lavori di Irene Ciafardone si avverte come un senso di liberazione di momenti ed elementi da lei colti con lo strumento fotografico che funzionano da attraversamento di soglie di contagio tra il mondo esterno e la nostra interiorità, luogo dove il primo si agita. Si percepiscono movimenti familiari, parentele tra le cose che ritornano nel cono d’ombra dello sguardo: un’esperienza intima che può spaventare. Per mezzo del segno fittizio l’artista incide il dentro e il fuori, il nero e il bianco, con la determinazione di chi non si arrende alla prima apparenza della realtà. Prepara le immagini ad altre vite, alla trasfigurazione al centro di ogni relazione e al significato della nostra vicenda esistenziale.

Maria Teresa Rovitto

Irene Ciafardone ha ventiquattro anni e oltre a frequentare una scuola di fotografia è una studentessa di filologia romanza. Da parecchi anni il mezzo che sceglie per guardare, oltre che vedere, quello che la circonda sono le lenti della sua macchina fotografica. La prima volta che ne ha vista una aveva pochi giorni di vita, e questa embrionale scoperta la deve a suo padre. Crescendo ha iniziato sporadicamente ad avvicinarsi a questo mondo ma la svolta è arrivata nel marzo 2020, durante la quarantena, quando ha cominciato ad aprire dei vecchi scatoloni e in uno di questi ho trovato un vecchio regalo: una Canon. Tutto il resto spera di raccontarlo attraverso i suoi scatti.

  1. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Libri IV, n. 341, Adelphi, 1977. ↩︎
  2. Alabama 3 (1997). Woke up this morning (registrato da Alabama 3). In Exile on Coldharbour Lane – ONE LITTLE INDIAN. ↩︎
  3. Queen (1991). Innuendo (registrato da Queen). In Innuendo – EMI. ↩︎
  4. Wallace, J. C. L. (1994). Juicy (registrato da The Notorius B.I.G.). In Ready to Die – BAD BOY, UNIVERSAL ↩︎
  5. Jackson, M. (1988). Smooth Criminal (registrato da Michael Jackson e Quincy Jones). In Bad – EPIC. ↩︎

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