Fire Ireland

di Greg Thorpe

Tradotto da Aurora Dell’Oro

© Distante da me 02, Paola Francesca Barone

Nella storia che sto scrivendo su Roger Casement, i suoi amanti lo chiamano ‘Roddy’, sempre che gli diano un nome. Roger se ne va in giro con il suo kit personale di igiene intima e con un lubrificante fatto in casa che contiene miele e glicerina. È vero. Sto elaborando la mia infatuazione per Roger scrivendo e parlando sempre di lui. L’altra settimana sono passato alla National Gallery e ho chiesto se il ritratto di Casement fosse al momento in mostra.

«Non lo è, mi dispiace» mi ha consolato la donna gentile al bancone. «Nemmeno quello di Graham Norton, temo».

Pedalo allora fino a Dún Laoghaire per vedere la statua di Roger, e una volta là mi viene l’idea di una storia che sarà frammentata ed erotica e che probabilmente non finirò mai di scrivere. Osservo un gabbiano che si posa sulla testa di Roger, prima di lasciare andare una striscia scivolosa di escrementi neri e bianchi sulla spalla di bronzo della sua giacca. Sto rileggendo i diari di Casement nell’ambito delle narrazioni sull’AIDS. Roger va in Congo e si prende qualcosa che alla fine lo condurrà alla morte (nel suo caso, un solido Repubblicanesimo irlandese). Il Congo è anche il luogo in cui un virus immunodepressore che colpisce le scimmie si trasforma in un virus immunodepressore che colpisce gli uomini, quando passa da un primate a una persona all’inizio del 1900.

Come molti resoconti che risalgono agli anni della peste, dal 1981 al 1996, quando ancora non erano stati trovati dei trattamenti efficaci, i diari di Casement di un secolo prima alternano momenti di gioiosa promiscuità ad altri di cattiva salute: emorroidi, sudori notturni, mal di stomaco, adescamenti di uomini, sodomia, irrefrenabilità. Qualche volta Roddy si fa tre uomini in un giorno. The Black Diaries sono i Waterfront Journals di David Wojnarowicz con un bastone da passeggio e un orologio da taschino. Non so bene dove voglio andare a parare con questa storia di Casement, sto solo cercando di prendere le misure, che poi è come iniziano le mie storie, e qualche volta come finiscono bruscamente. Mi sento ispirato dalla Venere nera di Angela Carter, che racconta la storia di Jeanne Duval, la leggendaria amante creola di Baudelaire, e che si chiude con queste righe:

E fino alla fine, in età molto avanzata, quando il male alle ossa la piegherà per sempre, quando un corteo di fanciulle in lacrime l’accompagnerà al cimitero, fino alla fine Jeanne continuerà ad elargire agli amministratori più privilegiati della colonia, a un prezzo abbastanza contenuto – signore e signori – la più vera, autentica, genuina, baudelairiana sifilide1.

L’AIDS di Roger è lo spettro metaforico al centro della mia storia, ma di cosa è metafora? Me lo chiedo mentre guardo la sua statua sudicia, messa non su una strada cittadina o in una piazza, ma proprio ai margini dell’isola, nel caso in cui cambiassimo idea su di lui e ce ne potessimo sbarazzare con discrezione.

*

Vivo da solo a Dublino, leggendo l’Ulisse e The Black Diaries, conducendo una ricerca sulla mia storia familiare, organizzando un festival sul cinema queer, e provando ad accettare l’ictus che ha quasi tolto a mia zia la capacità di parlare e muoversi. Per me la sua voce era la sua identità: un pesante accento dublinese, pieno di fumo e saggezza. Sono in lutto.

«Con chi parlerò di Dublino ora?» chiede mia madre. Parla di Dublino con gli altri suoi fratelli, ma non è lo stesso. Cerca sempre di proteggerli. I ricordi riaffiorano ugualmente, e alcuni sono delle chicche. Pochi anni fa, suo fratello Eamonn è venuto a farci visita. Io ero seduto nella stanza insieme a loro, leggendo e origliando. Mamma tagliava i capelli di Eamonn, come fa sempre con i suoi fratelli, proprio come faceva quando erano piccoli, solo che ora hanno superato entrambi i sessant’anni.

«Eamonn, dove viveva Pa a Dublino quando l’appartamento è stato svaligiato?»

«Non lo so, Jean».

«Non ti ricordi quando sono entrati i ladri?»

«Jean, quelli non erano ladri, a rubare è stato uno dei tizi che si portava a casa».

«Quali tizi?»

«Jean, lo sai che Pa era bisessuale, vero?»

Questo è il modo in cui di solito scopro ciò che riguarda la mia famiglia, ma persino momenti simili possono scomparire, le memorie si possono sopprimere o seppellire con il tempo, lasciandoti con una manciata di misteri, facendoti sentire come se li avessi inventati tu. Come l’esperimento con la tavola ouija, che una volta i fratelli tennero in casa, costringendo il più giovane, Rory, a uscire dal letto per unirsi al loro cerchio di occultisti sul tappeto. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto per evocare lo spirito, guardarono dietro di loro lo specchio dell’armadio e lì riflesso c’era il piccolo Rory, ancora inspiegabilmente seduto sul letto, come se lo specchio avesse in qualche modo scattato una fotografia di qualche istante prima. Ci è stato detto di non giocherellare con la tavola oujia per questo motivo. Oggi nessuno riesce a ricordarsi questa storia tranne me. (E poi, il Nonno non vide forse una palla di fuoco volare per le strade di Camden?)

Perciò Nonno era bisessuale, e suo fratello Artie non si sposò mai, né la loro bella sorella Nellie, e un’altra sorella rimase vedova la prima notte di nozze, e l’altra, la povera Vera, morì al Grangegorman, il manicomio. La famiglia ricorda che accadde quando era una ragazza, ma ho scoperto che visse fino a 31 anni.

© Questo è il mio corpo non prendetene e non mangiatene tutti, Paola Francesca Barone

Prima che le venisse l’ictus, avevo mandato il certificato di morte di Vera a Zia Dee, perché non riuscivo a leggere la grafia. Dee ci riusciva, gli scarabocchi in Gaelico le erano famigliari. Mi ha scritto per email la causa della morte. Tubercolosi polmonare. Diagnosi di deficienza cardiaca. Vera non era giovane per avere un infarto? Denutrizione forse, ha risposto Dee. Molto probabilmente si lasciò morire per uscire dal Grangegorman. Vera precorreva i tempi. Ci sono manifesti per tutta Dublino con scritto ‘Grangegorman’, perché ora la TU Dublin (Technology University Dublin, N.d.T.) si trova lì. Rabbrividisco quando leggo il nome, perché mi ricorda un film dell’orrore. Alcuni toponimi di Dublino sono gotici e crudeli perché se n’è sempre parlato con paura e disperazione: Mount Jerome, Saint Vincent, The Coombe, Crumlin, Dolphin’s Barn, Leopardstown.

*

Sono nato sull’Isola di Man, che nel mio accento è omofono di ‘amo un uomo’, ma sono stato cresciuto a Blackpool, la mecca gay nel nord dell’Inghilterra, e Blackpool in Irlandese è ‘dubh linn’, o Dublino. Anche la lingua indigena di Man è il Gaelico, a causa dei missionari irlandesi che vi si erano stabiliti, seguaci di San Patrizio. L’Isola di Man, un minuscolo possedimento della Corona britannica, è più o meno equidistante da Dublino e Blackpool, posta nel Mar Irlandese. L’omosessualità fu decriminalizzata nel 1992, un anno prima rispetto all’Irlanda. La prima cosa omosessuale che ricordo di avere visto furono due bellocci che si stringevano in una copia di The Watchtower che un giorno finì davanti alla porta di casa nostra a Blackpool. Il trafiletto accanto avvertiva che l’omosessualità era una tentazione, e, amico, avevano proprio ragione. Ero intrigato dall’inspiegabile vicinanza fisica dei due uomini, e dal fatto che indossassero i pantaloni del pigiama, ma non le camicie. Che tipo di eterosessuale descrive il sesso gay come una ‘tentazione’ e perché hanno dei corpi così belli? Poi ci fu la coppia gay nel parco in Io e Annie che Dee mi fece guardare, intorno ai tredici anni. Ti ricordi quei gay?

«Guarda quei due. Oh, sono esilaranti» esclama Woody Allen. «Ritornano da Fire Island2. Si stanno dando una possibilità».

Fire Island? Darsi quale possibilità? A quel tempo ero ossessionato anche da tutto quello che aveva a che fare con gli anni Sessanta.

«Eri per i Beatles o per gli Stones?» ho chiesto una volta a Mamma.

«Ero per i Supremes, tesoro» ha risposto lei. Certe persone si meritano un figlio gay e Mamma è una di loro.

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© Distante da me 03, Paola Francesca Barone

A scuola, se qualcuno versava il latte o dava la risposta sbagliata, qualche volta veniva chiamato ‘Irlandese’. Un giorno un mio compagno telefonò a casa e, sentendo l’accento di Mamma, disse: «Non sapevo che tua Mamma fosse Americana!» e io risposi stupidamente: «Sì, e anche mio Papà lo è e sta a New York ed è per questo che non è qui». In ogni caso nessuno aveva un padre e niente poteva essere più imbarazzante che essere Irlandese, eccetto essere gay. Quando mio padre se ne andò, i miei zii arrivarono dall’Irlanda per aiutare mia madre e la vicina raccontò alla polizia che nella casa della signora irlandese dai capelli rossi entravano e uscivano degli strani uomini a tutte le ore e che non andava bene alla presenza dei bambini. Vedi, gli Irlandesi erano sospetti, eppure sciocchi; goffi, eppure abbastanza pericolosi da dare fuoco alle cose durante News at Ten.

Circa una settimana dopo che mio padre se ne fu andato, ritornò con la macchina sportiva della sua ragazza e diede a Mamma una bicicletta da vendere per farci qualche soldo. Non me lo ricordo, non avevo nemmeno due anni. Non molto tempo fa, la mia metà mi ha convinto a entrare in un negozio di biciclette con la scusa di “farsi controllare il cambio”. C’era invece ad aspettarmi una bicicletta nuova per il mio compleanno. Lui non poteva sapere quanto potesse essere potente l’associazione col mio ricordo d’infanzia, ma ho quasi pianto. Gli uomini possono regalarti biciclette per ogni genere di motivo.

Amo moltissimo Dublino, ma la mia ansia notturna aumenta ogni volta che mi trovo qui. Raddoppio la dose di Escitalopram fin dal momento in cui arrivo. Sono convinto che sia una specie di trauma epigenetico – ma potrei esagerare un po’. Non posso raccontarlo a Ma, se ne darebbe la colpa. Quando al cimitero mi hanno detto che non mi avrebbero aiutato (non avrebbero, non che non potessero farlo) a trovare la tomba senza nome di mia nonna Mary, ma che mi avrebbero volentieri venduto una mappa per 8 euro, ho provato delle emozioni nuove e terribili; emozioni cattoliche, credo. L’emozione proveniva dallo stomaco, lo stesso luogo da cui proviene la mia ansia notturna. Mi sono subito ricordato di mia madre che parlava di un prete che passava lentamente per le strade di Dolphin’s Barn nella sua auto, l’unica persona che conoscessero ad avere un’auto, e che indossava le scarpe più lucide di Dublino, andando di casa in casa per chiedere soldi per la chiesa. Mia madre, non ancora adolescente, nascondeva già ogni moneta che riusciva a trovare per evitare che finisse in alcol. Quando mi ha raccontato del prete, ho provato una rabbia spaventosa. Queste cose non ci succedono in Inghilterra, non siamo stati nemmeno battezzati. Ho dato a quelli del cimitero dieci fottuti euro per la mappa e gli ho detto di tenersi il resto. Alla fine ho trovato mia nonna senza il loro aiuto dopo tre giorni di ricerche.

*

Dee era solita raccontarmi che Zio Artie non sapeva nemmeno quanti anni avesse. Pensavo che fosse una specie di battuta sulla tenera semplicità della sua natura. In seguito ho trovato i documenti dell’iscrizione di Artie a scuola e in effetti dalla sua vita era stato spazzato via un anno, probabilmente per rimediare al fatto di avere saltato troppe lezioni, ma ciò gli tolse qualsiasi certezza sulle sue origini per il resto della sua solitaria esistenza. La nostra famiglia si era appena trasferita dalle baracche di Liberties a una vera casa popolare. È ancora in piedi, a Ceannt Fort. Sono appena stato a vederla, e a quanto pare oggi si trova in una zona ambita. Costerebbe una fortuna vivere lì, i miei parenti non ci crederebbero. I caseggiati in cui vissero (cinque, sette, nove per stanza) insieme ai loro genitori in uno stato di costante povertà, alcolismo e gravidanza, vennero abbattuti quando se ne andarono. Penso che siano rimasti alcuni fragili resti in Francis Street, dove il mio piccolo caffè mi è costato tre euro e cinquanta centesimi.

© Distante da me 01, Paola Francesca Barone

Mia prozia Nellie fu una di quei bambini di Francis Street. Da grande lavorò nella fabbrica di sigarette Player Wills, dal 1946, un anno dopo l’Emergenza, fino al 1969, l’anno della Rivolta di Stonewall e di Woodstock. Trovò anche a mia madre un lavoro da Player Wills, intorno al 1967, e Mamma lo odiò, ovviamente. Non ha mai fumato, tanto per iniziare. Un giorno sentì dire che cercavano persone dai capelli rossi negli studi cinematografici di Bray. Lasciò Player Wills e si ritrovò invece in film con gente come Stanley Baker, Tommy Steele e Susannah Yorke. All’improvviso e per la prima volta aveva del denaro, e così partì per una vacanza sull’Isola di Man e la amò. Ritornò a Dublino per salvare suo fratello minore, il bellissimo Rory, solo, gay e quasi impazzito nella sua camera di Finglas. Anche lui l’amava, sbocciò sull’Isola di Man. Entrambi trovarono lavoro. Un giorno Rory parlò timidamente a mia madre di un cuoco di bell’aspetto che lavorava nel suo hotel. Invitalo qui, rispose Mamma. Rory lo fece. Aveva ragione, il cuoco era bello. Era mio padre. Così lui e mia madre s’incontrarono. Da quel momento Mamma non tornò più in Irlanda, perciò si potrebbe dire che il cinema è la ragione per cui non sono cresciuto come un Irlandese.

*


Nel corso dei miei trent’anni sono stato spesso single e la tiravo per le lunghe con una serie di uomini in diverse città e scrivevo i loro nomi in una grande, lunga lista, e poi è uscito un film intitolato Weekend di Andrew Haigh e tutti gli uomini che frequentavo e con cui la tiravo per le lunghe sono andati a vederlo e mi hanno tutti scritto quasi nello stesso momento per dirmi, Qualcuno ha fatto un film su di te. Non era un complimento e perciò sono andato a vederlo anch’io e ho subito annullato la mia serata e tutti i miei appuntamenti e mi sono ripromesso che al primo uomo gentile, perbene e di bell’aspetto che avessi incontrato, che volesse rimanere nei paraggi, avrei aperto il mio cuore e forse qualcos’altro. Il primo, bellissimo uomo che ho incontrato si chiamava Oisıń e aveva lavorato al film Weekend e vi aveva fatto una comparsa e aveva scattato anche delle foto e mi ha portato a Dublino per potere presentare il film al GAZE Film Festival e per mostrare le sue fotografie e quello è stato il mio primo GAZE. Stiamo insieme da undici anni e ora organizzo il GAZE, e perciò si può dire che il cinema è la ragione per cui sono tornato in Irlanda, e 10 mg dovrebbero bastare per farmi superare la notte e anche quella di domani e finalmente è stata messa una lapide sulla tomba di mia nonna.

Ringraziamo l’autore e la redazione di «Banshee» per avere acconsentito alla traduzione e pubblicazione su «In Allarmata Radura». Il testo originale, uscito su «Banshee», Issue n. 15, Spring/Summer 2023, si può leggere anche qui: https://bansheepress.org/read/fire-ireland-by-greg-thorpe

Greg Thorpe è scrittore freelance e produttore creativo. Suoi racconti sono apparsi in The Stinging Fly, Best British Short Stories, Foglifter e Aesthetica. È direttore del festival GAZE International LGBTQIA Film festival. Vive a Todmorden, nello Yorkshire occidentale.

Le immagini danno piacere attraverso la rappresentazione dei corpi, mai riducibili alla loro pura esteriorità. Negli scatti della fotografa Paola Francesca Barone il pieno e il vuoto si somigliano nell’attesa dello sguardo dell’altro: un’infinita quête d’amore. Esiste ciò che l’occhio vede, poi quello che il dispositivo vede e infine ciò che viene colto da chi guarda l’opera artistica. Sul filo di tale processo triadico, i soggetti si muovono disorientati nelle stanze del corpo, disordinano i momenti di vergogna e quelli di gloria, non si ricordano più quando, iniziano a percepirne la somiglianza. In postproduzione il mistero si forma nelle tonalità dell’azzurro-grigio mercurio, nella sfocatura, nella sovrapposizione di linee che sfigurano il contegno formale. La memoria è un elemento somatico: i colpi echeggiano nel vuoto, nel pieno risponde la struttura solida e muscolare. Il naturale impulso della carne alla gioia riformulerà le domande. 

Maria Teresa Rovitto

Paola Francesca Barone. Pugliese e arbereshe d’origine, di formazione umanistica, fotografa autodidatta. Scatta in digitale e percorre trasversalmente vari generi, intercettandone i punti di contatto e rimarcandone il tratto peculiare atto a veicolare ora la dimensione emotivo-intimista ora quella socio-speculativa. I suoi soggetti e le tematiche sono legati prevalentemente al mondo femminile e ne indagano (anche e soprattutto attraverso l’autoritratto) lo scarto esistente tra la dimensione interiore, psicologica e quella esteriore, sociale. Segue la poetica della “leggerezza” procedendo per sottrazione degli elementi grafici per inseguire l’amalgama delle percezioni visive ed emotive. I suoi lavori scaturiscono spesso da testi autografi.

  1. Angela Carter, Venere nera (1985), trad. di Barbara Lanati, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 31. ↩︎
  2. Fire Island è la più grande delle isole antistanti la riva sud di Long Island. Negli anni Sessanta la sua comunità gay è cresciuta esponenzialmente. ↩︎

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