di Jacopo Verworner

© Anna Lataille
La biblioteca dei miei genitori aveva due interi scaffali pastellati di Adelphi. Non solo ospitava i canonici Hesse e Kundera, ma anche meno noti autori svizzeri del Novecento: Dürrenmatt, Jaeggy, Walser. Non c’era però Guido Morselli. A lui sono arrivato molto dopo, già adulto e ormai arenatomi in Svizzera1. Dopo essere stata esposta a una delle mie consuete tirate su quanto detesti vivere in Svizzera, una mia conoscente bolognese mi suggerì di leggere Dissipatio H.G.: mi disse che Morselli, in quel libro, scriveva precisamente come io stavo parlando. Il giorno seguente comprai Dissipatio H.G. alla Feltrinelli della stazione e lo divorai in una manciata di ore, sul treno che mi riportava in Svizzera.
«Io non amo Crisopoli, anzi non la posso soffrire. In lei ho scorto il mio antitipo, l’affermazione trionfale di tutto ciò che io rifiuto, l’ho eletta a centro della mia detestazione del mondo; un caput-mundi al negativo. La mia “fuga saeculi” è stata, già allora, fuga da questa precisa localizzazione del “secolo”.»
Aperta questa pagina, le parole mi parvero illuminarsi e magicamente indurre un movimento delle mie labbra, a ripeterle. Maria aveva ragione, quelle parole erano proprio le mie: Basilea era la mia Crisopoli, e la mia Widmad era la Surselva, nella quale tentavo di rintanarmi per sfuggire al «secolo». Lessi questa pagina mentre il treno che mi riportava in Svizzera transitava proprio vicino a dove, scoprii poi, Morselli aveva passato la maggior parte della sua vita, e dove finalmente incontrò la sua ragazza dall’occhio nero.
Mentre leggevo, mi ero invece figurato che Morselli fosse stato, a par mio, un autoesiliato. Fui sorpreso quando, appena finito il libro, mi precipitai a cercare la sua biografia, e realizzai che lui, in Svizzera, non ci aveva mai vissuto. Pure, Morselli, bolognese, aveva scelto di stabilirsi in un posto come Gavirate, a un tiro di schioppo dal confine2.

© Anna Lataille
Mi viene da pensare che la sua casina rosa sulla collinetta fosse come un punto di osservazione verso quella terra, guardando la quale egli traesse ispirazioni e suggestioni per la costruzione degli scenari magicorealistici in cui i suoi romanzi si svolgono. In effetti nella produzione di Morselli la Svizzera non appare solo incidentalmente in Dissipatio H.G., ma è un tema ricorrente. Di più: è una cornice, o meglio un diorama3, nel quale far accadere vicende che partono ben piantate nel reale, ma rapidamente virano verso l’implausibile e il fantastico.
Ad esempio, in Divertimento 1889 Morselli immagina re Umberto I fuggire dai doveri di corte, passare in incognito il Gottardo e abbandonarsi a una vita di piccoli e borghesissimi piaceri e intrighi nel canton Uri, lungo la linea ferroviaria tra Göschenen e Amsteg. Qui la Svizzera immaginata da Morselli si configura come luogo di fuga dalle responsabilità del tempo. Ma non si tratta di un passivo eremitaggio: piuttosto un luogo in cui il protagonista, liberato dai ceppi del quotidiano, ha la possibilità di realizzarsi e far accadere quello che desidera.
In Dissipatio H.G. lo stesso tema viene ulteriormente elaborato. La Svizzera immaginata non è più solamente quella montana dell’oltregottardo, ma si declina in due diverse dimensioni: una cittadina (Crisopoli) alla quale il protagonista è legato per ragioni professionali4; e una montana (Widmad) in cui il protagonista si rifugia, qui in effetti a mo’ di eremita. Quando gli svizzeri si dissolvono nel nulla, le due dimensioni vanno a sovrapporsi, riuscendo alla fine entrambi tollerabili al protagonista5. Rispetto a Divertimento 1889, qui l’immaginazione fa un ulteriore passo avanti: non crea solamente un idilliaco e immaginato scenario montano in cui il protagonista può far accadere cose impensabili nel reale, ma gli mette a completa disposizione un’intera nazione: vuota, vergine, pacificata.
In Un dramma borghese la Svizzera viene invece immaginata come una terra di mezzo: il protagonista è italiano ma lavora in Germania e si trova in convalescenza in un albergo di Lugano. Lì sua figlia, collegiale in Svizzera, si prende cura di lui. Ci troviamo in una situazione di passaggio sia per il protagonista (tra la malattia e la guarigione) che per sua figlia (tra la fanciullezza e l’età adulta). In questa terra di mezzo il protagonista sperimenta ed esplora il tema dell’attrazione verso la figlia, che pur essendogli sostanzialmente estranea mitizza esageratamente la sua figura. Qui la Svizzera si propone di nuovo come luogo dove si immagina il possibile: nello specifico, l’esplorazione di sentimenti e pulsioni che sono indicibili e tabù, e che però, proprio in quanto tali, suscitano morbosa attrazione.

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Date queste premesse, che sottolineano la sua fascinazione per la Svizzera, incuriosisce che Morselli, pur avendone presumibilmente i mezzi6, non decise mai di trasferirvisi, ma rimase piuttosto a distanza di sicurezza, in bilico sul confine. Mi chiedo se dietro questa decisione vi fosse una qualche ansia di delusione al pensiero di dover tradurre una terra immaginata, e come tale sorgente di fantasticherie, in qualcosa di reale e inevitabilmente più prosaico, pure meschino. Del resto, se la Svizzera nella sua produzione letteraria funge da sfondo ideale per le sue storie, è bene che il narratore ne rimanga al di fuori, per potervi giocare i suoi personaggi.
Io in Svizzera mi ci sono arenato da adulto, e non per scelta deliberata7. Quando mi chiamarono per chiedermi se fossi interessato al lavoro che poi accettai, risposi immediatamente di no: non mi pareva che potesse essere un posto dove sarei stato volentieri. Da quel momento in poi, tuttavia, vi scivolai come se avessi messo i piedi su di un piano inclinato: dapprima iniziai a ponderare i vantaggi logistici ed economici della Svizzera, e mi feci convincere ad accettare un invito per tenere un seminario; dopodiché mi offrirono un contratto temporaneo, che mi ero pure risoluto a rifiutare, solo fino a quando non mi venne reso noto il generosissimo trattamento.
Quindi non credo di averla mai vista come una terra permeata di fantastico in cui poter fare accadere cose altrove impensabili. Penso che ciò dipendesse dall’esperienza che ne ebbi durante i mesi estivi passati, in adolescenza, a perfezionare il francese in un collegio sul Lemano. Se anche potevo aver avuto la possibilità di guardare alla Svizzera come a una proiezione di un plastico ferroviario, al quale ero molto affezionato, costruito da mio padre durante la mia infanzia, calarmici dentro la rese tangibile, e le tolse ogni prospettiva immaginifica.
In effetti la prima volta che entrai in Svizzera fu quando ci portarono in collegio, a tredici anni. Mia zia aveva accompagnato me e mio cugino a Ginevra, su un Trans Europ Express da Milano. Già superata la galleria del Sempione ci avevano colpito l’ordine e la pulizia – non solo negli ambienti ma, più in generale, nella struttura del paesaggio, che ricordava decisamente un plastico ferroviario. Però le montagne scure del Vallese parevano minacciosamente costringere la valle, rendendo la traccia dei binari simile a un tetro percorso forzato. Avvicinandosi a Ginevra, sulla riva destra del Lemano le montagne lasciavano il posto a più docili colline a vigneto, che non solo facevano passare, ma diffondevano la luce. Pure, l’idea inziale di avere invaso uno spazio pensato per essere lasciato intatto e solo osservato da fuori non ci abbandonò, e venne anzi rinforzata dall’irrealtà del paesaggio, incorniciato dallo sfondo delle montagne in lontananza sulla sponda francese del lago.

© Anna Lataille
Appena arrivati in collegio, il direttore – Monsieur Martini, un italiano naturalizzato svizzero – ci riunì nella mensa per l’introduzione alle regole del collegio: prima parlò in inglese, poi in francese, e per finire si rivolse agli «italiani che non avevano capito nulla» ai quali le regole sarebbero state rispiegate, nella propria lingua8.
Quello del collegio era un ambiente internazionale, per cui si può addirittura dire che l’essere situato in Svizzera fosse un fatto accidentale. Ai tredicenni non era consentito uscire autonomamente dal perimetro del collegio9, quindi riuscimmo ad avventurarci nel territorio solo il fine settimana successivo, nel corso di una passeggiata a piedi sulle rive del Lemano organizzata dagli animatori della scuola. Era un sabato, giornata in cui i proprietari delle villette lungo il lago si dedicano al giardinaggio10. Un gruppo di preadolescenti di varie nazionalità è per definizione rumoroso e caotico, e mi rendo conto che agli occhi degli indigeni possa risultare fastidioso e invadente. I proprietari di villette11 dovevano essere abituati a queste gite, per cui non ci guardavano con sorpresa, da dietro le loro siepi. Ma certo è che ci fissavano.
La passeggiata contemplava anche una sosta in spiaggia, dalla quale si potevano noleggiare dei pedalò. Io e mio cugino non ci facemmo scappare l’occasione e invitammo due collegiali italiane che avevamo conosciuto durante la settimana a venire con noi. Per mettermi in mostra – scioccamente, come si fa a tredici anni – persi l’equilibrio e caddi nel lago, vestito. Ovviamente le ragazze e mio cugino trovarono la cosa divertente. Ma io anche la presi a ridere: semplicemente mi tolsi i vestiti e li stesi ad asciugare sul pedalò. Quando attraccammo, il noleggiatore non si mostrò divertito a vedermi sbarcare in mutande, né fu comprensivo. Mi fece invece una ramanzina – secondo lui con il mio comportamento avevo messo in pericolo tutti gli altri. I sorveglianti che ci avevano accompagnato rincararono la dose, suggerendo che avrei potuto affogare. Mi pareva tutto irragionevolmente esagerato: quale sarà mai stata la probabilità di affogare nel lago, a nemmeno un centinaio di metri da riva? Cionondimeno, non osai controbattere e mi scusai contritamente. Tornando verso il collegio, mi parve che addirittura i proprietari di villette, da dietro le loro siepi, mi fissassero con disapprovazione, scuotendo la testa.

© Anna Lataille
Tutto questo per dire che l’immagine della Svizzera che si era sedimentata in me (e in mio cugino) a seguito delle tre estati passate in collegio – ed equipaggiato della quale sono arrivato a Basilea – è quella di un posto in cui alleggia un certo terrore di uscire dai binari di un’innocua vita conforme. Credo che tutto ciò in qualche modo sottenda una costante minaccia di perdere l’equilibrio e precipitare in una spirale di follia. Che poi, se si vuole, è il tema centrale della produzione letteraria autoctona – si pensi in particolare a quello che ha scritto Robert Walser (e alla fine che ha fatto). Una volta che la si è conosciuta da questo punto di vista, diventa difficile vederla come uno scenario in cui far volare liberamente l’immaginazione e giocare i personaggi a piacimento.
Ciò spiega perché, nonostante sia a Basilea da tre lustri – ormai la quota maggiore della mia età adulta – io continui a dire che mi sono arenato, quasi in attesa di qualcuno che mi tiri fuori dalle secche e mi rimetta in navigazione, verso dove non si sa. Conseguentemente, mi sta bene continuare a sentirmi un elemento che stona nel paesaggio, un ospite che in qualche modo insospettisce, e non ho mai seriamente considerato la possibilità di mettere radici qua, o naturalizzarmi come fece a suo tempo Monsieur Martini12. D’altra parte, una volta calatomi in questo plastico, che offre comunque una vita confortevole, la motivazione a uscirne è assai bassa, e non ho aspettative realistiche che una mano poderosa arrivi e mi trascini da qualche altra parte.
Ma anch’io, come Morselli, ho sentito il bisogno di costruirmi un diorama13 in cui far correre l’immaginazione e inventarmi storie. Mi sono quindi creato un’altra Svizzera immaginata: la Surselva, una regione montana del canton Grigioni dove ancora si parla romancio. Qualche anno fa, dopo esserci stato per un weekend sulla neve, ho avuto una folgorazione e quasi d’impulso ho deciso di prender casa a Mustér. Mustér è un paese che conta circa duemila abitanti in pianta stabile, e un notevole giro turistico sia in estate che in inverno. Non ultimo grazie al collegio nell’antica abbazia benedettina, che in estate ospita studenti internazionali che vengono ad imparare l’inglese e il tedesco14.
Quando sono a Mustér, riesco a immaginarmi diverso15. Gioco un personaggio socievole, aperto, curioso e sento che ciò fa in modo che le persone abbiano nei miei confronti la stessa attitudine. Ho imparato un po’ di romancio, il che facilita notevolmente le interazioni con gli indigeni, anche perché dà un chiaro segnale sulla mia volontà di integrarmi. Difatti, mi immagino come potrebbe essere una vita in montagna. Colazioni in pasticceria. Ascese sulla Garvera, per guardare i trenini rossi che scorrono giù a valle, lungo la ferrovia Retica. Serate all’ustria, birre, risate, pettegolezzi sugli altri sursilvani, e chiacchiere sui ragazzi che vengono a studiare al collegio, in estate. Spesso accarezzo l’idea di ritirarmi a Mustér in pianta stabile. Ma poi penso a quello che ho imparato dalla mia esperienza con la Svizzera reale: che non vale la pena correre il rischio di calarsi dentro un plastico. Una volta là, riportare la propria vita fuori ha costi enormi. Quindi penso che sia meglio giocarci rimanendone osservatori. Come aveva fatto Guido Morselli.
Editing di Viola Carrara
Jacopo Verworner nasce e si forma a Firenze e dintorni. Intorno ai trent’anni, a seguito di una poco riuscita carriera accademica, lascia Firenze in cerca di quiete, agi e comodità. Finisce per arenarsi in Svizzera, dove già aveva passato beati mesi di castigo in adolescenza, e dove tuttora vive, dividendosi tra Crisopoli e Widmad. Per soldi scrive di economia e politica monetaria, per diletto scrive delle cose che gli passano attorno. Ha pubblicato su «Micorrize» una serie di racconti a tema prevalentemente lavorativo, e su «L’appeso» un diario di viaggio sul tema del clubbing e della musica elettronica.






Il mondo creato da Anna Lataille rievoca la società vittoriana, i collegi femminili, il bianco della purezza come quello del fantasma. Il tema della vergine, ma più in generale quello della gioventù qui percepita come dimensione altra, è indagato dall’artista attraverso lo scatto: un altrove inviolabile che è possibile fermare solo grazie all’incantesimo fotografico. In quest’ottica, il mezzo non è neutro; l’uso della Polaroid, in cui si ritrova lo stupore della fotografia dell’istante, definisce un passaggio essenziale: fermare l’immagine, intrappolarla sulla pellicola è un’azione che porta conseguenze. La rappresentazione è creazione, parte dalla realtà per modificarla, e ritorna al suo interno; il fotografo è un demiurgo dell’istante.
Questa operazione è resa esplicita attraverso un risultato antinaturalista che richiama le origini della fotografia, il dagherrotipo, il bianco e nero colorato in post produzione; un’attenzione artigianale per l’oggetto foto che diventa feticcio, amuleto per attraversare un regno che esiste appena oltre il limite del reale.
Livia Del Gaudio
Anna Lataille (Portland, Maine) è un’artista interdisciplinare specializzata in fotografia analogica (35mm). Il suo lavoro, spesso ispirato da tutto ciò che è al tempo stesso etereo e fuori dall’ordinario, evoca le sensazioni provate quando si sta in quello spazio liminale tra realtà e immaginazione.
- In realtà anche se Morselli fosse stato presente nella biblioteca dei miei genitori, con ogni probabilità non lo avrei letto in adolescenza. I miei gusti si orientavano verso autori più incendiari e meno riflessivi rispetto al canone di Calasso: alla fine nemmeno Siddhartha, che pure risuonava perfettamente con le sensibilità adolescenziali di quei tempi, mi aveva suscitato grande interesse. E poi, soprattutto, mi nutrivo di autori invisi ai miei genitori per il loro discutibile allineamento politico: sto parlando in particolare di Mishima e Drieu La Rochelle. Se si vuole si può anche leggere questa mia inclinazione adolescenziale come un tentativo velleitario e oltremodo sottile di oppormi alla prospettiva di vita da borghese riflessivo che per me avevano disegnato i miei genitori. La quale passava anche, naturalmente, per le buone letture. ↩︎
- Da Gavirate passavo ogni mattina quando abitavo a Varese e lavoravo a Ispra, sul Verbano; si tratta di un periodo precedente al mio trasferimento in Svizzera, nel quale ancora non conoscevo Morselli. Anche se ho ricordi piuttosto vaghi di quei luoghi, ho chiaro nella memoria che non mi erano piaciuti, e non avevo avuto nessuno stimolo a visitarli né, ovviamente, a stabilirmici. ↩︎
- Quando ero bambino, mio padre mi aveva costruito un plastico ferroviario in scala N. Si sa che i plastici ferroviari il più delle volte rappresentano paesi idilliaci, spesso montani, solcati dai binari su cui viaggiano i trenini. È però meno ovvia l’attenzione che viene messa nella costruzione degli scenari dei paesi e della loro vita sociale, specie nella rappresentazione dei plastici più riusciti. Questo perché, a ben vedere, l’ambientazione ferroviaria e il passaggio dei treni sono un pretesto per immaginarsi le storie che possono accadere intorno ai binari. Da bambino mi divertivo molto a farlo – intendo inventare le storie dei passeggeri e degli abitanti mentre i trenini giravano in tondo – perché placava la mia ansia di controllo su un mondo che, invece, non riuscivo a padroneggiare né tantomeno a inquadrare. Ripensare adesso alla mia fascinazione per il plastico pare anche razionalizzare la mia folgorazione per Drieu La Rochelle: «Avrebbe riso in faccia a chi gli avesse detto che esisteva un rapporto segreto, ignorato o negato a torto da lui, tra l’idea di giustizia, ad esempio, e il gusto della simmetria che gli faceva tenere così in ordine la camera. Si vantava di ignorare l’idea di verità, ma si estasiava davanti a una pila di scatole di fiammiferi». ↩︎
- E mediche: si noti che lo psichiatra del protagonista esercita a Crisopoli, probabilmente perché è quello il luogo in cui il supporto necessario ad accettare la realtà della vita sociale si rende manifesto. ↩︎
- Qui a me inevitabilmente viene a mente Mishima e i suoi paragrafi sul volo in Sole e acciaio: «Sotto di me, in lontananza, villaggi e fiumi sinuosi assai più tollerabili appaiono di quando sono vicini». ↩︎
- Figlio di un alto dirigente farmaceutico, Morselli tentò (presumibilmente con scarso slancio) una carriera simile a quella del padre, ma finì per lasciar perdere e campare della rendita familiare. ↩︎
- O almeno, così me la racconto: ho scritto che mi ci sono arenato perché una volta arrivatoci non ho più avuto motivazione ad andarmene. E questo nonostante fossi reduce da un incessante peregrinare per diversi paesi. Si potrebbe quindi dibattere in che misura il mio essermi arenato sia accidentale o piuttosto frutto di una scelta deliberata, seppur non riconosciuta. ↩︎
- Sia io che mio cugino parlavamo fluentemente inglese e francese – in effetti venivamo in collegio per i corsi di perfezionamento e non per quelli di base – per cui avremmo potuto alzarci e andarcene insieme agli altri non italofoni. Mio cugino però insistette per rimanere, di modo da legare meglio con gli altri ragazzi italiani (e aver modo di lagnarci insieme del trattamento riservatoci da Monsieur Martini). ↩︎
- Scoprimmo solo in seguito che in realtà scappare a Ginevra era relativamente semplice: bastava chiedere di uscire per andare in farmacia (io esageravo gli effetti di una leggera allergia alle graminacee), sgattaiolare invece alla stazione e salire su uno dei frequenti treni che in una ventina di minuti portavano alla Gare de Cornavin; in genere si avevano un paio d’ore di tempo prima che la nostra assenza venisse notata. ↩︎
- Vale la pena notare che in Svizzera Sonntag ist Ruhetag, per cui sono proibite attività potenzialmente rumorose, tra cui il giardinaggio. Ne segue che i proprietari di villette devono necessariamente curare i loro giardini di sabato (a meno che, ovviamente, non vivano di rendita e possano quindi farlo nei giorni della settimana). ↩︎
- A chi ha letto Fleur Jaeggy è noto che «generalmente i proprietari di ville si conoscono», frase lapidaria che racchiude in sette parole una potente chiave di lettura dei rapporti di classe. Ciò parrebbe non applicarsi in questo caso, visto che anche i collegiali erano per lo più proprietari di ville, spesso anche di maggior pregio. Pure, la loro distanza geografica e culturale rispetto alle ville degli autoctoni doveva esser sufficiente a far venir meno qualsiasi solidarietà di classe. ↩︎
- Si noti che questo non ha a che vedere con un patriottismo che mi è relativamente estraneo: basti pensare che quando degli stranieri mi chiedono di dove sono, di solito rispondo che sono fiorentino ma vivo in Svizzera, senza neppure menzionare l’Italia. Curiosamente invece, quando avevo (per un breve periodo) vissuto in Canada, avevo lungamente giocato con l’idea di rimanerci, anche per il fascino che su di me esercitava la prospettiva di diventare canadese, o ancora meglio québécois. Ricordo ancora che mi commossi alle lacrime quando per la festa nazionale vidi proiettato sul palazzo del parlamento un mosaico di facce diverse che dicevano in vari accenti I am Canada/je suis le Canada e poi si ricomponevano a formare una foglia d’acero. In effetti, quando me ne andai, gli amici (francofoni) che mi ero fatto mi regalarono un’enorme bandiera canadese in formato trecento per duecento che ancora fa mostra di sé a casa mia, coprendo mezza parete dello studio da dove adesso sto scrivendo. Invece, non mi è mai passato per la testa di esporre la bandiera svizzera o quella del Canton Basilea, neppure per la festa nazionale il primo agosto. ↩︎
- Per un po’, quando mi sono trasferito a Basilea, mi sono baloccato con l’idea di ricrearmi veramente un mio plastico, uno reale. Purtroppo, al contrario di mio padre, non sono mai stato molto bravo con le attività manuali di precisione, né del resto sono una persona costante. Quindi, il plastico ferroviario non l’ho mai realizzato, e mi sono invece contentato di immaginarmene uno. ↩︎
- Dovrei chiedermi che peso ha avuto nella mia decisione il fatto che a Mustér ci sia un collegio del tutto simile al collège du Leman. ↩︎
- Va detto che in un paese di montagna è notevolmente più semplice. Per dirla con Dürrenmatt: «Qualsiasi imbecille poteva sentirsi un essere superiore nella solitudine dei monti». ↩︎