di Giulia Oglialoro

© Giulia Consorti
Does the world remember it once was… wild?
Will you remember you once were… a child?
Nina Laden, Once Upon a Memory
Per lunghi pomeriggi, nell’estate dei dieci anni, sentivo il mare sciabordare alle pareti della mia stanza. Banchi di onde s’innalzavano impetuosi alle finestre, scuotendo le persiane seccate dal sale. Poco importa che vivessi tra condomini incolori, lontana dal benché minimo corso d’acqua: immersa nella lettura dell’Isola del tesoro, percepivo con chiarezza il soffitto che si spalancava tra i richiami dei gabbiani. Sospinto dai venti il mio letto prendeva il largo, e se aguzzavo la vista, impugnando il prezioso cannocchiale fatto di vecchi giornali, riuscivo persino a vedere, all’orizzonte, la nave Hispaniola che spiegava le vele, scintillante in pieno sole.
Non so quanti giorni trascorsi tra le pagine di Robert Louis Stevenson, ma so per certo che a ogni capitolo perdevo del tutto il senso della realtà, come se non si trattasse solo di un romanzo, ma di un intenso esercizio di trasmigrazione. Quando guardo le foto d’infanzia, capisco che sono una testimonianza fallace del mio passato – alcuni dei momenti più intensi li ho davvero vissuti nei mari del Sud, scrutando la mappa del Capitano Flint, mentre il sole mi bruciava la pelle. L’edizione che avevo pescato del tutto casualmente dalla libreria di famiglia non somigliava affatto a quelle illustrate e accattivanti di oggi, anzi: la spessa cornice rossa in copertina e il titolo in un anonimo e sottile carattere bastoni facevano pensare più a una pubblicazione scolastica che non a un capolavoro d’avventura, ma i personaggi erano così vivi, e la storia talmente appassionante, che finii per innamorarmi persino dell’aspetto scialbo del testo. Così sbiadito, rovinato, spiegazzato, quel libro specialissimo poteva davvero somigliare a un manoscritto consunto, al resoconto di un viaggio mozzafiato per caso capitato nelle mie mani.
Ricordo però che a sconvolgermi, ancora più della trama, era il lessico marinaresco di Stevenson: parole come ammiraglio, bordata e quartiermastro mi sferzavano, come vento di maestrale, indizi di un mondo dove tutto accadeva con più intensità; un mondo dove i pirati giustiziavano i prigionieri con «il supplizio dell’asse1», costringendoli a camminare su una passerella sottilissima sotto cui si agitavano coccodrilli dalle fauci spalancate, e dove un uomo non era solo un uomo, ma un vero lupo di mare o una vecchia salsedine, a seconda della tempra. D’improvviso, la benda che portavo per rimediare all’occhio pigro non rappresentava più un fastidio, ma la conferma del mio destino da bucaniera: ormai avevo deciso, per un po’ ancora sarei andata a scuola, avrei fatto i compiti e ascoltato le maestre, ma ci sarebbe stato un momento – non era chiaro quando, ma ci sarebbe stato – in cui all’uscita da scuola mi sarei semplicemente imbarcata su un galeone, e già presagivo la nostalgia che avrei provato scrutando l’orizzonte nebbioso, e le lunghe lettere indirizzate ai miei genitori che avrei affidato al mare, per dire loro di non preoccuparsi, che quella era la mia vita ormai, fra acque sconosciute, in cerca di terre non disegnate sulle mappe.
Certo non immaginavo, al tempo, che una lettura così amata si sarebbe trasformata in tormento, perché a lungo nessun altro romanzo mi avrebbe procurato lo stesso piacere: a scuola avremmo letto una versione ridotta e semplificata dei Viaggi di Gulliver, e ricordo che il primissimo racconto che scrissi nacque proprio dall’amara insoddisfazione verso il finale di Jonathan Swift: non mi piaceva che dopo tutto quel vagabondare Gulliver tornasse a casa, lo preferivo in viaggio, a sbandare tra le isole, preda di flutti incostanti. Immaginai che la zattera che si era fabbricato da sé non lo portasse affatto in Inghilterra, ma sulla scia di un veliero rubato proprio da Long John Silver, il perfido e ammaliante pirata del romanzo di Stevenson, che con lo scintillio nero del suo sorriso avrebbe convinto Gulliver a salire a bordo, per un’improbabile spedizione in qualche isola dei Caraibi. Altro che satira, critica sociale, questo era il Gulliver che desideravo: non il pensoso gentiluomo, ma il bucaniere perduto in mare, per sempre in fuga dalla corona inglese.

© Giulia Consorti
«Nascosto, più o meno, conficcato in qualche parte del nostro animo, c’è un Silver in tutti noi2» scrive Antonio Faeti nella postfazione all’Isola del tesoro, pubblicata nell’edizione Rizzoli con la traduzione di Michele Mari. Nel 2000, Faeti è stato il primo titolare della cattedra di Letteratura per l’infanzia in Italia, e già questo basterebbe per elevarlo al rango di un personaggio di Stevenson, un Jim Hawkins che non ha mai fatto ritorno dall’isola. Con oltre trenta romanzi, saggi, curatele, convegni di cui si trovano preziose tracce sul web, Faeti combatte da moltissimi anni contro il pregiudizio per cui la letteratura d’infanzia non sarebbe letteratura, ma al massimo una costellazione di testi carini, facili o, ancora peggio, educativi. In un seminario di Pedagogia della Lettura tenutosi all’Università di Bologna nel 2023, Faeti sottolinea come i capolavori destinati a un pubblico giovane non siano affatto innocui, non insegnino a rispettare le regole o a diventare bravi cittadini, niente di tutto questo. Piuttosto, in questi testi, e specialmente nell’Isola del tesoro, risplendono con chiarezza, con lucidità disarmante, conflitti che appartengono all’intera esperienza umana. Tusitala, ovvero il narratore di storie, soprannome affibbiato a Stevenson dagli abitanti dell’isola di Samoa, dove si era trasferito sperando di guarire i polmoni malati, secondo Faeti avrebbe addirittura anticipato Freud, «perché il Doppio da lui creato continua a interrogarci, ad ammonirci, a renderci cauti e perplessi3». Se l’Isola del tesoro, pubblicato originariamente nel 1883, riesce ancora a palare ai bambini e ai ragazzi di tutto il mondo, è insomma perché ha colto un fatto essenziale, e cioè che il desiderio non giunge a noi sotto le oneste e rispettabili spoglie di un ufficiale della Marina, ma con il passo claudicante e la risata sconcia del pirata Long John Silver, l’uomo con la gamba di legno, che inizia il giovane Jim Hawkins ai segreti della vita in mare, ma medita segretamente di tagliargli la gola. Avventura e presagio di morte, in ogni racconto per l’infanzia che si rispetti, vanno di pari passo – non a caso, su ogni nave di pirati che abbiamo amato e sognato, sventola immancabilmente una bandiera con un teschio. Non è dunque agli eroi disciplinati che si legano i bambini, ma ai banditi, ai fuorilegge, agli irregolari che non trovano posto nella società, forse moderne incarnazioni degli sciamani che un tempo propiziavano i riti di passaggio. «Guai a nascondere, a censurare, a far finta di non vedere i Silver» scrive ancora Faeti, con sintetica grazia, nella postfazione all’Isola del tesoro. «Dal fortino al recupero della nave Hispaniola, dalla scoperta del misterioso uomo dell’isola all’uso della piroga, al salvataggio della spedizione, tutto sarà opera di Jim. Ma neppure così verrà placata la strana ammirazione del ragazzo per il pirata: al termine del libro è a lui che va un sincero saluto.4»

© Giulia Consorti
Quella stessa estate, il mare si prosciugò di colpo. Il maestrale sfumò nel vento più ampio e gelido d’alta montagna, e l’isola del Capitano Flint s’imboschì di pini altissimi. Più che una vacanza, l’arrivo nella casa dei nonni materni, in un villaggio remoto delle Dolomiti, segnava a tutti gli effetti un sequestro, l’inizio di un lungo esilio. Io desideravo il mare, una misera striscia di sabbia da conquistare, invece mi trovavo scaraventata in una valle piena di suoni che non conoscevo, dove tutto mi faceva paura. Ci ero stata altre volte, naturalmente, ma non avevo mai davvero preso confidenza con quel luogo, e soprattutto con un aspetto che avrei imparato ad amare solo col tempo, e cioè che la notte di montagna non ha niente a che vedere con la notte di città, perché quando cala il buio, a certe altitudini, è davvero buio su ogni cosa, un’oscurità densa e fluente, animata da respiri e movimenti di creature che possiamo solo intuire.
Come se non bastasse, nello Spielplatz dietro casa, gli altri bambini parlavano una lingua spinosa che comprendevo solo a tratti, prendendomi inevitabilmente in giro per il mio accento. Non c’entravo niente con loro: non sapevo arrampicarmi sugli alberi, non avevo sfolgoranti occhi blu e la mia pelle non somigliava a una terra mai visitata dal sole. Persino il potere trasfigurante dell’Isola del tesoro sembrava non sortire alcun effetto – intorno a me il mondo esplodeva, mi chiamava con altri nomi e voci sconosciute, non riuscivo ad astrarmi nell’immaginazione. Dev’essere stato per l’insofferenza di vedermi ciondolare per casa, spenta e confusa, che la Oma – il nome mitico dietro cui si celava la madre di mia madre – prese a portarmi con sé nelle sue passeggiate in paese. Per arrivarci, dovevamo attraversare un piccolo bosco, che nelle prospettive magnificate dell’infanzia si trasformò in una selva piena di pericoli, in cui sarebbe bastato distrarmi un attimo perché non trovassi mai più la strada di casa. Quelle spedizioni portavano a bottini ben poco emozionanti – qualche uovo, una bottiglia di latte, un sacchetto del pane – ma soprattutto a conversazioni della Oma con altri paesani che ascoltavo annoiata, alzando di tanto in tanto la testa quando i termini Kind e die Nichte mi segnalavano che fossi io l’oggetto del discorso. Eppure, col passare dei giorni, abituandomi al tono e alla musica di quelle frasi, cominciai a intuirne il senso, e soprattutto mi resi conto di un suono, una parola ripetuta spesso e con crescente preoccupazione: die Wölfe, i lupi, erano stati avvistati una notte nella valle; avevano devastato un pollaio non troppo distante dalla casa della Oma. Bisognava trovare eine Lösung, una soluzione, e dal modo in cui quella parola veniva sillabata di bocca in bocca, era facile intuire si trattasse di una soluzione con almeno tre colpi in canna. La Oma si limitava ad annuire con espressione seria, silenziosa.
Non ci misi molto a stipulare un’alleanza con gli altri bambini: da quel momento, per tutti i giorni d’estate che ancora si stendevano lunghi e limpidi davanti a noi, impiegammo tutti i nostri sforzi verso un unico scopo. Dentro casa ascoltavamo i genitori, annuivamo alle loro raccomandazioni, promettevamo solennemente di stare lontani dai pericoli – fuori casa sognavamo soltanto di incontrare i lupi. Gli adulti si armavano, serravano le case, piazzavano trappole – noi allentavamo le serrature, spalancavamo in segreto i cancelli, allestivamo rifugi nel bosco con rami secchi e letti di foglie, seminando avanzi di cibo alle nostre spalle, nella speranza che un branco si mettesse sulle nostre tracce. Non so cos’avrei dato per avvistare una di quelle creature leggendarie anche solo da lontano, lo desideravo così intensamente che a volte, se mi mettevo in ascolto, mi sembrava persino di intuirne l’ombra nera e morbida fra i sentieri. I miei piani per il futuro, ormai, erano cambiati: per sei mesi avrei vissuto in mare, gli altri sei in alta montagna, con i pantaloni perennemente macchiati d’erba, a cercare e scavare e costruire, lanciando ululati sul bordo dei precipizi. Tornavo a casa con la benda sempre sporca di terra, le unghie cerchiate di nero – non somigliavo più a una bucaniera, ma a una naufraga inselvatichita. Il momento prima di dormire era il più drammatico: andavo a letto col cuore agitato, cercando di resistere mentre la stanchezza sfumava i bordi delle cose; gli adulti non lo capivano, e io non avevo parole per spiegare che non appena avremmo ceduto al sonno, i lupi sarebbero comparsi, scendendo dai boschi, dal buio del tempo, sfilando silenziosamente accanto alla nostra casa.

© Giulia Consorti
Where the Wild Things Are è un albo scritto e illustrato da Maurice Sendak, nonché una testimonianza della folgorante follia che possono raggiungere i libri per l’infanzia. Pubblicato nel 1963, esattamente ottant’anni dopo L’isola del tesoro, è stato portato in Italia da più editori con il titolo Nel paese dei mostri selvaggi – una traduzione senz’altro accurata rispetto al senso del libro, ma che inevitabilmente perde l’ampiezza dell’originale things. Tutto è selvaggio nel mondo di Sendak, a partire dal bambino protagonista, Max, che non ne vuole sapere di togliersi il costume da lupo: «Selvaggio!» lo rimprovera per l’appunto la madre, per poi spedirlo a letto senza cena. Ma solo un adulto poteva immaginare che questa sarebbe stata una punizione, perché pagina dopo pagina la stanza di Max s’inforesta sempre più, le arborescenze crescono fino a sfondare il soffitto, e d’un tratto le pareti si aprono sul mare; ecco che Max, senza porsi domande, senza esitare neanche un secondo, sale su un veliero che lo conduce su un’isola boscosa, where the wild things are, e con queste cose, con questi mostri enormi, pelosi e aberranti, il bambino danza e canta intensamente davanti al fuoco, si arrampica sugli alberi, ruggisce alla luna e corre nel fitto della foresta; le creature mostruose lo assecondano, lo accolgono, loro che sono oltre l’umano e dunque sanno vedere l’infanzia, and made him king of all wild things.
Selvaggi siamo stati tutti, suggerisce Giorgia Grilli nello splendente saggio Di cosa parlano i libri per bambini, suggerendo che l’infanzia non sia solo un momento nel tempo, ma una dimensione esistenziale, «uno stato aurorale dell’essere5». Secondo l’autrice, esisterebbe «un legame profondissimo – e unico nella storia dell’immaginario occidentale – tra la letteratura per l’infanzia e le teorie sull’origine della specie6». Sarebbero stati proprio gli studi di Darwin, pubblicati nel 1859, a suscitare interesse verso l’origine dell’essere umano, ispirando autrici e autori di ogni paese a scrivere storie che non solo avessero protagonisti bambini, ma che si rivolgessero a lettori bambini, e che dunque sapessero illuminare, attraverso immagini, metafore e suggestioni poetiche, «il nostro passato dimenticato, il nostro modo di essere originario7». Non a caso, i primi libri per l’infanzia che possiamo definire tali nacquero dopo la pubblicazione dell’Origine della specie: Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol risale al 1865, mentre Le avventure di Pinocchio uscì a puntate a partire dal 1881. Fanno eccezione le fiabe popolari, certo, ma le fiabe, nota giustamente Grilli, «sono giunte nelle mani dei bambini solo quando, nell’Ottocento, gli adulti le hanno ritenute adatte a loro, scambiandole per racconti semplici e trascurando di coglierne le infinite stratificazioni semantiche8». Prima di quel momento, l’infanzia perdurava nel suo mistero, inascoltata, non vista, ignorata nei libri come nella realtà.
Non so fino a che punto sia possibile dimostrarlo, ma lo trovo un pensiero struggente: per secoli ci siamo unicamente immaginati figli di Dio, impastati d’argilla celestiale; con le teorie evolutive scoprivamo invece un’ascendenza che si perdeva nei mari e nei boschi. Abbiamo cominciato a parlare ai bambini non per educarli o confortarli, ma per riscoprire un momento in cui non eravamo separati dal mondo, affinché i bambini stessi ci guidassero where the wild things are. «Nell’infanzia sapevo cose terribili» dice Maurice Sendak, intervistato dal New Yorker. «E sapevo che non potevo rivelarle agli adulti. Li avrei spaventati a morte9».
A settembre, prima di cominciare le scuole medie, tolsi la benda dall’occhio. Abbracciando la visione binoculare, scoprii il senso della profondità: fino a quel momento avevo vissuto in un mondo di percezioni mescolate e inaffidabili; ora le cose acquistavano spessore, distanza. «Finalmente» dicevano i grandi, salutando il mio occhio scoperto, socchiuso come in una nuova nascita. Non ho mai più intuito il profilo nero e lontano di un lupo nel fitto del bosco, né quello di un veliero nel cuore della città: eppure, quando scrivo, cerco ancora quello sguardo.
Editing di Fabiana Castellino
Giulia Oglialoro è nata nella provincia di Varese, ma ha trascorso le lunghe estati della sua infanzia in Trentino Alto-Adige, perdendosi nei boschi e nelle storie dei suoi nonni materni. Lavora come redattrice e collabora con varie testate online e cartacee scrivendo di letteratura, arti visive e di luoghi sommersi dal tempo. Nel 2024 ha pubblicato la novella Le stelle nere (Industria & letteratura), Premio Ceppo Under35. Vive nei dintorni di Milano.




«C’è una peculiare unanimità nell’affermare che stiamo perdendo l’immagine della persona e che, allo stesso tempo, non possediamo più un’immagine del nostro corpo attraverso la quale poterci ancora comprendere10».
Belting si interroga sulla competenza figurativa e rappresentativa dell’immagine contemporanea e sulla crisi del corpo e della persona nelle immagini, cioè del rapporto referenziale tra immagine e identità personale.
I lavori della fotografa Giulia Consorti testimoniano la necessità di ascolto intimo del (proprio) corpo, della propria identità metamorfica e proteiforme, interrogando su un piano esistenziale la conoscenza di sé attraverso il ricorso alla tecnica compositiva.
Dalla singolarità di un essere umano, irripetibile e unico, nei suoi dittici Consorti astrae una successione di forme spoglie che richiamano i frantumi delle sculture arcaiche, coniugando la frammentazione del corpo, tipica della moderna rappresentazione della persona, con l’universalità delle parti che dialogano con le forme del regno animale non umano e della natura, come alla ricerca di una comune verità biologica. Rami spogli piegati dal vento si prolungano nelle gambe sospese di una donna sdraiata; le dune di un paesaggio desertico si raddoppiano negli incavi dei fianchi; la testa di una persona lascia il posto alla corolla di un fiore o all’apice di un albero di palma; un pube si specchia nel triangolo di una pianta.
Sono scambi e permutazioni visive tra esseri viventi, rapporti di continuità con altri organismi che emergono dalla foto del corpo nelle sue parti separate; separazione che sembra liberare l’alterità, la (propria) estraneità con cui tocca fare i conti.
Maria Teresa Rovitto
Giulia Consorti nasce a Firenze nel 1982 dove tutt’ora vive. La necessità di trovare un mezzo di espressione, di rendere “visibile” il proprio sentire, la fa avvicinare al mezzo fotografico. È ancora in ricerca, la fotografia come terapia ed espressione dell’anima può essere interpretata in tanti modi diversi ai quali al momento non vuole mettere limiti.
- Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Collana Bur Ragazzi n.4, Milano, 2012, postfazione di Antonio Faeti ↩︎
- Ivi ↩︎
- Il seminario di Antonio Faeti, XII corso di Pedagogia della Lettura, è consultabile qui: https://www.youtube.com/watch?v=JbkT5SBh1PI ↩︎
- Dalla postfazione di Antonio Faeti in Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, op. cit. ↩︎
- Giorgia Grilli, Di cosa parlano i libri per bambini, Donzelli Editore, Roma, 2021 ↩︎
- Ivi ↩︎
- Ivi ↩︎
- Ivi ↩︎
- L’intervista è consultabile qui: https://www.newyorker.com/culture/culture-desk/art-spiegelman-discusses-maurice-sendak ↩︎
- Belting, H., (2002), Bild-Anthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Wil-helm Fink Verlag, Padeborn; trad. it. (2011), Antropologia delle immagini, Carocci editore, Roma, p. 109
↩︎