di Fernanda Trías
Traduzione dallo spagnolo di Silvia Dammacco

© Ubaldo Righi
Lo Scrittore uscì dal bagno e finì di asciugarsi di fronte al ventilatore. Al contatto con l’aria le gambe gli si intirizzirono e pensò, per la seconda volta nella giornata, che non aveva mai scritto un racconto su un altro scrittore e che questo lo faceva sentire inadeguato, fuori luogo tra gli autori contemporanei. Questa mancanza, credeva, lo condannava a essere uno scrittore poco rispettato tra i suoi colleghi che lo trattavano cordialmente ma con freddezza. Avrebbe voluto diventare uno di quegli autori versatili che si muovono con disinvoltura tra un genere e l’altro. Pensò che se fosse riuscito a scrivere un racconto su un altro scrittore, avrebbe potuto dimostrare la sua competenza in tema di risorse metaletterarie, cosa che lo avrebbe perfettamente collocato al centro del presente. Ancora una volta il capogiro si manifestò con una sudorazione improvvisa. Appoggiò le mani sui fianchi per evitare che il deodorante gli si appiccicasse alle ascelle. Finché fosse rimasto nel raggio di azione del ventilatore, sarebbe stato bene. Gli sembrò che quel giorno le pale del ventilatore girassero con una lentezza eccessiva. Forse la lanugine che copriva quasi completamente la griglia ostacolava la fuoriuscita dell’aria. Si domandò se l’intolleranza al caldo potesse essere ereditaria. Ricordava suo padre che fumava nella vasca piena di cubetti di ghiaccio e poi in mare, immerso fino agli occhi, come un ippopotamo. In bagno era appesa la camicia che lo Scrittore avrebbe indossato. L’aveva stesa lì sperando che il vapore la rinfrescasse un po’. Erano quattro giorni che la portava. La prese e, prima di infilarci il braccio destro, l’annusò. Se aveva scelto una camicia era perché tutte le magliette erano sporche e non di certo perché avrebbe dovuto incontrare Marcela. Non capiva se vederla gli procurava entusiasmo; in tema di donne aveva la sensazione di muoversi con il pilota automatico. In un certo senso questa cosa lo alleggeriva, gli consentiva di razionare le energie che avrebbe poi usato per mettersi al riparo da alcuni pensieri. Uno di questi era la sua incapacità di scrivere un racconto verosimile su un altro scrittore. Scriveva solo di trentenni e delle loro vite insoddisfatte, falliti o prossimi al fallimento, incapaci di fare il bucato una volta a settimana, uomini che al mattino facevano flessioni accanto alla bottiglia di whisky della sera prima, vite, insomma, simili alla sua, storie che, senza dubbio, gli avevano fatto guadagnare una certa reputazione, una reputazione che pensava non potesse essere mantenuta ancora per molto. Un critico dell’unico supplemento degno della città aveva dichiarato che le sue storie si distinguevano per l”empatia” quando in realtà – aveva confessato lo Scrittore alla sua ex fidanzata – lui era un egoista, capace solo di empatizzare con se stesso. Dieci anni di psicoanalisi e una vita intera esplorando la natura dell’unico umano che gli interessava, se stesso, gli avevano conferito una lucidità straordinaria nei meandri della sua persona.

© Ubaldo Righi
Finì di abbottonarsi la camicia e si guardò allo specchio. A prescindere da cosa indossasse, Marcela lo avrebbe guardato con lo stesso desiderio con cui i cacciatori guardano gli animali esotici. Le sue amanti (lui le chiamava “amiche”) elogiavano il suo modo di vestire. Che indossasse scarpe da ginnastica bianche con calzini neri o una camicia con colletto e polsini usurati, a loro non importava. Amavano il suo stile e non ne facevano mistero, ma la verità è che lui indossava solo abiti di seconda mano appartenuti a qualche cugino o a qualche fratello. Oltre ai parenti più stretti, l’altra persona che non credeva al suo ingegno e alla sua creatività nell’abbinare pantaloni e magliette era la sua ex fidanzata. Anzi: la sua fidanzata. Avevano ricominciato a vedersi da una settimana, dopo un anno di separazione che per lei era stato un inferno e per lui un inferno con molto sesso. In ogni caso, davanti a lei si sentiva sempre nudo, disarmato, spesso accecato dalla rabbia, ma preferiva questo allo sguardo adulatorio delle sue amiche che a volte immaginava come le soubrette di un mago che entrano sorridenti nella cassa e poi si lamentano di non essere state squartate per davvero. Quando era con Marcela partiva euforico, parlava senza sosta dei suoi progetti e dei suoi ultimi successi, lasciava fluire l’entusiasmo su di sé a livelli imbarazzanti sempre consapevole ma come in trance e poi, quando sentiva il primo accenno di panico che comportava vedere se stesso in uno stato di autocompiacimento e di inaudita disonestà, saltava addosso a Marcela, la afferrava come se non potesse resistere a quel raptus passionale e così finivano a letto. Mentre si dirigeva verso il ristorante di arepas, lo Scrittore pensò che il modo più semplice di scrivere un racconto su un altro scrittore era quello di creare un personaggio che fosse uno scrittore affermato e attribuirgli tutto ciò che gli accadeva. Lo avrebbe chiamato lo Scrittore o addirittura, in un momento di audace ironia, lo avrebbe battezzato il Signor Scrittore.
Il Signor Scrittore uscì dal bagno e indossò la camicia di fronte alla finestra aperta. Non indossava biancheria intima e immaginò, con una certa morbosità, che qualcuno lo osservasse dall’edificio vicino. Finì di asciugarsi all’aria perché, impaziente com’era, non si sarebbe strofinato l’asciugamano abbastanza a lungo. Quel giorno il ventilatore non muoveva molta aria; girava con un cigolio esasperante e capì che probabilmente era sul punto di abbandonarlo. Era un vecchio ventilatore ma di quelle marche che sarebbero potute durare trent’anni. Un investimento sicuro. Avrebbe chiesto a sua moglie di chiamare un tecnico, pensò. Proprio in quell’istante lei si diresse dalla camera alla cucina. Nel vederlo di fronte alla finestra, a gambe divaricate, bianche e pelose, con il membro nascosto sotto i lembi troppo larghi, disse solo una cosa: ti metti questa camicia? Il Signor Scrittore si sentiva sempre nudo di fronte a sua moglie; era oltraggiato dalla distanza con cui lei lo ascoltava parlare dei suoi libri e dei suoi progetti e, dopo undici anni di convivenza, ancora non capiva se quello sguardo fosse di interesse o di assoluto disprezzo. Una cosa era certa: per sua moglie scrivere un libro non rappresentava un’attività degna di nota e, se questo a volte provocava nel Signor Scrittore una ribellione interiore, un desiderio di buttarsi per terra a piangere con gli occhi e i pugni serrati, la maggior parte delle volte gli procurava ancora piacere, voglia di infilarle le dita tra le natiche, di aprirla in due in modo da poter raggiungere quel nucleo sconosciuto, il cuore di quel disprezzo che non gli consentiva di mentire davanti a lei e dunque nemmeno di rilassarsi. Si ritrovò eccitato ma cercò di non pensarci. Tempo per il sesso non ce n’era anche perché erano quasi le otto e non era ancora sceso a comprare il giornale che leggeva puntualmente al bar davanti a un caffè doppio e a due croissant. Gli sembrò di vedere un’ombra muoversi alla finestra di fronte. Collegò quell’ombra al racconto di un famoso scrittore, tra l’altro molto più famoso di lui, di quelli che definiva con un certo risentimento “geni”, in cui uno scrittore bloccato spiava di notte la sua dirimpettaia. In visibilio, la guardava mentre si spogliava di fronte alla finestra e poi ballare nuda per casa. Un giorno, lo scrittore bloccato andava a far visita a qualcuno nell’edificio di fronte. In ascensore incrociava la misteriosa figura e scopriva di aver fantasticato su un’anziana donna asiatica. Dopo l’inevitabile seccatura che gli causò pensare a tutto quello che non era riuscito a realizzare, il Signor Scrittore ritornò al famoso racconto, sorrise e sentì che la sua vita aveva senso all’interno di un mondo davvero piccolo, un mondo probabilmente selezionato, sicuramente bizzarro. Quelli che appartenevano a questo mondo erano una rarità statistica, ragion per cui trovava affascinante scrivere di loro: scrittori, uomini la cui massima preoccupazione era quella di creare un’opera di valore letterario.


© Ubaldo Righi
Guardò la cucina. Sua moglie toglieva e portava cose a tavola. Indossava un pigiama succinto, un pantaloncino rosso e una maglietta bianca da cui si intravedevano i capezzoli. Erano capezzoli piccoli, anche questo un particolare che lo aveva sempre attratto, raffinata anche in quello che non riusciva a controllare. L’eccitazione non accennava a placarsi ma era più distante, come un microorganismo in una piastra di Petri. Ancora una volta si rivide mentre frugava le dita tra le natiche di sua moglie immaginando che quella stessa ombra di fronte li guardasse. Si rese conto che quello che desiderava era disgustare lo spione. Un giorno, forse, avrebbe potuto usare questi squallidi sentimenti in qualche racconto, quell’improbabile giorno in cui avrebbe scritto una storia su un uomo comune. Il sudore gli colava sulle tempie. Si avvicinò al ventilatore per accertarsi che fosse alla massima potenza; era chiaro che quel vecchio aggeggio era sul punto di morire. Prese il libro da cinquecento pagine che stava leggendo (un romanzo storico) e uscì.
Marcela si alzò quando lo vide arrivare. I capelli lunghi e neri svolazzarono come una tendina per poi ricadere dietro le spalle. Il bacio gli lasciò un segno del rossetto che lei si preoccupò di ripulire strofinandogli la guancia. La sua bocca dalle labbra sottili ricordava vecchi disegni giapponesi. Non appena si sedettero, lo Scrittore tirò fuori di botto tutte le angosce del suo racconto. Andava bene chiamare il personaggio Signor Scrittore? Non chiese a Marcela un suo parere perché, di fronte a lei, tutte le sue insicurezze per un istante cessavano e lui si ritrovava mite, capace di produrre le idee più brillanti. Lei sorrise con quella sua boccuccia giapponese ben delineata. Doveva semplicemente attribuirgli le proprie esperienze, disse, nessuno l’avrebbe saputo perché in fondo, cos’era uno scrittore? In fondo, ribadì, chi può dire che un Signor Scrittore non avrebbe sceso i quattro piani di scale di casa sua e nel vedere la porta socchiusa dell’appartamento 1B non avrebbe bussato con cautela per assicurarsi che non fossero entrati dei ladri? Poi avrebbe notato un filo verde uscire dalla fessura e un flebile bagliore nascosto dietro la luminosità del giorno. Il Signor Scrittore avrebbe spinto la porta per scoprire che quel bagliore proveniva da alcune luci natalizie che partivano dal pavimento e si arrampicavano sul bracciolo di una poltrona fino all’altro estremo della stanza. Ci avrebbe messo un po’ a scoprire la presenza dell’uomo addormentato sul pavimento, su un tappeto persiano decisamente sporco. Avrebbe annotato mentalmente: tappeto di pessima qualità.
Lo Scrittore indicò a Marcela una pianta che decorava la parete del ristorante e le domandò se credeva fosse vera. Lei voleva toccarla ma lui la bloccò. Sì, è vera, disse Marcela, guarda le foglie. I due restarono sorpresi quando constatarono che era di plastica. La qualità delle piante finte è notevolmente migliorata, disse lo Scrittore. È da un po’ che ci rifletteva; non ci servono più le piante vere a meno che non si abbia voglia di parlarci, comunicarci in qualche modo, appurare la nostra capacità – o incapacità – di mantenere in vita qualcosa. D’un tratto fu colto da una eccitante curiosità che lo spinse a chiedere a Marcela quanto avrebbe pagato per diventare un personaggio di uno dei suoi racconti. Era un fervente sostenitore dell’esperienza personale intesa come fonte inesauribile di materiale letterario cosa che però lo obbligava alla continua ricerca, a vivere troppo (se possibile), così tanto che la cosa iniziava a sfiancarlo. Quanto pagheresti? Tornò a chiederle. Marcela gli rispose a tono: sei tu che dovresti pagare me. Gli raccontò poi una storia della sua infanzia che allo Scrittore interessò appena. Osservando le sue labbra sottili pensò che per lui le donne irresistibili avevano bisogno solo di due cose grandi: i glutei e l’ego. Non era il caso di Marcela, totalmente sprovvista di fianchi. Sembrava un mini frigo bar con piccole tendenze nevrotiche che però lo affascinavano come quel tubetto di gel disinfettante che portava in borsa. Prima di toccare il cibo ne versava un po’ sulla mano offrendone anche a lui. Subito dopo spalmava una crema idratante perché l’alcool le seccava la pelle. Tenne a mente questa cosa e subito pensò se notare questi dettagli non sembrava un po’ troppo femminile. La questione lo preoccupò parecchio perché lo Scrittore, in realtà, era una donna.

© Ubaldo Righi
La scrittrice non aveva mai scritto un racconto su un altro scrittore e questo la faceva sentire leggermente inadeguata, fuori luogo tra gli autori contemporanei. Sì, aveva scritto su un’altra scrittrice, ma sapeva che questo contava poco. Un racconto su un’altra scrittrice avrebbe continuato a interessare solo il suo gruppo di lettrici di sempre, mentre lei voleva essere una scrittrice universale. Mentre ci ragionava su, di nuovo il capogiro si manifestò con una sudorazione improvvisa. Allargò braccia e gambe in modo che il ventilatore l’asciugasse. La brezza la sfiorò appena, tenue come il respiro di un gatto. Le pale stavano rallentando e minacciavano di bloccarsi prima di riprendere il loro ritmo sbilenco. La scrittrice pensò fosse dovuto agli sbalzi di tensione, frequenti in quel periodo dell’anno. Si domandò se l’intolleranza al caldo potesse essere ereditaria. Ricordava come fosse ieri suo padre immerso fino al naso nella vasca piena d’acqua gelata. A lei – quattro anni e mezzo – era stato affidato il compito di portare le vaschette e versare i cubetti di ghiaccio nella vasca. Il freddo calmava suo padre ma i cubetti si scioglievano più velocemente del tempo necessario a ricomporsi nel congelatore. Non appena li versava, i cubetti producevano quello scricchiolio che da allora associa a quella sensazione di insoddisfazione o di incapacità di soddisfare qualcuno. Quando le sue relazioni iniziavano a naufragare, come adesso con l’attuale partner, aveva la sensazione di sentire lo scricchiolio del ghiaccio, i primi segnali di quella superficie inizialmente così solida che poco a poco sarebbe diventata sempre più sottile, sempre più trasparente, fino a cedere sotto i suoi piedi. Forse, se nella vita di coppia fosse riuscita a non sentirsi nuda, disarmata, spesso accecata dalla rabbia, sarebbe stato diverso, ma non ci riusciva – e a volte si domandava se lo desiderasse davvero –. Non aveva dormito più di tre ore. Quella notte, mentre scendeva a comprare il supplemento e a prendere un caffè al bar, vide la porta dell’appartamento 1B semiaperta. Dalla fessura passava un filo verde e una specie di luccichio, un lampo di luce. Spinse lentamente la porta ma qualcosa le impedì di aprirla del tutto. Un peso troppo morbido per essere un mobile. Guardò all’interno e vide delle luci natalizie che seguivano il battiscopa e poi si arrampicavano sul bracciolo di una poltrona. Era un corpo che bloccava la porta; riuscì a vedere i piedi e parte delle cosce, bianche e pelose, forse le cosce emaciate di un morto. Il ventilatore continuava con il suo movimento spettrale. La scrittrice tirò su i capelli per rinfrescarsi la nuca e ripensò di nuovo a quel racconto che le sfuggiva, un racconto su un Signor Scrittore, un uomo, pensò, un uomo la cui moglie non avrebbe mai letto un suo libro, cosa che con orgoglio lui comunque non avrebbe nascosto. Sua moglie lo amava per ciò che era, avrebbe detto il Signor Scrittore, come se nei libri non ci fosse anche lui, o meglio, come se nei libri lui non fosse presente nella sua totalità. Doveva solo dargli un nome e attribuirgli le sue emozioni. O no? Quella notte, mentre era sul punto di chiudere la porta dell’appartamento 1B, l’uomo si è mosso. Cioè, non era morto. Si è svegliato ronfando, un’inspirazione rumorosa quasi stesse soffocando. Lei, spaventata, ha sceso velocemente l’ultima rampa di scale. L’uomo risorto non ha fatto in tempo a vederla. Quando fu lontana, la scrittrice immaginò l’uomo affacciato al pianerottolo cercando di capire se quel rumore che aveva creduto di sentire prima di svenire era un intruso o il cigolio del suo ventilatore.
Lo Scrittore racconta a Marcela di essersi riappacificato con la sua ex fidanzata, cosa che ha restituito un certo ordine alla sua vita. Marcela ne è felice ma dice che questo (e dicendolo fa una smorfia esagerata, con la boccuccia sbilenca come un papillon disfatto), la coppia stabile, non è cosa per lei. Non sono fatta per questo genere di dedizione, dice, e poi parla dello scricchiolio, il suono che le sembra di sentire tutte le volte che qualcosa finisce (e tutto finisce, dice, non esiste superficie che tenga). Lo Scrittore pensa a suo padre, ai cubetti di ghiaccio che galleggiano nell’acqua della vasca, ma non proferisce parola; non vuole apparire vulnerabile. Mangiano le arepas in silenzio. I tavoli sono talmente appiccicati che lo Scrittore non può evitare una riflessione sulla privacy in una città in cui tutti scalciano per un po’ di spazio. Marcela gli dice di aver terminato gli schizzi della scenografia a cui stava lavorando e lo invita a vederli nel suo appartamento. Lui sente la beatitudine delle arepas. Si appoggia alla sedia, butta un po’ indietro le spalle per distendere lo stomaco e la camicia lievita. Adesso spera di poter arrivare a casa e scrivere il suo racconto sul Signor Scrittore. È questo che dice a Marcela, forse anche per evitare che il rifiuto sembri agli occhi di lei una questione di fedeltà, o di pigrizia, o di lentezza digestiva. Lei non sembra delusa, anzi, fa spallucce come se la cosa non le importasse affatto, come se l’avesse chiesto solo per educazione. Lui sente il bisogno di dire qualcosa di semplice e immediato: ho il racconto sulla punta della lingua. Marcela sorride, ha questa capacità che lui considera innata nelle donne di gioire sinceramente per il bene dell’altro. Si salutano. Pochi metri e il telefono dello Scrittore squilla. È la sua fidanzata. Guarda lo schermo, inizialmente con terrore, poi con un sollievo che rasenta il miracolo: lei è lì, l’ordine della sua esistenza. Ma non risponde. Percorre cinque isolati sentendosi un altro, pensa che sta iniziando a immergersi nel suo personaggio e che forse è così che si dovrebbe sentire empatia. Raggiunto l’angolo, il semaforo è rosso e lui non attraversa. Si sente un Signor Scrittore con tutta la vita alle spalle e la certezza che, mai più e per nessun motivo al mondo si riterrà una semplice promessa. Si tocca la pancia e la immagina più grande di quello che è. Alcune finestre sono già illuminate. È soddisfatto di riuscire a guardare dentro queste vite senza provare invidia, catalogando semplicemente quello che vede: un gatto sullo schienale di un divano, un ragazzo che fuma sporgendosi dalla finestra, uno strumento grande appoggiato alla parete (non è mai riuscito a distinguere un violoncello da un contrabbasso), una signora che guarda la TV mentre un ventilatore a soffitto si agita pericolosamente sulla sua testa.



© Ubaldo Righi
La scrittrice tira fuori il cellulare dalla tasca e vede le chiamate perse del fidanzato. Ogni volta che pranza con Marcelo, o con chiunque altro, ha sempre la stessa sensazione: che lì fuori non ci sia niente di meglio né di peggio del suo fidanzato. Marcelo, nonostante i cinque anni meno di lei, attende pazientemente il momento in cui riuscirà a portarsela a letto. Lei lascia che ci speri, non per moralismo ma perché, nel più profondo di se stessa, disprezza quel modo ossequioso di ammirarla. Forse lei e il suo fidanzato riusciranno a mantenere la superficie del ghiaccio intatta ancora per un po’. Mentre pranzavano, Marcelo le indicò una pianta e le chiese di indovinare se fosse vera o di plastica. La scrittrice non ne aveva idea e riuscì a eludere la domanda affermando che preferiva mantenere il mistero a riguardo. Compone il numero del suo fidanzato. Mentre svolta nel viale, nota un grande cartello pubblicitario di scarpe da ginnastica: “Il limite è il cielo”. Deve tornare a casa e scrivere questo racconto una volta per tutte. Come scrittrice ha sempre sentito che il tempo le era nemico al contrario dei suoi colleghi maschi che pubblicano qualsiasi cosa scrivano con una sicurezza interiore che lei probabilmente non raggiungerà mai. Più di una volta un critico l’ha definita lenta, imbrattandole il viso con quello sguardo paternalistico provocato dai suoi romanzi-ogni-cinque-anni. Chissà, forse potrebbe inserire qualcosa del genere nel suo racconto sullo Scrittore. Sarebbe la storia di uno scrittore prolifico che pubblica un libro all’anno, poi ogni due, poi ogni tre e così via, superando costantemente se stesso fino a pubblicare un libro al giorno.
Il suo fidanzato risponde al telefono. Sente la sua voce dall’altro capo, tra il rumore dei clacson. Gli dice che sente già il racconto sulla punta della lingua, lì, a portata di mano, bah. Lui sorride, ha questa capacità che la scrittrice attribuisce a pochi uomini non particolarmente ambiziosi, di gioire sinceramente per il bene dell’altro. Ma mentre percorre il viale, con il calore che inizia a scemare e l’insegna luminosa che si accende e si spegne a metà (Blu: il limite è. Rosso: il cielo.) anche la voglia di scrivere si sta affievolendo, così come la voglia di rinchiudersi in quel placido pomeriggio d’estate. All’improvviso è come se camminasse con tutt’altra sicurezza, spingendo la pancia in fuori e non in dentro come sempre. Si sente uno scrittore per davvero, uno che può permettersi di perdere tempo. All’angolo svolta a sinistra, poi di nuovo a sinistra. Che meraviglia l’aria in estate, riesce a sentirla, vitale, sulle braccia nude. Domani avrà tempo per scrivere il racconto. Tra l’altro non è nemmeno così sicura di poter attribuire a uno scrittore maschio le sue emozioni. Suonerebbe troppo inverosimile? Ricorda il giorno della laurea: l’unica cosa che suo padre le disse è che quelle scarpe sembravano pantofole. Ma tutto questo al suo fidanzato non lo racconta. A Lui dice:
Indovina? Cosa? Sono a un isolato da casa tua.
E il racconto?
Pensa al Signor Scrittore, uno scrittore prolifico, versatile, che si muove con scioltezza tra tutti i generi. Il Signor Scrittore si dirige verso il bar sul marciapiede di fronte. Blu, rosso. Il limite è. Il cielo. Il limite è. Il cielo. Suda e sotto il peso inclemente dei suoi piedi (che è il peso della sua opera), sente lo scricchiolio che precede il disgelo.
Un estratto del racconto in lingua originale, pubblicato da Casapaís revista, può essere letto al seguente link: https://www.casapais.org/en-tu-manera-desnuda/personaje-en-construccion
Fernanda Trías nasce a Montevideo, Uruguay, nel 1976. Accanita migrante, ha vissuto in Francia, a Berlino, Buenos Aires, Londra, New York, Spagna, per approdare infine in Colombia dove vive da circa dieci anni. Scrittrice, traduttrice, docente di scrittura creativa, ha pubblicato diversi romanzi tra cui Melma Rosa (ed. Sur, 2020, traduzione di Massimiliano Bonatto), profetica opera distopica su un’epidemia sconosciuta, scritta prima che il Covid sconvolgesse le nostre vite. Il suo ultimo romanzo El monte de las furias è stato pubblicato da Random House nel 2024.








La luce ha favorito gli uomini nella comprensione della natura: riflessa nell’acqua, rifratta dall’atmosfera, diffratta da fessure sottili, aiuta per paradosso a non fermarsi al visibile. Sembra questa una delle motivazioni della ricerca artistica del fotografo Ubaldo Righi: percepire porzioni di invisibile e donarle a chi non è in grado di coglierle. Studia il comportamento della luce, della sua forza trasformativa, per creare una connessione estetica con le forme dell’architettura attraverso un’inclinazione sensibile all’ideale.
Il soggetto della fotografia diventa un oggetto a cui viene imposta una unità spazio-temporale in un’atmosfera di assoluto silenzio attinente alla sfera del sacro. Sacro inteso come trascendenza legata ai problemi del limite provenienti dalla coscienza dell’artista e dalla materia, dall’esterno; sacro come ciò che ci ripara dal caos, dall’angoscia del nulla.
Sul piano stilistico e formale la composizione tende di frequente verso un alto livello di astrazione che mette in forma un’invenzione simbologica; quel simbolo che connette i suoi scatti sulla base di analogie e somiglianze fino a espandersi in una visione unitaria del suo gesto creativo. A volte il fotografo interviene limitando la quantità di luce in modo da evidenziare i dettagli delle masse più scure, altre creando un rilievo minimo tra figure e sfondo; affascinato dalla dialettica tra monumenti e elementi di edilizia ordinaria, coglie e interpreta i moltissimi riferimenti iconografici disseminati nel tessuto urbano e nel tempo che all’artista è dato vivere.
Maria Teresa Rovitto
Ubaldo Righi è progettista della comunicazione visiva e art director. Conduce ricerche sulle metodologie del progetto e sull’Estetica. Le sue competenze multidisciplinari, formate nella scuola-bottega di AG Fronzoni negli anni ’90 e maturate nei progetti di corporate identity per importanti aziende e musei italiani, sono incentrate sullo studio e la progettazione della marca, dell’identità visiva e della grafica editoriale. Il suo lavoro abbraccia anche il progetto integrato del layout tridimensionale negli ambienti virtuali e la costruzione dell’esperienza visiva dello spettatore/utente, fino a spingersi oggi nella sperimentazione del design dei metaversi. Pur non essendo fotografo professionista, considera la fotografia un campo di sperimentazione necessario e naturale all’interno del proprio percorso progettuale. Le sue immagini non si limitano a rappresentare, ma indagano il momento attuale attraverso la modificazione e la distorsione dell’immaginario visivo quotidiano a cui siamo assuefatti. In questa operazione, il concetto di “rovina” e di “catastrofe” diventa centrale: non più solo il segno del tempo che dissolve la materia, ma un cortocircuito percettivo che smaschera l’automatismo dello sguardo, mettendo in crisi le consuetudini visive. Attraverso questa ricerca, la fotografia diventa per lui uno strumento per ridefinire ciò che vediamo e come lo vediamo, suggerendo nuove letture del reale.
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