di Livia Del Gaudio

© Paola Francesca Barone
Una forma di consapevolezza
Amore e morte in Camere separate di Pier Vittorio Tondelli (passando per quello che so dell’AIDS)
di Livia Del Gaudio
La parabola artistica di Pier Vittorio Tondelli rappresenta un paradosso. Arrivato presto alla pubblicazione e presto al successo, si presenta nel panorama editoriale italiano degli anni Ottanta come uno scrittore maturo, completo già dal principio, capace di leggere la realtà e reinterpretarla con una voce che prende presto i connotati di un marchio generazionale. Una riconoscibilità che, con il passare degli anni, diventa sempre più fumosa fino a destrutturarsi in una ricerca estetica e tematica molto meno decifrabile1. All’interno di questa frattura nel percorso tondelliano si colloca Camere separate2.
Romanzo di difficile definizione, Camere separate si pone volutamente in una zona ambigua tra finzione e realtà dove rielaborazione del frammento esperienziale, riflessione di derivazione analitica, dimensione spirituale si intrecciano in un impianto narrativo singolare in cui la voce del narratore e del protagonista si sovrappongono con un effetto di dissolvenza dell’io che va di pari passo con la ricerca per eccellenza, quella della creatura amata. Il conflitto ingaggiato tra Eros e Thanatos, che pervade l’opera già dall’incipit, assume qui un significato particolare: nel caso di Tondelli l’oggetto amato è infatti una poetica, una visione del mondo e, attraverso questa, una precisa configurazione del ruolo di intellettuale.
Il testo che segue vede in Camere separate un cortocircuito tra identità e scrittura, e in quest’ottica va interpretato. Per questo il libero accostamento tra storia dell’AIDS e citazioni tratte dal romanzo è da intendersi come ricerca ritmica, suono evocativo e non materia biografica: che durante la stesura del libro Tondelli fosse conscio o meno della sua malattia e della fine imminente non importa: tutto questo riguarda l’uomo, non lo scrittore. Accostare Camere separate allo spiraglio di Greg Thorpe Fire Ireland e quindi ai miei personali ricordi legati all’AIDS, nasce dall’intuizione che entrambe le scritture, quella di Thorpe e quella di Tondelli, lavorino intrecciando storie all’interno della Storia, proponendo al lettore date e luoghi che si ripetono, cicli che tornano. Come simboli o come semplice frutto del caso non è dato sapere.
E, forse, non è così importante saperlo.
_________________________
Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo in volo fra Parigi e Monaco di Baviera.
All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano o arancione zen.
È il 5 giugno 1981 quando un gruppo di ricercatori di Atlanta, insospettiti dal ripetersi di casi di polmonite da Pneumocystis jirovecii all’interno della comunità gay di Los Angeles, riconoscono per la prima volta un virus che in un primo momento non ha un nome, ma che presto verrà conosciuto con la sigla HIV-1.
Spesso confuso con la malattia a esso associata, AIDS, HIV è un virus di difficile trasmissione. Maturato all’interno di alcuni primati, e forse per questo rimasto a covare per almeno un centinaio di anni in una sacca calda, isolata delle foreste del Congo, fa la sua comparsa nella storia della razza umana probabilmente intorno al 1920. Il primo infetto è un viaggiatore diretto a Léopoldville, l’attuale Kinshasa; uno dei tanti europei che in quegli anni cercano l’Africa come risarcimento a una vita che li vuole in catene. Il contatto tra uomo e scimpanzé avviene durante una battuta di caccia: a una morte se ne sostituisce un’altra, e questo mi sembra importante perché quel sangue infetto, che passa di ferita in ferita, assomiglia fin dall’inizio a quello che sarà AIDS nell’Occidente degli anni Novanta: uno spalancarsi della morte, un assottigliarsi fino a svanire di quella sottile pellicola che chiamiamo realtà.
Come sarà il mio nuovo amore, si era chiesto innumerevoli volte Leo non appena aveva deciso di farla finita una volta per tutte con Hermann, una decisione di separazione che in realtà era durata più di un anno e mezzo per via delle inevitabili ricadute, della passione che tardava a scomparire, degli impulsi del suo corpo. Con quale aspetto amore verrà da me, in quale corpo si mostrerà di nuovo? Poiché l’amore è unico, pensa Leo, e comprende in sé Hermann, o il suo ricordo, e ogni esperienza di là da venire. L’amore è assoluto, non si può comandare, accelerare, evitare, guidare. L’amore è totalità e pienezza. Per questo Leo sapeva che sarebbe di nuovo tornato a lui, ma quello che non sapeva era appunto il modo, l’accadimento con il quale amore avrebbe mostrato, di nuovo, il proprio volto. E ora, disteso accanto al corpo accaldato di Thomas conosce il viso con il quale amore è di nuovo venuto a toccargli la vita.
Dall’Africa HIV passa a Haiti. Nel 1969 fa il suo ingresso in America. Lungo le colline della California, attraverso le strade cantate da Kerouac, il virus prende la velocità del paese che lo ospita. Si annida dentro corpi che non conoscono la fame e, in poco più di dieci anni, riesce in ciò che la foresta gli aveva impedito: colmare la distanza tra esistenza e contagio.
Cominciano a nascere le prime teorie sulle cause. La trasmissione, si dice, è favorita da infezione da Cytomegalovirus, uso di droghe, eccessiva stimolazione del sistema immunitario. L’ipotesi più accreditata è che HIV colpisca soltanto gli omosessuali. Sui quotidiani nazionali si leggono espressioni come “immunodeficienza gay-correlata (Grid)”; “cancro dei gay”; “disfunzione immunitaria acquisita”. The Lancet parla di “gay compromise syndrome”. I conservatori tirano un sospiro di sollievo, la cosa non li riguarda, la malattia è la mano del Padre che divide il grano dal loglio, il giusto dallo sbagliato, ciò che è naturale da ciò che naturale non è; ma è qui che il virus muove il suo colpo di coda: il 1982 si chiude con la morte per trasfusione infetta di un bambino emofilico seguita dal primo caso di trasmissione materno-fetale.
Il cancro dei gay diventa il male di tutti.
Sapeva, fin dall’inizio, che mai lui avrebbe potuto essere “tutto”. Per questo chiamava il loro amore “camere separate”. Lui viveva il contatto con Thomas come sapendo, intimamente, che prima o poi si sarebbero lasciati. La separazione era una forza costitutiva della loro relazione e ne faceva parte analogamente all’idea di attrazione, di crescita, di desiderio sessuale. Era una consapevolezza che se non impediva l’abbandono, lo rendeva più umano. Con Hermann mai aveva sentito la morte così vicina al suo amore. Con Thomas sentiva la morte solo in relazione alla vita.
La prima volta che vedo qualcuno morire di AIDS ho dodici anni. In realtà non assisto a una morte ma a un funerale.
L’uomo dentro la bara si chiama Antonio. A me sembra un uomo ma ha poco più di trent’anni. Nella sua vita, oltre ad aver lavorato come assistente tecnico nei laboratori di un istituto professionale, ha scritto brevi poesie e, soprattutto, per un po’ si è iniettato eroina in vena insieme ad altri che come lui hanno l’abitudine di non cambiare siringa. Negli anni Novanta, se hai l’AIDS e non sei fortunato a morire prima di polmonite o di cancro, ti può capitare di finire i tuoi giorni cieco. Per questo conosco Antonio, perché mia madre lavora all’Istituto dei ciechi della città dove vivo.
L’idea che non dev’essermi risparmiato nulla dell’orrore del mondo fa parte del modo in cui sono stata cresciuta: negli ultimi mesi sono stata più volte a casa di Antonio, ho conosciuto la sua famiglia, ho mangiato con loro. Lo spot della campagna di prevenzione contro l’AIDS commissionato dal Ministero della Sanità è del 1990; ogni volta che mi siedo nella cucina di Antonio vedo un’aura viola agitarsi intorno alle cose, uno spettro che mi pesa sulle spalle e mi impone di curvare la schiena, guardarmi le scarpe. Mangio pochissimo. Tocco la forchetta quel tanto che basta a sentirne il freddo, la sensazione dei rebbi affilati che spingono contro il palato.
Otto anni più tardi sono seduta su una sedia di plastica e aspetto il mio turno.
La sedia è la stessa dell’ultima volta.
Il disagio che provo anche, identico a quello che proverò a venticinque anni, prima di essere operata di appendicite, e poi a trentaquattro e trentotto, durante gli esami di profilassi che precedono il parto. Controllo il foglio che tengo piegato in tasca, ormai scaduto, dove svetta in grassetto la parola negativo, quella in cui qui sperano tutti. Do un’occhiata alla stanza. L’ambulatorio dove si effettuano i test si trova in un padiglione distaccato dell’ospedale, proprio davanti all’ingresso. Ha l’aspetto di un prefabbricato, e forse lo è; le pareti, ora che le osservo meglio, sembrano fatte della lamiera ondulata dei container, e anche gli infissi hanno qualcosa di provvisorio, come quelli dei camper. Non guardo nessuno, e nessuno mi guarda.
Il giorno del funerale di Antonio non c’è molta gente. È questo quello che pensa la me dodicenne voltandosi verso l’ingresso e contando le file di panche vuote; forse cinquanta, sessanta persone, non abbastanza da riempire la grande chiesa del quartiere, un edificio neogotico di fine Ottocento fatto solo di guglie. La famiglia di Antonio è calabrese. Di loro c’è solo la madre e una zia, venuta apposta da Torino. Saranno le dieci o le undici di un giorno feriale; l’edificio affaccia sulla strada trafficata che divide la città dal porto, un’arteria che attraversa Genova e che, come una diga, la separa dal mare; il rumore del traffico arriva attutito, eppure arriva anche qui.
La porta si apre e l’infermiera chiama il mio nome. Sono di nuovo io, la me di vent’anni. Faccio per rimettere il foglio in tasca ma poi ci ripenso e lo strappo a metà.
In una delle sue poesie, mi viene in mente all’improvviso, Antonio parlava di un tuffo. Di uno scoglio a forma di elefante dove si arrampicava da bambino e dal quale qualcuno, una volta, lo ha spinto.
Allora lui provò per un istante la intima e commossa gioia di poter vegliare sul sonno di quelle centinaia di giovani e che forse, se aveva perso la coincidenza a Atene, se si trovava in viaggio da tanti giorni, se era imbarcato proprio su quella nave e non su di un’altra era perché doveva raggiungere quella panca di ferro verniciata di bianco e poter guardare lo spettacolo di una gioventù soddisfatta e tranquilla come mai e poi mai era stata la sua. Quei giovani lui li conosceva bene, anche se non li aveva mai incontrati prima, né con ogni probabilità li avrebbe più rivisti, fosse pure vissuto altri mille anni. Né loro, mai, si sarebbero ricordati di quel giovane uomo seduto come a teatro, con gli occhiali di tartaruga, una sigaretta, rollata con le dita, perennemente accesa fra le labbra, riparato dal freddo solo da un telo da bagno turchese che continuava a sistemarsi, insoddisfatto, sulle spalle. Eppure, proprio per questo, lui ebbe, alla luce di quelle stelle e di quella luna mediterranea e gelida, la consapevolezza che il suo destino era proprio questo, di vegliare e di raccontare.