Cavallo blu

di Francesca Zanette

© Carola De Agostini

Si è ripromesso di non calpestare le crepe della strada quando si annoia, ma è stato un errore privarsi di una consolazione. Ci vuole una forza d’animo straordinaria per trovare continuamente qualcosa su cui posare gli occhi. Non c’è bellezza qui. Nulla da annotare sul taccuino, viene quasi da ridere. Boris cammina lungo via Sumskaja, ogni tanto finge che sia il caso e si volta a controllare; oggi fotografa, ma domani? Domani potrebbero seppellirlo e cavargli gli occhi, per dimostrare che sono loro i padroni dello sguardo. Certo che ha paura, ma non farà la fine del vicino di casa: mangiarsi il gatto dalla disperazione, no, non si ridurrà a questo punto, piuttosto… vedi, gli uccelli volano comunque, sono creature stupide, perciò vivono in pace. Prende via Serdiukovsky: nessuno l’ha seguito. Bene. Ma non è detto. Controllare il passo, il respiro, non bisogna affrettarsi davanti all’uomo ordinario alle finestre, file di buchi neri: lì dentro cucchiai girano zuppe, ogni giorno ogni giorno, il tè e la frittata. La cosa più rilevante di oggi, toh, una lamiera derelitta. Non ha senso ricordarsi com’era prima. I tempi sono inaspettatamente cambiati, o forse no, insomma, è come ripetere una parola venti, trenta volte di seguito finché il suono perde significato. Calcia un sasso, così. Anche i sogni notturni sono diventati banali, ripetono la realtà, ora bisogna ubriacarsi di più e meglio per la grazia di un sogno vero, di immagini proibite, allucinatorie, piene di rospi, coaguli, specchi, piedi bianchi, scale interrotte; ha nostalgia. 

Cinquanta metri avanti lungo il marciapiede, un uomo lascia che l’autobus riparta prima di attraversare. Boris ne è colpito, gli pare un comportamento pieno di dignità, si ripromette di conservarne l’impressione. Nota che la fermata è nuova, ma sembra già vecchia; prova a capire perché, cosa rende gli oggetti silenziosi e tristi? Osserva da più angolazioni, si blocca, porta la fotocamera al naso, l’abbassa. Gli capita spesso: dentro di lui qualcosa è vecchio duemila anni, tutto è già conosciuto a tal punto da sentirlo irreale. Per certe cose servirebbe la musica, avrebbe studiato il violino anziché ingegneria, ma… 

Chilometri di rettangoli e quadrati, ovunque: la quantità di cose non terminate. E le macchie di ghiaccio sporco, la sciatteria di inizio primavera. 

© Carola De Agostini

Vorrebbe gridare, invece pensa, mi annoio a morte! Chiederanno, com’è crepato Boris? Di noia. Diranno, avrebbe potuto salvarsi fino all’ultimo invece no, ha fatto giusto in tempo a trascinarsi a casa come un automa, un Červâkov che si sdraia sul divano senza togliersi l’uniforme e muore, improvvisamente. 

Grigio ovunque. Ordinario. Immutabile. Un sole grigio da cui irradia la realtà. Si aggrappa con entrambe le mani alla tracolla della fotocamera, stringe i pugni, chjort! Una sete, una voglia di tuffi, di rivoluzione. Si guarda intorno, dopo qualche passo controlla di nuovo. Lo farà, oh, sì che lo farà. Si dice, non farlo, Boris, fallo, Boris!

Salta! Gambe larghe, braccia aperte, lingua fuori. Ride, finalmente. È l’inno al grigio signore e signori, sia gloria al colore medio! Si avvicina a un pezzo di cancello storto ceduto in più punti. Inquadra, clic. Un uomo lì vicino gli chiede, che fotocamera usi, è straniera? Vivi a Kharkiv da molto? Sì, da molto tempo. Risponde distratto, sta pensando a ciò che finalmente ha capito: una foto brutta e inutile, così deve essere, così. Una foto da dilettante, così dev’essere. Foto banali e sporche, dev’essere così come sono le cose, inquadra, clic: un palo è un palo, un uomo sta vomitando dietro quel palo.

© Carola De Agostini

Comincia a correre buttato in avanti, aghi in faccia, correre è sovversivo, lo prenderanno due uomini col cappotto uguale eppure corre, se proprio deve morirà correndo. Svolta, salta un muretto e si spinge dentro a un campo fangoso. Tira il fiato, ma è bello andare, gli pare che così vada meglio; mentre la testa si svuota un rumore basso partito da lontano cresce e lo investe, insieme a una macchia scura per terra. Boris rallenta la corsa, guarda in alto, si ferma; piegato sulle ginocchia mangia aria a bocconi. Un aereo sfila sopra la sua testa, viscida murena, la realtà ricoperta da un sottile strato grasso su cui scivolano a terra i mesi indistinguibili, senza la minima possibilità per noi di cambiare, la minima possibilità di cambiare davvero.

Si tira dritto, scatta una foto lì dove si trova, al campo e al cielo. Ha deciso: stamperà la foto e scriverà sotto “Qui un aeroplano ha proiettato la sua ombra sopra di me”.  

Mentre torna indietro si ripromette di fare molta attenzione. Sa che la fotografia tende a dismemorarci, vorrebbe farci dire che la vita ha anche i suoi lati buoni. 

*

© Carola De Agostini

E poi l’amico Rupin se n’era saltato fuori dicendo che c’è un momento preciso in cui si diventa fotografo o scrittore o artista, insomma, un istante prima no, l’istante dopo sì. Boris ci ripensa ed è in piedi davanti alla porta di casa schiacciato dal peso dello zapoj, barcolla, manca più volte la chiave nella toppa, ma riesce ancora a ragionare, sa com’è l’amico Rupin, incline al purismo, spara cazzate per tener viva la nostalgia. Eppure stavolta…

La maniglia si abbassa e Vita gli butta le braccia al collo, è tornato! Gli stampa addosso baci frenetici, bocca guance occhi mani. Due giorni senza avere notizie, disgraziato, come può resistere una moglie? Ora, subito! deve promettere: ha chiuso con le mostre, l’arte è pericolosa, lo deve giurare su sua madre, altrimenti non lo farà entrare a costo di vederlo morire di freddo. Gospody pomiluy! In che condizioni, poi tocca a lei rimetterlo in sesto! Quante ne ha bevute, dieci, venti? Boris si toglie le scarpe a fatica mentre la voce di lei va avanti e indietro e ripete basta basta! Esporre nelle cucine, come se bastasse a cavarsela, prima da Makienko, stavolta da Pavlov, si rendevano conto del rischio? Non gli venisse in mente di portare in casa quelli lì, una mostra da loro no, no e poi no. 

Boris appoggia il cappello sul mobile dopo averlo ringraziato e salutato; la voce di Vita è uno stagno pieno di bolle, quanto sono belli i rospi quando c’è il sole e le ombre delle canne su altre canne… Si lascia condurre sulla sedia, immerge i piedi nell’acqua calda di una bacinella e s’abbandona alle mani di lei sulle caviglie, sotto il tallone, in mezzo alle dita. Chiude gli occhi, gira tutto, riapre gli occhi. La guarda trafficare nella penombra, è mai stata più bella di così? La devozione di una donna sulla pelle… se fosse estate! Raccogliere pomodori e infilarsene uno nei pantaloni, forse gli è appena venuta un’idea e servono delle matite colorate; la voce di Vita è un vento galoppante, fiori su fiori e adesso che la paura è dimenticata gli chiede com’erano le fotografie degli altri, cosa si era inventato stavolta Suprun? 

© Carola De Agostini

Boris risponde oscillando la testa sul collo, pensa a quanto si debba ancora creare, molto, moltissimo, chiude gli occhi per un attimo; le donne hanno quelle due fossette sulla schiena così civettuole e dissidenti. Mentre si lascia asciugare i piedi col panno tiepido, allunga la mano verso immagini che si formano e disfano in aria, un cristo di legno sopra un uovo al tegamino, un filo di panni appesi sopra i binari del treno, persone in fila sopra una fetta di pane… La fronte gli brucia e non riconosce più il suo corpo, gli fanno male anche i denti e peggio, sente una malinconia vuota, deve provare qualcosa di simile il matto seduto nel giardino del manicomio, quando il cielo gira e lui china la testa. La voce di Vita è un’amaca gravida tra due betulle, ora è allegra, versa il tè, vuole sapere se Malevani si è tagliato i capelli.

Boris prende in mano la tazza, soffia via il fumo. Cerca gli occhi di sua moglie: lo ha colpito una cosa, una cosa detta dall’amico Rupin, che c’è un momento esatto in cui si diventa un artista, insomma, un istante prima no, l’istante dopo sì. All’inizio gli sembrava una cazzata, sa anche lei com’è fatto l’amico Rupin – Vita sorride, lo sa eccome, è tutto idealismo – ma adesso ci ha ripensato ed è vero, l’amico Rupin ha ragione. Si sporge verso di lei: lui è diventato artista lunedì alle 23.20. Addirittura l’ora, ride lei, sicuro che l’orologio fosse carico? Ma Boris appoggia a terra la tazza, è serio. Giù di sotto in laboratorio, mentre sviluppava le diapositive a colori. Ha lanciato le pellicole sul letto, così, per noia, perché è un idiota, il punto non è il motivo, ma il cosa era successo: due pellicole si sono incollate insieme e il risultato era un’immagine nuova, così sovietica, ma così libera. Ubriaco, sì, ma riusciva a ragionare benissimo, doveva credergli. Spostando una diapositiva sopra l’altra aveva ottenuto combinazioni che fanno ridere e piangere, culi e uniformi, madonne e cipolle, il caso è la poesia della nostra miseria sovok. È successo, ma poteva non succedere mai, si dà dell’impostore, buffone, basta con la fotografia, non è abbastanza bravo, le prende le mani tra le sue: la supplica di non abbandonarlo, l’esilio è dappertutto e lui ormai le ha detto ti amo, è lei il nome delle cose, le stelle acuminate nel cielo… Vita sorride e gli porge il tè: ci ha messo la melissa, fa miracoli contro la sbornia. E mentre lui beve con le lacrime agli occhi, gli dice no, lei c’è sempre stata e lo sa: era un artista già quando era ingegnere, le prime foto erano arte, altrimenti il KGB non le avrebbe mai confiscate; non licenziano un bravo compagno che sviluppa qualche nudo in azienda, guardano le foto e parlano osceno. Invece, lo avevano accusato di pornografia, quindi chiaramente loro già ci vedevano l’arte. 

Boris appoggia la testa sulla spalla di Vita e infila la mano sotto la camicetta, prende il seno nel palmo, lo stringe piano. Ci penserà domani, ora in casa c’è calma e la pelle di una donna e l’angoscia messa a nudo, chiude gli occhi – il cielo blu delle bombe, i cani randagi fanno piangere – apre gli occhi, quest’estate vuole andare a Berdyans’k a prendere il sole, un giorno di pace basterebbe, ma non c’è pace, chiude gli occhi: dietro alle palpebre si forma l’immagine di una donna nuda, ha pollice e indice dentro la bocca di un tonno squartato…   

*

© Carola De Agostini

Vadim gli versa la stessa vodka che versa al suo strozzino; non sa per quanto riuscirà a tirare avanti, soprattutto se la gente continua a chiedere credito, l’occhiata a Boris dice il tono. Ma per gli artisti è diverso, offrire loro da bere è il suo contributo alla causa. Boris china la testa, ma l’amico gli batte sulla spalla: niente paura, quando avrà finito l’ultimo rublo mangerà le fotografie che lui e gli altri disgraziati del gruppo gli regalano a saldo; si fanno ancora chiamare Vremya? Uno più matto di quell’altro, Tubal che fine ha fatto? Da parecchio non passa per un bicchiere. 

Appena Vadim torna dietro al bancone, Boris si sente solo. 

Nel locale conta nove persone, ciascuna con un cappello e la propria vita. Su uno dei tavoli, un portacenere rosso. Una sedia è laccata di rosso, rosso lo stemma sulla porta.

Krasnyy: rosso e bello. È bello il colore rosso? Prepotente, ne basta una goccia. Ovunque, come ti giri trovi una macchia di carminio. La rivoluzione. Anche il rosso ha cambiato tutti; dai mutandoni e fazzoletti in testa è passato negli organi interni. Da quando ha deciso di fotografare ogni granello di rosso nel paesaggio sovietico si fa qualche buona risata; come l’uomo enorme al corteo, faccia dura da bogatyro, e in mano un grande fiore di carta… gli dicono tieni il fiore e lui tiene il fiore, due occhi da belva e tiene il fiore, un fiore di carta rosso. Boris ride anche adesso al ricordo, ma subito dopo arriva l’onda della tristezza. Alza il bicchiere verso Vadim, alla felice vita sovietica! L’amico ricambia con un cenno di omaggio alla carta geografica appesa alla parete, CCCP. 

Boris vorrebbe pagare ogni pasto, ma servirebbe un buon lavoro ufficiale. E non può, no, proprio non riuscirebbe a stare tranquillo nella fila di operai, c’è troppa verità da mostrare, e lui prima o poi troverà il modo; la fotografia è il gioco di smascherare la danza. Prendere per il culo la legge senza violarla.

Un uomo seduto due tavoli più in là indossa delle calze color porpora. Boris sposta lo sguardo sui guanti appoggiati sulla sedia: macchioline rosse qui e lì, ovunque; unendole si può tracciare la mappa del disincanto sovietico. Scritte, insegne, la bandiera dell’eroe. Ma l’eroe è diventato grasso, in estate va in vacanza e s’annoia, dondola il piede sullo scoglio. 

© Carola De Agostini

Solleva il bicchiere e guarda attraverso: liquide forme oblunghe, tre uomini parlano allegri ed è bello vederli dimenticare la realtà. Riappoggia il bicchiere sul tavolo. Bisognerebbe avere il coraggio di una vera mostra, in un vero posto, che non siano le cucine di Ivanov, Petrov, Sidorov. Sia però una mostra, una mostra militante, per carità, questa moda del concettualismo non la sopporta, ogni idea è da considerarsi concettualismo? Quale sì e quale non lo è? Finisce che tutto il postmodernismo è concettuale, ha chiesto a tutti i concettualisti, ma nessuno è riuscito davvero a rispondere… 

La donna a fianco fa rumore col brodo e d’improvviso si sente in colpa a ragionare artisticamente, sarebbe il caso di guadagnare qualcosa, pagare Vadim e regalare un vestito a Vita. Qualche soldo extra lo fa colorando a mano vecchi ritratti di famiglia, uno spasso fare il vestito fucsia alla zia, i capelli rosso fuoco al nonno, fermi in posa davanti a un Cremlino giallo limone. La gente per lo più ci crede, ma quando invece ridono, dicono bello bello e ridono, allora è una gioia, perché hanno smascherato il gioco, l’idiozia sovietica della bellezza. Ha deciso: metterà alla prova Vadim, con un ritratto all’anilina, vediamo se ride, di sicuro ride e se ride glielo regalerà. E gli pagherà anche il pasto, lo giura sul diavolo. Alla destra del piatto, il taccuino aperto con alcune note:

Qui non è ovunque e ora non è in qualsiasi momento.

Ho le mani gelate. Mi commuove il momento in cui la città accende i lampioni. 

Blu è il colore del coprifuoco. 

Nel ritratto la donna ha i capelli appena lavati e lui le sta di fronte, non si nota che lui ha un dito rotto.

Metti una macchina fotografica in mano a un bambino e può fare già molto. 

Una giornata che sia la vigilia di qualcosa. Servono le vigilie, servono come il pane.

Scattare due foto nello stesso luogo a distanza di cinque minuti l’una dall’altra. Il dramma della vita senza eventi.

Editing di Fabiana Castellino

Francesca Zanette vive a Treviso dove lavora nel campo del marketing come libera professionista. Ha all’attivo esposizioni di progetti artistici fotografici in mostre personali e collettive; la sua indagine artistica esplora i modi della relazione spesso conflittuale tra immagine e parola. Scrive di fotografia e letteratura, ha pubblicato i suoi racconti su riviste online e cartacee, è autrice del romanzo 𝐷𝑜𝑣𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑐𝑎, ed. Readerforblind, 2022. 

«Ci interessiamo a determinate cose, ad alcune piuttosto che ad altre, perché è la nostra stessa costituzione che ci spinge a farlo, perché ci sarebbe altrettanto impossibile pensare, agire altrimenti. Così come non possiamo scegliere la lunghezza delle nostre gambe, o le nostre malattie, ugualmente non possiamo scegliere il nostro modo di pensare, il nostro modo di esprimerci. E questa mania di esprimersi è dello stesso ordine, rigorosamente dello stesso ordine, del gioco delle mosche attorno al globo di una lampada spenta al mattino.»1

Nei suoi lavori Carola De Agostini restituisce un senso di protezione e insieme di incolumità, libera una sottile desolazione ma solo per arrivare a un lenimento nel tempo dello scatto che sposta la scansione cronologica: emerge più tardi il presente, in un processo analogo al deperimento dei materiali. Alcuni scatti sembrano preludere a un momento iniziatico, un simbolico antefatto di situazioni private che parlano anche per noi. Senza esibire forzature espressive l’artista sceglie di scrivere con la luce un senso che non va perso, gesti che non vanno persi e quella spinta verso l’altro che ci riappropria. Il suo sguardo scivola su linee celesti che non durano, ma rinascono, come corrispondenza a una certa idea di esperienza, a un certo grado di comprensione.

Maria Teresa Rovitto

Carola De Agostini nasce nel 1980 a Genova. Nonostante la formazione più classica pensabile (liceo classico e facoltà di giurisprudenza) mantiene, nella sua vita, quel pizzico di spirito selvaggio e ribelle che la porta a non conformasi mai a quella che le viene indicata come “la scelta giusta”. Inebriata dalla passione del padre per la fotografia si ritrova, fin da ragazza e sempre come autodidatta, a interpretare il proprio sguardo attraverso l’obiettivo, iniziando dal rullino di una vecchia Canon AE-1, attendendo con ansia e trepidazione il momento del risultato dello sviluppo. La macchina era sempre con lei, nel quotidiano e nei tanti viaggi che le hanno insegnato, tra le altre cose, il rispetto per l’anima altrui che si vuole rubare. Che siano colori o bianco e nero poco importa, a lei basta la realtà di uno scatto irripetibile, qualcosa che non si possa costruire per una seconda fotografia. Crescendo si deve adeguare, a malincuore, a quella che è la tecnologia e al ritmo della vita che le porta tre figli togliendole, così, un po’ di tempo per coltivare la propria passione e abbraccia il digitale, pur rimanendo sempre vivo il suo primo amore.

  1. Alberto Giacometti, Scritti, presentati da Michel Leiris e Jacques Dupin, tr. it. di E. Grazioli e C. Negri, Abscondita, 2001 (1990), Mliano, p. 160 ↩︎

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