Quel signore allo specchio

di Juan Pablo Martínez Cajiga

Traduzione di Silvia Dammacco

© Vittoria Groh

Domenica ho comprato uno specchio. Senza, in effetti, utilizzare il rasoio mi risultava difficile. Lo specchio precedente si è suicidato per qualche motivo non ancora accertato e la questione dei sette anni senza sesso mi ha causato non poco stress. Montato il nuovo membro della famiglia, preceduto da Fermina (la gatta) e successivamente dal sottoscritto, ho notato che il mio riflesso non era quello di sempre. Non solo per la comparsa di qualche pelo grigio sulla barba e qualche ruga attorno agli occhi. La mia testa aveva una forma che al vederla mi parve alquanto strana: era diventata un groviglio di nodi.

Inizialmente pensai a un effetto visivo provocato dallo stesso specchio. Voglio dire, per quanto mi era costato mi sarei aspettato qualche difetto, che fosse opaco e persino di non vedermi particolarmente bello, ma osservando attentamente la figura riflessa, riconobbi chiaramente tutte le mie più peculiari caratteristiche. Naturalmente fui divorato dall’ansia.

© Vittoria Groh

Quando si ha un ospite abituale benché non graditissimo, lo si accoglie senza troppe storie. Non perché non sia di impiccio, ma per abitudine. È quello che mi succede con l’ansia il cui nome ho ignorato fino a dopo la pubertà. Se avessi ceduto alla mia ansia punti MilleMiglia, di sicuro avrei già fatto il giro intorno al mondo più di una volta. Adesso, il punto non era la sua ormai abituale presenza quanto il fatto di avvertire (o visualizzare) che la parte superiore del mio corpo sembrava (e soprattutto si percepiva) come un gomitolo di lana pieno di nodi su tutta la superficie attraversata da un filo sottilissimo che scendeva sul lato sinistro del torace.

Questo mi disorientò, non sapevo da quanto il mio aspetto – o la mia mente – fossero in questo stato. Iniziai a scervellarmi collegando una serie di momenti sufficienti a creare una selezione dei bozzi che ricordavo visibili. Era evidente che, dietro a quelli che riuscivo a scorgere sulla superficie, ne albergavano altri addirittura più grandi. Quando ho iniziato a tracciare il grafico mettendo in relazione i problemi sull’asse X e le escrescenze sull’asse Y notai tra loro una relazione causale; tuttavia, quello che realmente mi allarmava era il mio aspetto e l’immagine riflessa nello specchio, non il dolore provocato dalla tensione generata dal cablaggio che avevo in testa.

Forse ignorare la nodosità della mia testa o del mio aspetto non è servito a molto. Per il resto della giornata ho evitato lo specchio. La mattina seguente, appena sveglio, mi ci avvicinai con estrema cautela, lentamente e senza accendere la luce. L’ansia, la mia vecchia amica, era di nuovo lì. Mossi il braccio e spinsi l’interruttore. La luce mi abbagliò per un istante e fui sollevato nel non vedere nulla in quel momento. Tuttavia, man mano che mi abituavo alla luce in quello spazio, mi accorsi che la testa era ancora un gomitolo annodato temendo, a quel punto, non solo che non ci sarebbe stata soluzione ma che tutti gli altri mi avrebbero percepito esattamente così.

© Vittoria Groh

Quel pomeriggio vagai senza comprendere, nemmeno in teoria, ciò che distinguevo come riflesso nello specchio. Era evidente che, nel tempo, tutti questi episodi si erano condensati (o registrati) in modo strano, non solo come semplici eventi della mia vita. Ognuno di essi aveva assunto la forma di piccoli nodi nati da pensieri, sensazioni, sentimenti, storie e circostanze che, per qualche ragione intangibile, convergono in un unico punto impedendo, a causa della loro natura dissimile, una corretta circolazione dei ricordi. Avvicinando la mano al punto dove nel riflesso si notavano le escrescenze, avvertii delle fitte nella memoria, dolori che andavano ben oltre quello scomodo riflesso e che cercavano risposte quando invece avrei dovuto trovare domande.

Fu allora che ti chiesi senza mezzi termini come mi vedevi, se era uno stato passeggero o il prodotto delle stesse cause del cambiamento climatico o se tutte quelle protuberanze visibili ai miei occhi le percepivi anche tu. Se quello che avevo appena scoperto era esclusivamente affar mio o se tu, in veste di spettatore in prima fila, avevi già fiutato la via che mi avrebbe portato al precipizio di Finisterre. La tua risposta fu diretta, senza coloranti né benzodiazepine, hai semplicemente dichiarato – ho detto a me stesso davanti allo specchio – che così non-è-possibile-andare-avanti, che il bicchiere cola sia sotto che sopra e che era ormai tempo di cercare (chiedere) aiuto.

© Vittoria Groh

Quando ti sdrai sul divano non sei solo, c’è tutta la tua vita lì sopra. Si prende la parola e l’unica direzione possibile ha un solo senso: la sincerità. La sincerità è assoluta, non esistono mezze sincerità o sincerità a tempo. Non serve nascondersi nelle proprie fessure. I nodi si stringono ogni volta che si agisce (agisco) in questo modo. Lo specchio era solo un piano cartesiano dove potevo localizzare ognuna delle parole incastrate in diverse parti del corpo, una radiografia di quanto era stato detto ma soprattutto di quanto era stato taciuto; quelle parole rimaste lì o venute fuori mascherate da altre parole per nascondere il loro vero significato. Tutte insieme si affollano e alla fine nessuna riesce a venir fuori. Muoiono nello sconforto e senza speranze; e, così facendo, si prosciugano. E questo finisce per farti ammalare.

Adesso il divano supporta il mio corpo. Così posso vedere tutti i nodi appesi su di me come una giostrina sulla mia testa. Guardandoli comprendo che l’unico modo per raggiungerli è attraverso le mie parole e i miei silenzi; nel frattempo temporeggio per decidere quale tra le decine di fili sospesi è il prossimo da tirare, da snodare per comprendere che la comparsa di ognuno di loro è solo una mia responsabilità, da snodare per capire che non sarà mai vietato fare un’inversione a U, da snodare e comprendere che c’è sempre – sempre – una via di ritorno.

Un lunedì di una settimana qualsiasi, di prima mattina, riuscii a ritrovarmi allo specchio.

Il racconto originale, in spagnolo, pubblicato il 31 maggio 2024, può essere letto su Revista Purgante, a questo link: https://revistapurgante.com/ese-senor-en-el-espejo/

Juan Pablo Martínez Cajiga è nato a Città del Messico nel 1971. Grafico, lettore e autore del libro per bambini ¿Dónde estás, A?, nel 2023 pubblica Pasajes, relatos sobre taxis y taxistas, una raccolta di storie in cui l’autore dal sedile posteriore di svariati taxi viaggiando a Città del Messico, prova a connettersi con l’essere umano al volante. Ha partecipato a Puentes antologia pubblicata dalla rivista Purgante. Ama cucinare pasta per le sue figlie.

Nei lavori della fotografa Vittoria Groh la solitudine è un posto riproducibile attraverso dettagli o composizioni di più elementi, sempre subordinati a un effetto di insieme attraverso il quale la macchina riempie il vuoto emotivo tra sé e il mondo. L’uso del dispositivo educa lo sguardo alla ricerca di linee e forme non viste a occhio nudo. Per la lente la superficie di realtà utilizzabile ha un ingresso sempre ipotetico di cui solo l’artista conosce l’ubicazione. Il foro si apre all’ampiezza e accentua un sentimento di possibilità: nei suoi lavori tra la scena di fondo e il restringimento centrale sembra passare tutto ciò che non converge nel campo visuale dello scatto, tutta una costellazione di vita animale e vegetale che si muove attorno a noi, nell’indifferenza della natura. Lo sguardo di Groh lumeggia di nero, ha una fattura simile a quella di una visione in sonno, un sonno quasi al massimo grado della sua perfezione tecnica.

Maria Teresa Rovitto

Vittoria Groh (1991) è nata a Lugano. Fotografa autodidatta, ha lavorato nell’ambito dei diritti umani e della sostenibilità per diverse organizzazioni umanitarie. Ha vissuto in Sudan, Haiti, Kenya, Iraq, prima di fermarsi a Roma. È sempre stata affascinata dai punti di luce in mezzo al buio e dall’impronta effimera che lascia tutto ciò che è transitorio: calore, identità, presenze. Con la sua fotografia, digitale e analogica, esplora questi veli di un passaggio momentaneo, che hanno la capacità di trasportare chi li osserva in un mondo parallelo, un po’ magico, un po’ tragico, dove tempo e luoghi sembrano non coincidere più con la realtà.

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