La stessa sera d’estate

di Fabiana Castellino

© Rossana Castellino

La terrazza della casa non conosce il sole prima di mezzogiorno. È fresca, la mattina. L’ombra si allunga oltre il sedile che separa la terrazza dal giardino. Gli alberi e l’erba sono pieni di rugiada e di tutto ciò che ha lasciato la notte. Piccoli uccelli cantano fra i rami. La palma del vicino è sempre più alta, oscilla pericolosamente, non minaccia davvero il giardino. 

Il pomeriggio l’ombra sale fino al tetto e poi scompare.                

La sera è tiepida. Gli uccelli si affrettano sui rami. Le tortore volano sulla palma del vicino e osservano. Pipistrelli ondeggiano intorno alle luci accese, il geco compare a testa in giù. Un gatto ogni sera diverso si stende sul sedile e ci guarda. Io e le mie sorelle siamo sole. Ci affaccendiamo intorno al tavolo sulla terrazza. I piatti compaiono e scompaiono, si prende il pane, si fanno cadere le briciole sul prato. Le luci del giardino illuminano le facce sui tronchi degli alberi.      

Liberiamo il tavolo e ci sediamo con tutto ciò che serve. La civetta non canta, non scappa. Avverte. 

«Senti? Ha preso il topo».

*

Mia nonna aspettava le sue sorelle ogni estate. Restava davanti al cancello con il vestito di casa e il grembiule. Sollevava le braccia sopra la testa e le agitava quando la macchina era ancora un punto in fondo alla strada. Le sorelle scendevano dalla macchina e finalmente le braccia di mia nonna riposavano sulle loro spalle. Sorridevano tutte, camminavano dondolandosi sulle gambe gonfie, e mia nonna diventava una sconosciuta. O quello che era davvero, o forse entrambe le cose.

Le sorelle di mia nonna arrivavano cariche di vassoi di dolci che non esistevano dove noi vivevamo. Richiamavano sulla terrazza nipoti, cugine, figlie, per guardarsi, ricordarsi, riconoscersi. 

Io giravo intorno al tavolo e chiedevo l’età di tutte. Immaginavo le loro vite come lunghe corde da stendere una dopo l’altra, per camminarci sopra come un equilibrista. Mia nonna e le sue sorelle erano trecento anni da percorrere.     

*

Il tavolo adesso è vuoto. Mia sorella minore ha preso il mazzo di carte e lo mette al centro. Mia sorella maggiore le siede di fronte, scrive i nostri nomi su un foglietto. Le dico subito di cancellare il mio, e mi siedo fra loro. Le mie sorelle mi guardano, non dicono niente. Mi conoscono.

*

© Rossana Castellino

Abbiamo imparato a giocare a carte non appena saputo far di conto. Ci hanno insegnato mia nonna e le sue sorelle. Nessuno sa da dove derivasse il gioco, se dal loro padre o dai loro mariti. Sembrava che le sorelle di mia nonna arrivassero solo per sedersi intorno al tavolo con le carte al centro. Potevamo trovarle così già dal mattino, con indosso la camicia da notte e l’odore del caffè. 

Ci hanno insegnato i tris, i poker, le scale; che i jolly vanno usati con parsimonia, che quel che non serve si brucia, e ciò che non si vede è un vantaggio per l’avversario. Ma più di tutto, sappiamo che nel gioco è la fortuna che conta. Nulla dipende dalla strategia, dai trucchi, dall’attenzione; solo dalle carte che si pescano, che si combinano con quelle che si hanno in mano. 

Il gioco è fortuna. Nulla è in nostro potere.

*

Chi pesca la carta più alta deve mescolare, poi distribuire le carte. Prima all’avversario, poi a sé stessi, una per volta. Se si gioca in più persone, le carte seguono un giro antiorario. 

Le mie sorelle pescano ognuna una carta dal mazzo. Tocca a mia sorella maggiore.

Afferra le carte e le sorregge morbide in una mano. Con l’altra ne prende un mucchietto e lo mette al centro del mazzo, tante volte finché non è sufficiente. 

Le carte fanno un rumore che conosco. Hanno un ritmo antico, lo ripeto nella testa anche quando mia sorella smette di mescolare. Mia sorella minore batte piano i polpastrelli mentre aspetta. 

È la stessa sera d’estate che si ripete all’infinito.

*

© Rossana Castellino

Abbiamo giocato a carte scoperte solo una volta, la prima. Mia nonna e le sue sorelle dicevano che era il modo migliore per imparare. Quando abbiamo coperto le carte mi cadevano dalle mani, dovevo raccoglierle da terra e pulirle dalle formiche.

«Le carte non si fanno vedere!»

«Ma è solo una.»

«Non importa. Abbiamo già un vantaggio su di te.»

Dietro il muro di carte ci hanno insegnato la faccia del giocatore. Una faccia che non mente, non tradisce, non si muove. È la faccia che non svela nulla.

Mia nonna e le sue sorelle non hanno mai barato e non ci hanno mai fatto vincere. Si impara perdendo, dicevano.

Fino a quando non abbiamo imparato a giocare senza sbagliare non potevamo partecipare alle partite importanti. Guardavamo e non dicevamo nulla, per non falsare il gioco.

C’erano tutte le figlie, le nipoti e le cugine insieme a mia nonna e alle sue sorelle. Alzavano ognuna una carta, chi pescava la più alta iniziava la partita. E le mani delle mie zie, di mia nonna e mia madre, e delle nipoti e delle cugine si somigliavano tutte, battevano allo stesso modo, identiche si passavano le carte. Erano un’unica grande mano che scopriva le carte, le dita che si muovevano secondo un ritmo preciso. 

Pesca. Faglia, aspetta. Pesca. Prendi, aspetta, tira. Pesca, apri. Aspetta. Aspetta. Qualcuno chiude. Conta. Segna i punti. Mescola. Pesca, faglia, aspetta. Pesca, tira…

*

In Immortalità, Kundera racconta di un furto. La sorella minore Laura ruba alla sorella maggiore Agnes un gesto.

In realtà, quel gesto è a sua volta rubato. Agnes guarda dalla finestra la segretaria del padre uscire dalla loro casa. La donna percorre il vialetto di casa, e poi si volta, alza il braccio “con un movimento inatteso, leggero e flessuoso”1. Quel gesto rimane dentro Agnes, lei ne ignora la presenza. Poi, una sera, prima di salutare un suo compagno di classe ed entrare in casa, Agnes si volta e, come se fosse suo, replica il gesto della segretaria. Quel saluto ormai le appartiene, e smette di usarlo solo quando scopre la sorella Laura salutare allo stesso modo un’amica. Agnes non avrebbe dovuto stupirsi di vedersi sottrarre qualcosa che era già stato rubato; non sappiamo nemmeno se Laura abbia osservato la sorella e deciso di rubare il suo gesto, o se fosse già dentro di lei, ancora prima che Agnes decidesse di usarlo. Il punto è che l’origine del gesto è andata perduta. Non è né di Agnes né di Laura, né di chi le ha precedute. È delle sorelle. Il gesto, da spontaneo, allegro, sensuale, è diventato tragico, doppio. Costituisce due identità diverse, eppure le lega indissolubilmente, una corda che le attraversa, impossibile scorgerne il capo. 

*

© Rossana Castellino

Il gioco è cominciato. Le mie sorelle tengono in mano il loro ventaglio di carte, le lanciano a turno, poggiano sul tavolo scale e tris, bruciano poker. Io questa volta non partecipo, sto solo a guardare. Osservo le mani delle mie sorelle. Mia sorella maggiore ha i polpastrelli grigi di grafite, lascia le impronte sulle carte. Mia sorella minore ha una melodia precisa in testa, batte tasti invisibili sul tavolo, sul pavimento. Non ci sono zie o cugine intorno a noi. Abbiamo trascorso la giornata insieme, ognuna immersa in sé stessa. Sul tavolo c’erano i disegni e le matite di mia sorella maggiore; mia sorella minore ha trascinato la tastiera sulla terrazza e suonato tutto il pomeriggio, altrimenti non riusciamo a concentrarci. I miei libri sono ancora sparsi su qualche sedia, hanno scritto i nomi sul foglietto con una delle mie penne. La sera abbiamo preso le carte, guidate dall’abitudine.

Cerco di grattare via l’inchiostro sotto le unghie. Tengo in mano un mazzo di carte più piccolo, ogni tanto mescolo senza pensarci troppo, mi interrompo, ricomincio. 

Il gioco fra le mie sorelle diventa sempre più veloce. Aprono e chiudono, segnano i punti. Nessuna prevale davvero sull’altra, si inseguono. Mescolano le carte, distribuiscono, aprono il loro ventaglio. Le dita si rigirano le carte con una maestria che possiedo anche io, ma che non ho voglia di usare. Le mani delle mie sorelle d’un tratto si amalgamano, si confondono, non sono più le loro. Non hanno più la grafite sui polpastrelli; non battono più sul tavolo la melodia che hanno suonato tutto il giorno. Sono un’unica grande mano che gioca a carte dall’inizio dell’estate. Sono tutte le mani che hanno giocato su quel tavolo. 

*

Mia nonna era la seconda di quattro sorelle. La sorellanza più antica e numerosa. 

Io sono la seconda di tre sorelle. Adesso siamo noi la sorellanza più numerosa.

Dietro al muro di carte si parlava di tutto per non parlare del gioco. Mentre le mani si muovevano fra le carte, mia nonna e le sue sorelle raccontavano dei mariti morti, dei fratelli partiti, dei figli che avevano tradito. Volti dimenticati, mai conosciuti popolavano la terrazza, spiavano le carte, attendevano con noi la fine della partita. 

Mia nonna e le sue sorelle guardavano le figlie, le nipoti e le cugine dal muro di carte e sembravano cercare qualcosa. Guardavano me e le mie sorelle finché non trovavano quel che cercavano. Eravamo un unico individuo diviso in tre corpi.

A qualsiasi cosa io e le mie sorelle raccontassimo loro rispondevano «Siete come il nonno», «Siete come lo zio», «Siete come quel cugino» e tutto riacquistava un ordine. Eravamo identiche ai mariti morti, ai fratelli partiti, ai figli che avevano tradito. 

Se dicevamo che potevamo essere solo noi, loro dicevano «Non dipende da voi. È così. Dipende da quello che vi capita».

*

Le mie sorelle continuano a giocare e non si accorgono delle loro mani. 

Smetto di mescolare e poso il piccolo mazzo davanti a me. Le mie carte sono lontane da quelle delle mie sorelle, non disturbano il gioco. Sistemo le carte così da formare una piramide, alcune sono coperte, altre scoperte. 

I solitari sono pura fortuna. Ancora più che nei giochi, nei solitari non esiste un modo per vincere, non ci sono compromessi. I solitari sono onesti. 

Le mie mani si muovono veloci e non so più se siano le mie o quelle della sorellanza che mi ha insegnato a giocare. 

Perdo il primo solitario, ne faccio un altro, perdo di nuovo. Le mie carte rompono il ritmo di quello delle mie sorelle, la dissonanza è evidente. Le mie sorelle mi guardano, sanno che cosa sta succedendo. Mi conoscono.

I solitari mi permettono di guardarmi da fuori, di sollevarmi sulla corda che è la storia del mondo, ricordare.

*

© Rossana Castellino

Sto giocando con mia nonna e le sue sorelle. Stringo forte le carte perché non cadano a terra.

Le mie, di sorelle, non ci sono.

Ho tutte le carte in mano, mentre mia nonna e le sue sorelle hanno sul tavolo tris e poker, c’è anche qualche jolly. 

Le carte si piegano, i polpastrelli mi fanno male, e tutto quello che pesco non serve a niente. Le carte restano immobili, e mi sembra che abbiano un destino prevedibile; chiedo di smettere di giocare, che se si conosce già la fine non ne vale la pena.

«Allora perdi a tavolino.»     

«Non perdo, smetto.»

«È la stessa cosa.»

Continuo a giocare. D’un tratto pesco una carta che, se posta al centro del mio ventaglio può completare sia una scala che un tris. La tengo, aspetto e inizio a conservare tutte le carte che pesco, stravolgo il mio ventaglio.

Cambio i tris, le scale sono complete a metà, tutto quello che mi capita mi sta bene. Una carta è solo una carta possibile. Fra le mani ha due, dieci, non so più quanti modi di essere. Le combinazioni si formano da sole, il tavolo si riempie delle mie carte, le mani non mi fanno più male. Adesso anche io faccio parte del gioco, lo alimento, vado a tempo, mia nonna e le sue sorelle non dicono niente, sono concentrate. Perdo per un soffio.

«Brava! Hai imparato» dice una di loro.

«Certo, le abbiamo insegnato bene» scherza un’altra.

«La fortuna del principiante.»

E nessuna di loro sospetta di quel che è accaduto dietro il muro di carte, oltre la faccia che non si muove: ho rubato un gesto e adesso non è più di nessuno. Un gesto che ho solo osservato adesso è mio, identico, eppure non più lo stesso. Si ripeterà a ogni partita, ci riconosceremo in esso, le sue conseguenze saranno ogni volta diverse. La corda è recisa, e anche se cado, so ancora come camminare. 

*

«Che fai, nonna?»

«La piega ai capelli.»

«Serve un’ora per i tuoi capelli?»

«Sì.»

«Perché?»

«Per non pensare alla partenza.»

«Vuoi giocare, nonna?»

«Grazie, cara. Magari un’altra volta.»

*

© Rossana Castellino

Le mie sorelle decidono di interrompere la loro partita, riprenderanno domani. Le guardo di sottecchi mentre continuo a provare i solitari. Mia sorella minore batte più forte una melodia che è solo sua, non la conosce nessuno tranne noi. Mia sorella maggiore cerca di togliere la grafite dalle mani, ci dice che non è riuscita a farla andare via nemmeno con il sapone. 

Osservo le mie sorelle e vedo quello che sono quando si liberano delle carte. Somigliano a me. 

Mia sorella minore dice che posso unirmi alla loro partita, se voglio, ma con il punteggio più alto. Rispondo che ci penserò e lascio perdere il solitario. Racconto una storia che ho letto nel pomeriggio, mentre loro facevano tutt’altro. Metto le mani davanti al viso e inizio a muoverle insieme alle parole, ma io non lo so. Lo sanno le mie sorelle, che le guardano da sempre e le riconoscono. 

Una ragazzina, stanca dell’educazione rigida, avvelena tutti i membri della famiglia. Salva soltanto la sorella, uno zio per sbaglio. 

Le mie sorelle ridono, ed ecco che si riconoscono in un’altra storia, in altri visi evocati e io so chi sono. Penso che le salverei nei loro gesti irripetibili, quelli che non hanno mai rubato. Le immagino mentre gli eventi si riannodano, si susseguono, e loro sono infinite possibilità di sé stesse. Non cadiamo quando smettiamo di camminare sulla corda, ci riconosciamo quando non ci siamo somigliamo. Le immagino dietro la mia faccia immobile, che non svela niente, e loro non possono saperlo. 

Ci alziamo dalle sedie. Il solitario resta incompleto.

Le luci si spengono sulle facce sui tronchi, i pipistrelli se ne sono andati. Nel buio, la palma del vicino scompare. Sul muro solo il riflesso degli occhi vitrei del geco, grossi insetti si muovono velocissimi e guardinghi. I gatti urlano. La terrazza è vuota, si chiudono le persiane, le porte. 

È sconosciuta, la notte. 

Editing Livia Del Gaudio

Fabiana Castellino è nata a Ragusa, nel 1990. È editor e condirettrice della rivista «In allarmata radura». Svolge l’attività di editor freelance e vive a Milano. Suoi racconti brevi sono stati pubblicati su diverse riviste online. Il suo racconto Lui è stato finalista al call del Premio Calvino «Oltre il velo del reale 2» e pubblicato sull’antologia Oltre il velo del reale. L’avventura dei racconti continua.

Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954, Picasso passa due mesi a disegnare. Lo fa con l’ossessione che da sempre lo distingue e in sessanta giorni completa un ciclo di centottanta disegni a tecnica mista, in cui prevalgono il bianco e il nero, il dominio del segno, la dualità del rapporto modella/artista filtrato attraverso l’uso di feticci – la tela, il pennello, la maschera – e la ripetizione di una figura filtro, una scimmietta dalla criniera leonina, di volta in volta caricatura del Maestro, accesso a un altrove fantastico, omaggio all’inconsistenza del reale. Al di là del soggetto rappresentato, e delle sue innumerevoli interpretazioni, ciò che emerge dal ciclo è la potenza della linea. Una linea che in natura non esiste (ci sono animali in grado di riconoscere un dipinto, nessuno in grado di decifrare un disegno), capace di rappresentare il reale con maggiore acutezza dell’occhio.

Disegnare ha a che fare con lo specifico processo di osservazione: l’immagine disegnata contiene l’esperienza del guardare. L’atto di disegnare costringe l’artista a guardare l’oggetto che ha di fronte, a sezionarlo con gli occhi della mente e a rimetterlo insieme. Ogni disegno, anche quello che si pone come obiettivo il realismo, è una sintesi tra memoria e sguardo. Per disegnare è necessario pensare all’anatomia di un corpo (reale o immaginario che sia), al suo funzionamento, e ricrearlo nello spazio vuoto del foglio. Se una fotografia è la prova dell’incontro tra evento e fotografo, il congelarsi del tempo in un unico eterno istante, un disegno mette lentamente in dubbio l’apparenza e ci ricorda che ogni immagine è sempre la costruzione di una storia, un movimento di entrata e uscita da noi stessi, una sintesi tra l’oggetto e la costruzione mentale dell’oggetto.

Il disegno non ferma il tempo, lo costringe in un gorgo dal quale il tempo stesso esce mutato.

In Rossana Castellino è evidente la natura del disegno come creazione di un nuovo corpo – un’immagine –; nella trasfigurazione del reale operata dall’artista si legge una tensione che riguarda il divenire: proprio perché non possiamo semplicemente essere un albero, una montagna, una creatura fatata, possiamo diventarlo. Il mondo fantastico evocato dalla matita è continuamente smentito e affermato dalla tecnica realistica, dall’uso dello sfumato, dalla cura del dettaglio: un universo che ci appare ancora più reale proprio perché impossibile. Il linguaggio preraffaellita a cui Castellino attinge è quello delle eroine shakespeariane, le ninfe dell’acqua, dell’aria, della terra; gli spiriti luminosi che gli esseri umani trasfigurano di era in era, passando dalle pitture rupestri alla produzione grafica delle intelligenze artificiali senza mai riuscire a liberarsi dell’archetipo che rappresentano, ovvero l’ostinata aspirazione a una bellezza che si vuole completa, eternamente giovane, fusionale; quella stessa bellezza che Picasso insegue nei suoi disegni attraverso l’evocazione magica della modella-musa, eterna amante dolceamara. Nel disegno la possibile strada per tenere insieme il conflitto tra opera e creatore: se la statua o la tela sono essenzialmente opera pubblica, esibita, il disegno è un lavoro privato che ha a che fare con i bisogni dell’artista, e il suo desiderio di comunicazione. Una tensione che vive nelle parole di John Berger: 

Noi che disegniamo lo facciamo non solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione2

Livia Del Gaudio

Rossana Castellino nasce in Sicilia, nel 1986. Si laurea in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Ragusa, e vive per alcuni anni a Roma, dove si specializza in Illustrazione Editoriale presso la Scuola Comics di Roma. Ha lavorato come freelance in qualità di illustratrice e grafica, specializzandosi sia nell’uso di tecniche digitali che tradizionali, con una predilezione per matite e acquerelli. Sue illustrazioni sono presenti in manuali di gioco di ruolo e antologie dark fantasy young adult. Nel 2013 sue opere sono state esposte a Londra. Per gioco inizia a creare gioielli, e adesso è una delle sue attività principali.

  1. Milan Kundera, Immortalità, Adelphi Milano, 1990 ↩︎
  2. J. Berger, Sul disegnare, trad. Maria Nadotti, il Saggiatore, Milano, 2022 ↩︎

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