di Lorenzo Marchese

© Maria Filosa
Quando meno ci stavo pensando, eccomi accolto da una fossa aperta. Sul nord del terreno verso la montagna, ha scavato per un mese da solo, pala e piccone, nei ritagli di tempo. La buca rettangolare, lunga due metri per uno e mezzo circa, è profonda due: sul lato corto lontano da noi ha ricavato una struttura di ripiani con assi di legno. Così si ottiene una parete terrazzata, divisa in celle, e ciascuna ospita circa quattro vani di forma rettangolare, a loro volta delimitati da assicelle più piccole, dove i corpi vengono gettati. All’inizio, quando circa vent’anni fa su questo mezzo ettaro scarso c’erano solo aranci e alberi di mandarino allo stato brado, Franco li seppelliva dove capitava, e solo alcune piante qua e là che (mi convinco) hanno un’aria più sinistramente florida delle altre segnavano i punti. Adesso non più: ogni nuovo ospite viene accolto nella sua nicchia e rivestito di calce, prima di passare al prossimo vano libero a fianco. Quando la fila di quattro è completa, la si copre e si passa a creare quattro nuovi spazi al piano superiore, seguendo la linea del terrazzamento. Dopo qualche anno, si procede a riaprire tutto e pulire dai resti. Non si direbbe, ma i corpi si decompongono in fretta se non li segreghi via dalla terra, se non vengono piombati, incassati o bruciati. Di solito, mi spiega Franco, dopo qualche tempo resistono solo le ossa lunghe, il femore per esempio, alcune parti dello sterno. Qualcosa del teschio, neanche tutto: dopo dieci anni rimangono perfettamente distinguibili solo i canini. Li vedo: svettano come pugnali egizi, coprono quelli che erano una volta i denti inferiori.
Faccio il volontario in gattile, qui a Palermo, da quando qualche mese fa ho deciso di trasferirmi in pianta stabile; anche se qui non ho alcun appoggio all’infuori del lavoro, né amici e nemmeno la famiglia. Benché il mio cognome, schiettamente palermitano-messinese, lo suggerisca erroneamente, fino a tre anni fa con la Sicilia non ho avuto che vincoli puerili, legami di turismo low-cost e aspettative erronee: e ora le verifico sul campo una a una, da solo, essendo i miei genitori rimasti all’altro capo d’Italia, dove hanno sicurezza, una quota di degrado esternalizzata oltre la circonvallazione, la pizza Margherita esclusivamente gourmet a dieci euro e, non ultimi, i nipoti piccoli, non ancora in età scolare, che li gratificano di un futuro da nonni. Niente da rimproverare, chiunque, me compreso, al loro posto avrebbe scelto alla stessa maniera: non si costruisce un senso plausibile della terza età stando dietro a un adulto che di punto in bianco s’inventa di volersi occupare di randagi e abbandoni. Per motivi, oltretutto, che nemmeno lui, cioè io, conosce. Il progresso di una società si giudica in tanti modi: per me, dalla considerazione che essa nutre per chi non può difendersi e garantirsi un’esistenza dignitosa. Dare una mano saltuaria in tal senso è stata la motivazione più nobile, ma anche la meno autentica, che mi ha spinto. Da una parte sono arrivato ai gatti per qualcosa di simile al desiderio di espiazione che porta David Lurie, ex professore universitario di pelle bianca nel romanzo Vergogna di J.M. Coetzee, a ricominciare come addetto a un crematorio per cani nel Sudafrica post-Apartheid dopo aver perso tutto; mi sono chiesto, nel parallelo, cosa starei espiando io di preciso, ma non l’ho capito. Ho fatto molti errori – di cui come tutti non posso parlare – ma non riesco a vedere una corrispondenza logica fra quello che ho sbagliato e quello che ho ricevuto in cambio. Ho paura che non ci sia; e che chi si ostina a volerla trovare sarà punito anche peggio di me adesso. Dall’altra parte però, chiarissimo, mi spinge in questo luogo un bisogno di calore umano; come un basso continuo lungo la giornata, sento di volere questo affetto corporeo che il lavoro e le conversazioni via smartphone non possono dare, ma con altrettanta fisiologica ferocia sento di non volere a nessun costo ottenere un contatto del genere a seguito del controllo di qualità incrociato che le relazioni non parentali fra adulti, dopo una certa età, presuppongono; non voglio prendere parte al complesso game relazionale che un mio amico ha sintetizzato con il termine “stinderare”, quello che a suo giudizio dovrei fare ora che mia moglie non c’è più, e che mentre lo scrivo continua a smottarmi la pelle. Allo stadio attuale, pare che l’unico scambio disinteressato e tollerabile per me venga nella forma del soccorso. E siccome gli ultimi alla Caritas o i ricoverati negli ospedali non mi suscitano particolare empatia, temo per eccessiva affinità di specie, eccomi fra duecento gatti senza casa né famiglia, quasi tutti adulti, coperti di ferite fisiche, neurologiche, persino esistenziali.

© Maria Filosa
Una volta alla settimana, vengo per qualche ora a pulire i viali e i recinti dai frutti caduti, dai resti degli animali e da qualche rifiuto. Passo l’ultimo quarto d’ora a spazzolare i gatti più affettuosi e pacifici, li illudo che non sono stati dimenticati. Molti li hanno trovati per le strade di Palermo, incapaci di sopravvivere senza una balia o uno “stallo” (sistemazione temporanea presso un umano, in attesa di adozione). Spesso vengono abbandonati in uno dei tanti terreni incolti qui intorno, e bisogna intervenire in fretta, prima che altri agenti esterni, cani randagi, automobili li facciano a pezzi con ignara innocenza. Altri nuovi arrivi, prima, vivevano con persone anziane; ma una volta morte, non si sa più che farne. Pochi altri sono stati liquidati con grigio dispiacere da gente che fino a un giorno prima li riempiva di regali, li ficcava in vestitini umanoidi e li sottoponeva a incessanti book fotografici, insomma, con le parole che si usano oggi, li “viziava”, in realtà viziando se stessa attraverso gli animali che maltrattava. Qualcun altro di punto in bianco ha sancito che era impossibile far convivere dei bambini piccoli e dei gatti cresciuti, qualcun altro ancora si deve trasferire, non è capace di ammettere che si è stufato, o addirittura possiede, senza il coraggio di rivelarla ai volontari del gattile, un’altissima stima delle tende del salotto, del rivestimento dei propri divani, del loro odore. Con un po’ di allenamento si percepisce negli occhi felini, «gocce d’acqua e fango» come li chiama Giorgio Vasta in Il tempo materiale, una certa angoscia di essere sopravvissuti all’indifferenza. Probabile che sia una proiezione mia, vista la violenza aggrovigliata con cui noi umani reagiamo alla disaffezione degli altri verso di noi: però ogni pupilla animale non può che rimandarla, diventa una certezza presupposta calcificata nell’iride, che non si stacca più.
Tutti i duecento gatti (più due cani) sono gestiti quotidianamente da quattro persone, se si toglie una manciata di occasionali che come me fingono di lavorare, e le visite nel weekend. Tre donne (prima erano quattro) più Franco, sette giorni su sette, almeno otto ore al giorno. Da quaggiù, le ferie appaiono un’aberrazione culturale, un’espressione inopportuna: servono svariati chili di cibo secco e umido ogni giorno, medicine di tutti i tipi, disponibilità di acqua potabile ininterrotta che in Sicilia non è scontata. Tutto senza fondi pubblici: abituato ai gattili comunali di Roma, dove gli impiegati prendono regolare stipendio, avevo perso la presa sul significato che “volontario” può assumere. Lo imparo, mese dopo mese, dai racconti di Franco. Nella sua vita precedente era un fotoreporter professionista. Ha iniziato a metà anni Settanta e ha smesso inesorabilmente, come molti, quando da mestiere la fotografia con gli smartphone e i social network si è spostata verso il territorio dell’hobby quotidiano per cui non serve tecnica né autorialità. Del suo lavoro ho scoperto da una menzione altrui, di sfuggita. Ingenuamente ero convinto che scattasse foto come i tanti fotografi che ho conosciuto: immortalare artisti, attori e aspiranti tali, fare i servizi dei matrimoni, autoritratti, paesaggi, esprimere la propria visione. Poi mi ha dato il suo ultimo libro, un catalogo di una mostra che ha portato in alcune città del Nord, e ho scoperto che in larga parte faceva l’unico tipo di foto che oggi è semplicemente improponibile nel panorama di ciò che si può condividere, perché l’algoritmo lo rimuove da ciò che esiste. A ogni pagina fotografie di ammazzati durante la Seconda guerra di mafia e la fase stragista a cavallo degli anni Novanta, che ha lasciato nel giro di quindici anni centinaia di vittime sul territorio dove ora serenamente abito. Questo garbato signore, che ha l’età dei miei genitori, ha visto più morti di quanti io e tutti quelli che conosco (messi assieme) confidiamo di vedere mai: e quella nel libro, mi spiega, è una piccola selezione di quando lavorava al quotidiano «L’Ora» di Palermo. Non posso fare a meno di connettere la testimonianza diretta di tutto questo sangue alla scelta di dedicarsi alla sopravvivenza materiale di centinaia di animali che fuori da qui farebbero una pessima fine in poco tempo: ma quando cerco di mettere a fuoco il legame, istituendo rapporti di causa e conseguenza, mi rendo conto che so troppo poco di chi ho di fronte, non conosco le sue ragioni, e in fondo neanche le ragioni di questa città, il retroterra di un’ondata di violenza che l’ha plasmata nelle fondamenta, che oggi è meno visibile ma può darsi a rigor di logica che persista. Dunque, rinuncio a fare il turista-antropologo di traumi bellici non miei e giro una pagina. In una foto, datata luglio 1989 e scattata a due vie di distanza dal quartiere signorile dove sto in affitto, ci sono due giovani fratelli, dentro uno spazio chiuso che sembra un abitacolo. La testa di quello a destra, solcata da tre rigagnoli grigio scuro (tutte le foto sono in bianco e nero, a rendere più irreale la mattanza), si poggia sul centro della schiena di quello a sinistra, coperta da una maglietta estiva a righe vivaci. Sembrano riposare, gli occhi chiusi come per una stanchezza appagata, il resto dei corpi per via dell’inquadratura è tagliato via.

© Maria Filosa
Gattili del genere non esisterebbero senza il randagismo che affligge Palermo e sorge dal contrario di un problema. Fa caldo per la maggior parte dell’anno, c’è abbondanza di verde, di spazi aperti e di cibo per strada: se si lasciano dei gatti allo stato brado, meno pericolosi e attenzionati dei cani, si moltiplicano molto in fretta. Ci sono circa duecento colonie feline riconosciute solo sul territorio comunale; a che pro difendere la prosperità di una simile folla, che a ogni angolo si rivela derelitta, in costante emergenza? Viene da replicare con un parallelo maligno: anche noi umani, grazie alle condizioni di vita in miglioramento esponenziale e alla riduzione drastica della mortalità infantile, ci moltiplichiamo in fretta da un secolo, ormai su scala globale. Quanto accade in questa piccola società ibrida è la riproduzione in scala micro di quello che sta succedendo fuori: sebbene la gestione qui sia più saggia, scevra da pregiudizi morali. Tutti i gatti sono sterilizzati, per permettere una sopravvivenza dignitosa che una distribuzione delle risorse fra nuove masse di gattini imploranti ogni mese non consentirebbe; la decrescita pilotata permette l’equilibrio del sistema. Ci si potrebbe chiedere se tale soluzione, ecologicamente parlando, non sia valida per tutte le creature viventi, con buona pace dell’economia e delle maledette “future generazioni”. Involontariamente, molti paesi avanzati ci si stanno avvicinando in questi anni, Italia in testa, scendendo sotto il tasso di sostituzione: ma forse potrebbero essere ancora più coerenti, e prendere esempio dai nostri modi di gestire gli animali addomesticati. Perché ogni civiltà che funzioni si basa su un tentativo di addomesticare qualcosa che sfugge al nostro controllo, e poi di addomesticare l’altro in modo da garantire reciproca sostenibilità. Civiltà e addomesticamento sono due problemi mai disgiunti. Naturalmente (si perdoni l’avverbio) addomesticare ha per forza un costo, qualunque sia: ma si può esternalizzarlo ai miliardi di polli macellati per finire nelle scatolette di questi gatti soli al mondo. Abbiamo addomesticato e familiarizzato l’intero pianeta: non solo le creature, ma le entità immateriali, fra cui tutte quelle idee selvagge e dotate di zanne dalle quali ci possiamo difendere con leggi, riti, credenze, immagini. Lo stesso gesto di creare le città e i cimiteri, di scavare tombe e decorarle, non per il beneficio del defunto ma di chi resta, è un modo di addomesticare ciò davanti a cui ci troviamo impotenti. La fossa che ho davanti me lo suggerisce.
Se tutto quello che vedo al gattile può essere interpretato anche come uno sforzo a più teste di addomesticare qualcosa di minaccioso e annichilente, ci si può chiedere, io me lo sono chiesto, quale sia la direzione di questa crescita rallentata, del tentativo di mantenere creature che, affinché non collassi tutto, devono restare qui senza sviluppo. Non saprei che risposte dare. Ci penso mentre in pausa caffè Titty, una volontaria che vive poco lontano e ha circa cinquant’anni, mi parla di un gattino di un anno, che si è portata in casa per uno stallo quando era ancora da svezzare. Dopo pochi giorni, Titty si è accorta che la sclera degli occhi del gattino si era fatta gialla. Insieme a un calo di peso improvviso, è scattato l’allarme: il piccolo si era preso la FIP (la Peritonite infettiva felina). Patologia immuno-mediata piuttosto rara per adesso nel Nord Italia, è invece molto diffusa da queste parti: perché è infettiva, si trasmette per lo più nel contatto con le feci di altri gatti – cosa che, coi tanti randagi liberi di banchettare fra sporco e rifiuti in città, è frequentissima. Una volta scattato il contagio, senza alcun intervento mirato la malattia porta il gatto a un decorso verticale. Prima prende il fegato, poi l’intestino, e produce inappetenza estrema: il gatto smette di mangiare, diarrea e vomito buttati fuori con, se capita, i cenni di disturbi neurologici, a volte persino segnali di una vera e propria depressione che porta chi è colpito a vegetare nel dolore. Non serve aspettare molto: per la FIP la prognosi è di due-tre mesi in media, poi si arrendono tutti, padroni e gatti. I sintomi suddetti si presentano nella variante per così dire secca: nella variante umida, le infiammazioni provocano l’accumulo di liquidi nell’addome e nel resto del corpo, al punto che la pressione degli umori insiste sugli organi interni fino a schiacciarli. Un altro gatto adulto infetto, diagnosticato tempestivamente, mi racconta Titty, da un giorno all’altro non aveva più gli occhi gialli: perché uno dei due nell’arco di una notte è stato letteralmente schizzato fuori dalla pressione degli umori. Per farlo sopravvivere ancora un po’, si è deciso di orbarlo chirurgicamente.

© Maria Filosa
Uno dei veterinari consultati per il gattino in stallo con la FIP aveva dato lo stesso consiglio che io, senza parlare, mi rigiro in testa mentre Titty prosegue la storia: addormentalo subito, non aspettare, prima che la malattia si prenda il corpo e gli lasci la mente indifesa alla tortura. È la cosa più pratica e giusta. Perché la cura non c’è, o meglio, non è una soluzione semplice. In Italia per la FIP ci sono solo terapie sperimentali: tradotto in termini pratici, vuol dire che nessun veterinario sul suolo nazionale può prescrivere farmaci (che pure esistono) per combatterla, e nessuno può comprarli, a meno di non ordinarli dall’estero come tanti, inclusa lei, fanno. Riuscire a procurarsi il farmaco, che si chiama Curafip e si basa, a dar retta a siti di problematica attendibilità, sulla scoperta dell’antivirale GS441524, non basta: il grosso resta ancora da fare. Si procede dapprima a una cura di fiale da sei millilitri, con un’iniezione al giorno assai dolorosa, interscapolare, per dieci giorni. Poi le compresse, una al giorno per quasi un mese. Un blister da dieci compresse costa, facendo una media dei prezzi del Curafip, più di duecento euro; una fiala, circa ottanta. A metterla giù arida calcolatrice alla mano, la persona che ho davanti prende al mese, qui in gattile, un rimborso spese che ammonta a circa un quarto di quello che spenderebbe soltanto per provare a far vivere questo gattino, uguale ai duecento di cui si prende cura ogni giorno: né troppo diverso, presumo, dai ventisette che mantiene a casa sua (mi faccio ripetere il numero due volte da fonti diverse, per essere sicuro di inserire almeno un’informazione precisa, ecco l’unico dato inappuntabile in questo piccolo delirio: 27). Da un paio d’anni per lavoro mi occupo di ecocritica, cioè insegno e studio i modi in cui la letteratura ci può rendere più sensibili alle problematiche dell’ambiente, indago quali nuove strategie di sopravvivenza e di convivenza etica con le altre forme di vita si possono rinvenire nei saperi complessi dell’arte e della letteratura, nelle bassure di maggior lucidità mi osservo fare la mosca cocchiera di nozioni aliene come «sostenibilità» e «resilienza». Eppure, so che se qualcuno mi chiedesse di spendere quattro volte il mio stipendio mensile per provare a far sopravvivere il mio gatto (Elsa, l’unico che ho, l’essere con cui allo stato attuale ho più contatto), non saprei quanto e come prendere tempo, prima di tirarmi indietro di nascosto. Titty, probabilmente perché la domanda non se l’è nemmeno posta, sa cosa fare; il gattino è malato, vuole vivere e bisogna ascoltare quell’istinto, regalarsi atti più credibili; e chiedere «perché dài tutto per tenerlo in vita?» mi appare immorale più che sciocco. Lei non è una pazza, una santa né una martire, nessuno di chi mi circonda lo è, non sono neanche “gattare” – termine nel sentire comune declinato rigorosamente al femminile, in cui la solidarietà di specie viene osservata dall’angolo sprezzante della carenza di affetto, dal bisogno inappagato di contatto sessuale (mentre, è da notare, nella percezione comune i maschi dediti ai gatti di solito ne rapiscono a decine e li accumulano in casa, finché non arrivano i NAS). Quelle che ho intorno sono persone come tutte, con un range abbastanza prevedibile di idee sulla politica e la società, svaghi e strategie per tirare avanti, partner e figlie che hanno il saggio di danza e meme via Whatsapp al risveglio. Ma hanno la forza di accettare che, anche in un mondo che non può più crescere come prima, che ha rimesso il mandato di proliferare e arricchirsi esponenzialmente, chi sulla terra vuole vivere va ascoltato fino all’ultima parola, anche se non servisse a nulla, perché che tutto questo non serve a nulla lo si può capire solo alla fine, dopo aver messo il punto alla propria frase.

© Maria Filosa
Come avrei dovuto capire dal tono del suo racconto fin nelle prime battute, il gattino con la FIP si è salvato: fa il giocherellone (in particolare coi nastri per l’imballaggio pacchi), è mansueto e pacioso, ma Titty l’ha chiamato Achille, perché ha intravisto in lui un combattente nato. Avendo già velata fama di essere pedante, evito di dirle che Achille ha una vita gloriosa, ma per sua scelta breve: non è escluso che lo sappia già, perché mentre finisce la sigaretta e la spiegazione, si copre la bocca per sorridere. Se un senso esiste, è questo.
Editing di Livia Del Gaudio, correzione bozze di Viola Carrara
Lorenzo Marchese insegna letteratura italiana contemporanea e sceneggiatura all’Università di Palermo. Scrive per la pagina culturale del quotidiano “Il Tirreno” e per la rivista online “Snaporaz”. Ha pubblicato i saggi “L’io possibile. L’autofiction come paradosso del romanzo contemporaneo” (Transeuropa, 2014) e “Storiografie parallele. Cos’è la non-fiction?” (Quodlibet, 2019).





Nella serie fotografica proposta da Maria Filosa il soggetto è la gabbia: quella dove sono rinchiusi i grandi felini e quella meno appariscente di un ospedale psichiatrico. Le bestie proposte dalla fotografa non hanno nulla dei mostri di Diane Arbus, non sono meraviglie, eccezioni ma creature addomesticate da televisori e croccantini.
Il bianco e nero funziona come linguaggio unificatore tra mondo umano e mondo animale, così come il taglio e la presenza costante di elementi simbolici, muri, griglie metalliche, pareti che occupano l’immagine privandola di orizzonte. La cella è ovunque, sembra dirci Filosa, inutile fuggirla, tanto vale guardarla. Ed è in questo sguardo che avviene la trasformazione.
Lo spazio fotografico proposto è tutt’altro che disperato; la condizione di prigionieri provoca nei soggetti irrequietezza, movimento, una ribellione visibile nei gesti: la donna che fuma si nega all’obiettivo girando la testa, gli occhi del leone cercano quelli di chi lo osserva. La soluzione attraverso la quale Filosa sfonda la gabbia risiede nell’utilizzo del medium fotografico. Come scrive Ghirri:
La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato (…) Questo duplice aspetto di rappresentare e cancellare non tende soltanto ad evocare l’assenza di limiti, escludendo ogni idea di completezza o di finito, ma ci indica qualcosa che non può essere delimitato e cioè reale. (…) La possibilità di analisi nel tempo e nello spazio dei segni che formano la realtà, (…) consente così alla fotografia, grazie alla frammentarietà, di essere più vicina al non delimitabile e cioè l’esistenza fisica.1
Livia Del Gaudio
Maria Filosa è nata nel 1990. Vive la fotografia da entrambi i lati dell’obiettivo, come soggetto di ritratti artistici, ma anche come fotografa. Nel suo mondo fotografico, fonde bellezza, sensibilità, istinto e trasparenza. Le sue fotografie, illuminate da una luce naturale che sembra provenire dall’interno dei suoi soggetti, raccontano storie profonde e toccanti. Ogni scatto è un viaggio emozionale, una finestra aperta sull’intimità, una danza tra luci e ombre. Per Maria ogni essere umano, ogni paesaggio od oggetto, è un universo di storie non dette. La sua abilità di vedere con il cuore, più che con gli occhi, rende le sue fotografie specchi dell’anima, riflessi di emozioni sincere e profonde.
- Luigi Ghirri. L’omino sul ciglio del burrone, a cura di Antonio Desideri, Edizioni Clichy, 2020, Firenze ↩︎
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