Ombra. Ipertesto

di Livia Del Gaudio

© Fred Cigno

Architetture d’ombra

di Livia Del Gaudio

«[...] in India ci sono templi che ho visto e che sono costruiti per produrre, improvvisamente, non altro che oscurità compatta, solida, metafisica. Uno dei tanti che conosco è un tempio di Halebid nel Karnataka, un tempio abbandonato in una campagna bruciata, bianca, interminabile, con alberi sparsi, distanti qualche chilometro uno dall’altro e basta. 
Quel tempio è un’architettura aperta ma le basse colonne che sostengono gli strati di pietra del tetto-montagna sono così vicine una all’altra che in realtà tutta la struttura finisce per essere non altro che una trappola per imprigionare ombra e oscurità. In quel tempio, che da lontano, in quella campagna bianca, sembra una scatola piena di nero, la luce che riesce ad entrare tra le colonne si ferma subito; sbatte contro il muro solido dell’oscurità e cade per terra; diventa non altro che lunghi riflessi bluastri sulle pietre del pavimento, lucidato dalla cera di milioni di antiche candele e dai piedi nudi di meravigliose (spero) antiche ballerine.
Credo siano stati costruiti innumerevoli architetture, case, palazzi, templi, il cui tema semplice era la produzione di ombra; di un’ombra totale, misteriosa, un’ombra che diventa subito metafora visibile e tangibile della impenetrabile struttura dell’esistenza.
Forse era per esistere in queste architetture di buio che le divinità sumere avevano occhi immensi di madreperla: questo non lo so.
Mi è sempre venuto in mente che quegli occhi fossero così grandi per vedere dentro al buio profondo, per vedere là dentro dove non c’è luce, là dentro dove non si vede niente e dove alla fine non si capisce niente.»1

L’ombra non è assenza di luce. L’assenza di luce è il buio; l’ombra è assenza di radiazione diretta e si ha quando un corpo opaco viene interposto tra una sorgente luminosa e un piano illuminato. Di fatto, per ombra, si intende quella particolare condizione proiettiva che rende misurabile la luce. Parlando del rapporto che intercorre tra architettura e ombra Louis Kahn condensa il concetto in un’immagine: «La nostra è un’opera d’ombra […] il sole non conosceva la propria grandezza fino a quando non incontrò il fianco di un edificio»2.

A metà degli anni Cinquanta un Le Corbusier settantenne, che nei suoi scritti privati fantastica di farsi chiamare papà Corbu dalle nuove generazioni di architetti che ha contribuito a formare, consacra all’ombra un intero edificio: si tratta di una grata tridimensionale di cemento armato posta al centro del Campidoglio di Chandigarh: un monumento senza scale, porte, senza pareti né solai; uno scheletro il cui unico scopo è proiettare la propria immagine sul terreno. Verso la fine della sua vita, nel momento in cui si trova a confrontarsi con il piano urbanistico di una città costruita ex novo al centro del Punjab, il maestro del Movimento Moderno trova la meridiana del suo progetto in un edificio senza funzione.

Trentacinque anni dopo Francesco Venezia, all’interno di uno studio dedicato alla torre d’Ombre di Le Corbusier3, afferma: «L’ombra fa parte della realtà del corpo che la proietta ed ha però il fascino dell’apparenza: è realtà in quanto effetto teoreticamente prevedibile, matematicamente calcolabile, è apparenza in quanto legata all’imprevedibile verificarsi di altre circostanze che ne rendono precaria l’esistenza e l’intensità. 

Come per le ombre, il progetto predispone le regole, traccia un piano di previsione degli esiti. Si disegna la metà dell’edificio totale, quella immutabile.

L’architettura diviene dinamica.»

L’esperienza dell’ombra in architettura è il tentativo da parte dell’uomo di appropriarsi dell’alternanza tra giorno e notte; l’illusione del progettista di detenere il controllo. L’esperienza della luce solare si oppone al neon della città contemporanea: luce nata per illuminare qualcosa o qualcuno in contrapposizione all’artificio autoreferenziale dell’insegna. Eppure ragionare sull’ombra, per un architetto, non vuol dire solo questo: ragionare sull’ombra consente all’architetto di appropriarsi dei segreti della luce.

È il 1963 quando Le Corbusier arriva a Chandigarh per l’inaugurazione della Sala dell’Assemblea. Il maestro è stato preciso riguardo all’orario in cui la cerimonia deve avere inizio; l’amministrazione ha assecondato la richiesta prendendola per il capriccio di un vecchio. Il Campidoglio della nuova capitale del Punjab è concluso: la torre d’Ombre proietta la sua sagoma sulla lastra della piazza resa incandescente dalla luce.

Le Corbusier avanza lungo il corridoio centrale. Il suo aspetto coincide con l’icona: gli occhiali neri, il cravattino, il volto magro e allungato. «Il lavoro non è una punizione» ha annotato ieri sera sul retro di un disegno. «Lavorare significa respirare! Respirare è una funzione straordinariamente regolare: né più forte, né più debole ma costante. La costanza è una definizione della vita.» 

Le Corbusier fa qualche passo e si ferma, controlla l’orologio. L’entourage che lo segue lo osserva perplesso. Il corridoio sta per finire. Il percorso termina in un grande spazio circolare dove è riunita l’assemblea; dal rosso scarlatto e dal giallo delle pareti emergono forme organiche, ovuli di calcestruzzo lasciato a vista, bassorilievi e decorazioni che non fanno riferimento che a una sola tradizione: quella iniziata dal maestro.

È ipotizzabile che nessuno dei presenti, nel momento in cui Le Corbusier sale sul palco posto sotto il lucernaio che sovrasta la sala, sia al corrente di un fenomeno che l’architetto ha a lungo studiato: alle 12 solari di ogni 21 aprile, anniversario della fondazione di Roma, un fascio di luce colpisce il portone d’ingresso del Pantheon rivolto a nord, trasformando per alcuni istanti la nicchia che gli sta di fronte, nient’altro che una solida curva d’ombra, in uno specchio di luce.

  1. Ettore Sottsass, Di chi sono le case vuote?, Adelphi, 2021 ↩︎
  2. Architettura è. Louis I. Kahn, gli scritti, a cura di Maria Bonaiti, Milano, Electa, 2002. ↩︎
  3. Francesco Venezia, La torre d’Ombre o L’architettura delle apparenze reali, Arsenale Editrice, Venezia 1988 ↩︎

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