Cavallo blu. Ipertesto

di Francesca Zanette

© Carola De Agostini

Fotografare un palazzo è da spie; un albero no.

La fotografia di Boris Mikhailov

di Francesca Zanette

Nato a Kharkov nel 1939 quando l’Ucraina faceva parte dell’URSS, Boris Mikhailov è considerato un artista post-sovietico chiave della fotografia contemporanea.

Fino all’età di 27 anni è ingegnere in una fabbrica di armamenti, ma il lavoro lo annoia terribilmente e chiede di utilizzare la cinepresa di cui è dotato lo stabilimento industriale per girare video aziendali. Mentre sviluppa alcuni negativi nel laboratorio della fabbrica, gli agenti del KGB scoprono alcuni scatti di nudo e lo accusano di distribuire pornografia. Poco importa che quelle foto mostrino già una qualità artistica; viene licenziato. A partire da quel momento sopravvive con occupazioni saltuarie e con l’attività di fotografo commerciale sul mercato nero; nel frattempo porta avanti la sua ricerca. 

È il 1966. Due anni prima, l’ascesa al potere di Leonid Breznev aveva segnato l’inizio di ciò che Mikhail Gorbachev definirà zastoi (ristagno). Si assiste a una forte crisi economica, alla regressione di tutti fondamentali indicatori nazionali e, a livello sociale, alla revoca delle libertà ottenute nei precedenti anni del disgelo. Se non è ufficiale, l’arte è considerata dissidente. 

In questo scenario la Fotografia cerca modalità di eludere la censura, mimetizzarsi e beffare le tre categorie normative che più la limitano: le leggi contro le attività di spionaggio, contro la pornografia, contro la diffusione di informazioni false. 

È vietato riprodurre un certo numero di luoghi e situazioni. Fotografare una stazione, una piazza, un palazzo è da spie; un albero no. Ma non è possibile sapere a priori ciò che è permesso e cosa non lo è, in qualsiasi momento il fotografo può essere avvicinato da un poliziotto: cosa stai fotografando, perché, mostrami il permesso. Proprio la vaghezza interpretativa amplifica il potere delle autorità. 

In questo clima di sfiducia e paura Boris Mikhailov lavora da clandestino, sempre rischiando. Si unisce al collettivo culturale underground chiamato Time di cui fanno parte altri fotografi importanti, come Evgeny Pavlov, e Yuri Rupin, Oleg Malevani, Alexander Suprun. L’unica possibilità per condividere i propri lavori ed esporre le opere sono le mostre residenziali: a turno, la casa di uno degli artisti si trasforma per una sera in spazio espositivo, le “cucine dissidenti”, come verranno poi definite simpaticamente. 

Lo Stato ha la pretesa di controllare lo sguardo e vigila sulla rappresentazione tendenziosa della realtà. Anche quando le singole immagini sono del tutto innocue, una serie di fotografie può facilmente essere considerata sovversiva e accusata di mostrare una società non conforme all’ideale sovietico. L’apparatchik riceve la seguente istruzione: ciò che è bello va bene, ciò che non è bello va soppresso. 

Per meglio comprendere, si può considerare la realtà suddivisa in strati: all’artista è vietata la rappresentazione dei livelli più profondi e allo stesso tempo ciò che accade nel livello superiore (quello dell’alta società e della politica di palazzo) è inaccessibile. Rimane una zona intermedia, ordinaria e immutabile, il quotidiano ristagnante; questo è l’unico ambito in cui il fotografo può muoversi e lavorare. E in questo grigio Boris Mikhailov sviluppa la sua cifra artistica. «Il sogno non rivela più l’orizzonte azzurro. Tutto è grigio adesso», scrive in uno dei testi di Unfinished Dissertation. Il grigio diventa l’epitome del suo metodo artistico: osservare e decifrare i meccanismi più sottilmente perversi della società sovietica, denunciarne le contraddizioni, e allo stesso tempo mettere in luce quanto resta di poetico nell’essere umano. 

Ne risulta una cronaca della vita sovietica, ma l’intento non è documentaristico, quanto di ricerca. La collettività è studiata come insieme di singoli, immersi in un profondo anonimato. A Boris Mikhailov, in altre parole, interessa capire la serpeggiante ideologia sotterranea; interessa l’avventura quotidiana dell’individuo alle prese con le grandi forze sovrastrutturali a cui è soggetto.

Oltre a ragionare spesso per opposti bello-brutto, privato-pubblico, vita-decadenza, utilizza l’ironia per smascherare i meccanismi della realtà. Anche per questo nelle sue immagini si percepisce un’intelligenza, una chiamata a penetrare i diversi livelli di lettura.

La produzione di Boris Mikhailov si compone di circa 25 serie corpose di foto, alcune serie più piccole e singole immagini. 

Nella prima fase della sua attività l’artista porta avanti tre lavori fondamentali in parallelo. 

Uno. La serie Red, realizzata tra il 1965 e il 1978, mostra frammenti di quotidianità in cui compare il colore rosso. Scarpe, mutande, bandiere, coccarde, il rosso si fa portatore simbolico dell’ideologia comunista penetrata nelle vite con effetti talvolta tragici, talvolta grotteschi. 

Due. Una casualità, come ammette lo stesso Boris Mikhailov, segna una svolta nella sua attitudine artistica. Mentre sviluppa dei negativi, pone inavvertitamente due lastre una sull’altra e ciò che vede è inaspettato, straordinario. Clic, idea. Da qui ha origine la serie Yesterday’s sandwich. Si tratta di sovrapposizioni dal gusto surreale, onirico, folle, in cui la relazione tra le diverse foto sormontate amplia la portata semantica e permette all’artista di dire ciò che non si può dire, di mostrare il corpo, di attaccare la politica ufficiale. 

Tre. Nel progetto Luriki Boris Mikhailov si riferisce all’usanza di colorare le foto di famiglia scattate in bianco e nero ed estremizza la manipolazione con colori fluorescenti all’anilina. Capelli verde acido e labbra infuocate, architetture viola, simboli sovietici dipinti di giallo. Il concetto di bellezza è caricato a tal punto da diventare disturbante. Ancora una volta, l’arte mostra l’ambivalenza della realtà.  

Spesso la critica iscrive Boris Mikhailov nell’ambito del concettualismo moscovita, cosa che l’artista non ha mai confermato, rimanendo separato dal movimento. Le serie che più rientrano in questa categoria sono Viscidity (1982) e Unfinished dissertation (1984-1985). Il gesto concettuale qui risiede nell’accostamento di un testo alle foto, talvolta brevi descrizioni o aneddoti, pensieri in forma di appunto. Le immagini ritraggono spazi urbani, piccolezze, il ciglio della strada. Una deliberata scelta anti-estetica che assume valenza politica: questi fogli raccolti in un album-libro, ovvero un oggetto sovversivo che articola una rappresentazione alternativa della vita sovietica.

Nonostante il passare degli anni lo sguardo di Boris Mikhailov sa rimanere contemporaneo. Nella prefazione alla serie Berdiyansk, Beach, Sunday, from 11am to 1pm (1981) scrive: «L’eroe ora è grasso, obeso. Ora va in vacanza». Qualcosa è cambiato, l’uomo sovietico sta diventando “medio”. I ritratti provocatori dei lavori I am not I (1992) e National Hero (1992) sono dunque il tentativo di mostrare come le trasformazioni economico-sociali abbiano costretto a un ripensamento del concetto di identità, sia come nazione che come posizione dell’individuo rispetto al mondo.

Se prima la Fotografia era stata un’arma di dissidenza, con il crollo dell’URSS diviene uno strumento per testimoniare il fallimento sia del comunismo che del capitalismo in Ucraina. 

Ne sono un esempio i lavori By the ground (1991) e At Dusk (1993) e ancora la serie più famosa Case History (1997 e il 1999), che mostra il risvolto drammatico dello smantellamento finale del mito sovietico. Facendo posare senzatetto come fossero modelli professionisti all’occidentale, Boris Mikhailov offre un ritratto duro, onesto e quasi religioso della miseria di uomini e donne schiacciati dalla Storia. 

Nel suo libro German portraits (Steidl, Gottingen 2009) l’artista dichiara: «Intendo sviluppare un punto del realismo critico, a seconda di come cambia la vita…». 

È così: in oltre cinquant’anni Boris Mikhailov ha costruito una narrazione fotografica illuminante della vicenda contemporanea dell’Ucraina. E indirettamente, ha messo in luce questioni sulle quali possiamo tutti interrogarci. 

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