di Enrico Manzo

© Roberto De Ruvo
Mi dia i miei occhiali
Fernando Pessoa,
un attimo prima di morire
Alle 8, Juan Yin discuterà di connessioni tra particelle. «Arrivo» scrivo ai colleghi e salgo sul treno delle 6:30. Questo lombrico di metallo rumoroso ha solo due posti occupati: un tizio dorme profondamente e in fondo un altro sonnecchia davanti la luce del suo cellulare. Fuori, la luce dell’alba abbozza i miei occhi sul vetro, canticchio: «Non c’è alcun legame!». Il riflesso stringe la mascella e canticchia di rimando: «…non devo contattarlo». Torno all’articolo scientifico: «Le particelle quantistiche non hanno una loro identità finché non si compie una loro osservazione». A occupare il posto di fianco al mio, come un passeggero, c’è il foglio che taglierà via la mia storia con lui. Per allontanarmi dal senso di colpa di quel racconto a forma di coltello, leggo due volte lo stesso rigo dell’articolo che stringo tra le mani, come se stesse scappando via: «è possibile utilizzare l’entanglement per comunicare a distanze enormi superando il limite della velocità della luce?1» .
Diapositiva 12: Una risata isterica, durante la messinscena di Elettra, conclude la carriera di Elisabeth Vogler e sigilla la sua voce in un mutismo totale. La Vogler è stata portata in un istituto psichiatrico per accertamenti. I medici non trovano alcun danno fisico, né psicologico. Elisabeth ha scelto di non voler più parlare.
Il treno si ferma di colpo, il tizio che dormiva scatta sull’attenti e schizza via dalla porta per poi sparire nella stazione. Lo vedo stringere una valigetta, pensavo fosse un barbone e invece era un impiegato. L’altro individuo nel vagone alza gli occhi gonfi dal cellulare e guarda fuori al finestrino, poi scorre con le dita sullo schermo, e torna a sognare a modo suo. Io torno all’articolo: «…se due fotoni che, precedentemente hanno condiviso la stessa orbita, si allontanano, essi conserveranno in sé una parte del moto totale della particella con cui hanno interagito». Apro whatsapp e guardo il suo orario d’entrata: compio un’osservazione. Il mio riflesso sul vetro supplica di non pensare nemmeno di scrivergli. Chiedo al me stesso impresso sul finestrino: chissà se lui è sveglio e chissà se ha capito che sto per lasciarlo. Appoggio il cellulare sui fogli, dove la mia storia è in frantumi. Sento la voglia di ricucire questi frammenti e scoprire il senso del nostro legame, come si fa con i film: guardare le scene nell’insieme e, infine, trovare la risposta alla premessa morale della storia. Forse, sarebbe più semplice scrivergli e chiedere, ma il riflesso minaccia: se continui, getto il telefonino dal finestrino.

© Roberto De Ruvo
Diapositiva 2: I medici le consigliano un periodo di riposo, affiancano Elisabeth Vogler alla dolce Alma, un’infermiera non così esperta ma sempre pronta al dialogo. Chiuse entrambe in una casa in riva al mare, l’attrice continua a perpetrare il mutismo; l’infermiera, invece, si espone apertamente in lunghi monologhi. Elisabeth si identifica in Alma e, nel maelstrom psicologico, le due vite si legano alchemicamente, producendo un violento scossone emotivo per le due donne isolate.
Riguardo gli appunti abbozzati sul bordo dell’articolo. «Juan Yin ha spedito nello Spazio il satellite Micius, con a bordo strumenti in grado di creare particelle entangled con stato di polarizzazione opposto. I membri di una coppia poi sono stati inviati separatamente dallo Spazio verso due stazioni terrestri (Delingha e Lijiang) in Cina, siti distanti tra loro oltre 1.200 chilometri. Nonostante l’enorme distanza, i ricercatori hanno verificato la tenuta della connessione3». Sono distratto. Provo a ripetere a modo mio le nozioni elementari per le domande da fare durante il congresso: l’entanglement è un fenomeno quantistico che descrive il rapporto intrinseco continuativo tra due particelle separate, che hanno precedentemente avuto un contatto. Non importa quale sia la distanza tra loro, esse modificheranno il loro spin – la rotazione intorno al loro asse –, perché unite da un legame continuativo. Il mio cervello non smette di umanizzare questi concetti. Sono convinto che questo succeda anche tra due persone. Ecco la domanda che mi preme: se io penso a lui, lui pensa a me? Ma se così fosse, in quanti altri legamenti diversi vibrerebbe la nostra connessione? Cosa ci lega l’uno all’altro?
«Credi in questa stronzata?» chiede il riflesso. «Così mi va!» rispondo. Forse è proprio il volere ad attivare questo legame, più che l’osservazione. Poi, mi sorge un altro dilemma: se si vuole tagliare una connessione, è già tagliata dall’altro lato? Penso all’accumulo di futuri che ho inserito nel nostro legame in questi due anni e mezzo. Di cosa mi sono innamorato? Dell’avatar che ho composto con le mie aspettative? Oppure di tutte quelle volte che queste sono combaciate con la persona in questione? Riguardo i fogli al mio fianco e vedo chiaramente le loro particelle disperarsi per non estinguersi. Il taglio è lì, eppure resta scomposto se non viene guardato. Il legame quantico è più forte se formulato, sognato, pensato.

© Roberto De Ruvo
Diapositiva 3: Alma indaga sulla vita di Elisabeth per scoprire l’origine del mutismo forzato. Per farlo l’infermiera si mette a nudo e rivela all’attrice i suoi segreti più intimi. La Vogler ascolta rapita, ma non proferisce parola. Assorbe e osserva. Scrive lettere che manda a qualcuno in città. Alma non è avvilita da questo atteggiamento, continua imperterrita. Prima o poi, Elisabeth parlerà, spera l’infermiera.
Una notifica. Apro il menù a tendina sul cellulare: è lui.
«Buongiorno. Stamattina, mio padre mi fa: con i numeri non farai mai soldi, gli rispondi tu?» Non rispondo. È finita. L’uomo seduto in fondo al vagone alza gli occhi svegliato dalla mia suoneria, poi ritorna a sparire nel cellulare. Io abbasso il volume del mio. Anche questa notifica è la prova dell’entanglement? Bip! Un’altra notifica. Coincidenza. «Perché non rispondi?» «Non posso» mormoro. Rigiro l’articolo tra le mani e decido di posarlo nello zaino. Ho capito che «…le particelle entangled hanno mantenuto la loro connessione» e lui capirà tutto, senza che io dica una parola.
Ci fermiamo in un’altra stazione. L’uomo dai sogni digitali scende. Non si gira nemmeno quando passa davanti al finestrino. Il mio riflesso piega le labbra all’ingiù in una smorfia di incomprensione. Un sussulto mi riporta in viaggio. Arriva un’altra notifica. Il riflesso raccoglie il telefonino e risponde al messaggio, io allungo la mano per fermarlo ma questa sbatte contro il vetro. Quello sul vetro non sembro io.
Messaggio: «Siamo arrivati. La sala è piena. Juan Yin è qui». Per fortuna, è una comunicazione di lavoro.

© Roberto De Ruvo
Diapositiva 4: Alma scopre che Elisabeth ha rivelato i suoi segreti più intimi in una lettera inviata a chissà chi. Scossa dal gesto, il legame tra le due si spezza e ritornano alle loro vite, percorrendo due strade separate. Si allontanano, sono uguali a prima, ma non sono più le stesse.
«Sto arrivando» rispondo. Poi, d’istinto precedo il mio riflesso, leggo i suoi messaggi, quelli che ho finto di non vedere. Uno di questi dice: «Dove sei?». Sto per rispondere. Arriva un altro messaggio di lavoro, rispondo a quello: «Sono in treno». Se scendo qui, avrò la prova che l’entanglement si può spezzare. Non lontano da questa fermata, abita lui. Prendo il pensiero e lo spedisco in busta chiusa nell’inconscio.
«Lo spin di un elettrone, in meccanica quantistica, è una quantità che descrive un momento angolare meccanico classico basato sul movimento rotazionale di una massa. Può essere positivo e negativo. Le due particelle in entanglement rispondono (invertendo lo spin) l’una dall’altra a qualsiasi distanza».
Il treno si ferma. Il mio spin è negativo: non devo scendere dal vagone. Non posso. Non devo percorrere la leggera curva prima del suo palazzo. Nessun legame. Non devo suonare il citofono. Non voglio sentire la sua voce che chiede: «Chi è?». Il mio riflesso sul suo portone risponde: «Sono io». Se l’entanglement funzionasse anche con le persone, questa domanda non dovrebbe esistere. Guardo la mia espressione sul vetro appannato del portone, la riconosco, è lo sguardo lasciato sul treno – ci siamo scambiati di posto: ora, una mano si aggiusta i capelli e l’altra regge il peso delle parole su carta, elementi esplosi in frantumi. Ecco: compio un’osservazione, i miei occhi diventano i suoi occhi e, a seguire, le sue spalle sono le mie, i suoi capelli elettrici i miei, sento il mio e il suo odore unirsi e le orecchie a sventola diventano le mie. I suoi occhiali spessi riflettono la mia immagine dietro al portone. Sono lui. Lui è me. Indossiamo lo stesso cappello scuro, con la visiera abbassata a custodire i frammenti delle nostre valutazioni, non vogliamo perdere nessuno dei nostri concetti. Separati dal portone d’entrata, ci guardiamo: divisi da 1200 km di pensieri sottili come vetro. È spaventato. Sono spaventato. È sceso come me, lui da casa e io dal treno. Il riflesso non si muove, parlo io: «È il racconto. Vuoi dare un’occhiata?». Lui apre il portone e prende i fogli: «Pensavo di leggerlo sul sito». Entanglement: lui sorride leggendo il titolo, io sorrido. Il racconto è nelle sue mani, eppure pesa da qualche parte tra le mie. Lui, una massa di numeri. Io, una massa di parole. Spin opposti.

© Roberto De Ruvo
Diapositiva 5: Il cognome di Elisabeth, Vogler, ricorda quello dello sceneggiatore Christopher Vogler, nonché autore de Il Viaggio dell’Eroe, saggio tecnico sulle strutture narrative dello storytelling. Alma: dal latino nutrire, che dà vita e che fa del bene – per estensione: Anima (in spagnolo)4. Il legame tra le due donne era già insito nel riferimento filosofico dei loro nomi. L’una forse il riflesso dell’altra, o la versione speculare dello stesso riflesso. Unendo i significati dei due appelli nominali, il film di Bergman diventa: il viaggio dell’anima verso la risoluzione dell’unità. Questa opera del regista è «un teorema scientifico che a un certo punto si trasforma nell’operazione senza anestesia svolta in pubblico da un grande chirurgo5».
Sono sul treno con gli occhi fissi sul cellulare, leggo le mie parole dalla bozza sul sito. Sorrido al titolo: Legamenti. Nel racconto sono state inserite delle immagini – osservazione. Il me sbiadito sul finestrino prova imbarazzo per quel titolo, chissà perché lo provo anche io. Mi sento come la somma di messaggi e spin inversi che vibrano in un’apparente casualità, eppure perennemente collegati. Nessuna sliding door; comprendo che anche ciò che non facciamo diventa una risposta nell’entanglement. Attacco un altro frammento, forse l’ultimo, a quelli che avevo già raccolto per completare il nostro film interiore: come lettere e spazi di un testo, diventiamo creature di senso compiuto grazie ai lettori che ci osservano. Esistiamo. È veramente così banale? Entanglement come racconto? Sono sul serio sceso dal treno? Oppure è solo la risposta a un pensiero non mio? Una sua notifica dall’alto dello schermetto dice: «Vengo da te appena finisci di lavorare, chiattone. Stasera ci vediamo quel film di Bergman che dicevi». Lo spin delle nostre particelle è di nuovo cambiato. Ho davvero voglia di vedere quel film… com’era il titolo?
Arrivo al congresso. Sono seduto in seconda fila e d’improvviso ricordo il titolo, chiedo ad alta voce: «PERSONA?» a Juan Yin che mi guarda perplesso. Imbarazzato, mi collego al suo discorso per non sembrare un pazzo e chiedo: «…comunicano nello stesso momento?» la domanda è chiaramente nella mia testa. «Tutti sentono il legame?» era già stata posta da qualcun altro, la risposta è la stessa: «Sì».
Passo da uno spin all’altro e sono qui con te sul mio letto a guardare Persona. Il film di Bergman avanza alla velocità dell’anima, mentre nella camera buia della mia mente si forma un racconto. I sottotitoli parlano: «Io ritengo giusto avere uno scopo, compiere un qualche cosa, convincersi che la vita abbia un senso. Avere qualcosa a cui aggrapparsi in ogni evenienza…6». Tutto ciò risuona. Mi attacco al legame quantico come se fosse materia prima per la letteratura. Ma chi è che ci crea osservandoci? Sei tu che leggi? O io che scrivo? Come ho fatto a diventare la voce nella tua testa? In questo spazio siamo io e te. Io che ti lascio, io che resto, io che guardo Bergman, io che sono sul treno. Siamo io e te. Legati come narrazioni e riverberi. Simili a fotoni di luce caricati da spin opposti. Riesci a capirmi? Mi senti? Siamo narrazioni dell’universo nate dall’osservazione. Tu mi stai osservando e io esisto.

© Roberto De Ruvo
Diapositiva 6: La pellicola è una lunga striscia di immagini separate l’una dall’altra da una stretta linea nera. La prima, l’ultima, la ventitreesima o la settantaduesima immagine di una bobina cinematografica fa parte di una e una sola striscia di celluloide appartenente a un unico film. Durante il climax di Persona, Bergman brucia la pellicola con un effetto visivo dirompente e destabilizzante. L’immagine, lo spettatore, la storia si sovrappongono. Il regista è consapevole del valore di ogni diapositiva. Lo scopo del frame è quello di essere attraversato dalla luce del proiettore (senza infiammarsi) così da poter mostrare il Visibile. Il singolo frame è frammento essenziale per la composizione totale del film. Una unità. Una identità. Ecco come siamo collegati, siamo sulla stessa pellicola… Lui è sulla mia stessa pellicola, ma su un frame diverso. La luce ci attraversa e non riusciamo a vederlo. Siamo legati…
«A cosa stai pensando?» mi chiedi preoccupato: «…non vuoi più vedere il film?».
«Ero sovrappensiero…» rispondo alla tua abilità di riuscire a trattenere i miei piedi al suolo.
«Guarda che so quando stai lavorando. Quello è lo sguardo di chi scrive con la mente». Col dito mi tamburella la tempia: «Ora, però, basta».
Torno a guardare il film e rispondo a una domanda dell’altro me in treno: quante persone sono con noi in questa stanza? Come se questo racconto sapesse di essere un racconto e, leggendolo, tramutasse le sue descrizioni in osservazione. Diapositive veloci nel proiettore della vita – che immagine ridicola. Vivere l’esistenza dell’altro come se fosse nostra perché uniti dalla stessa pellicola. Il legame quantistico è il proiettore, la sua luce ci attraversa e vediamo l’entanglement: le diapositive passano come un treno nella nostra mente e assumono il senso che raccolgono dalle nostre e dalle vite degli altri. Pensare e osservare hanno lo stesso significato, non ci si può isolare in questo mondo. Accettare l’esistenza del legame quantistico ci dona un senso specifico: concretizza le nostre percezioni. Come una lunga pagina di un racconto composta da tante parole che raccolgono il loro significato, mentre leggiamo un rigo alla volta. Questo è, forse, l’unico modo che abbiamo di percepire lo spin dell’altro e poter vivere il noi. Per questo, attraversato dalla luce dello schermo, questo testo diventa conscio della verità che contiene, sfocia come immagini dal fondo del pensiero e la voce interiore legge e vede quello che io vedo in questo momento: l’immagine di lui al mio fianco, con lo sguardo fisso sullo schermo, in un momento eterno illuminato dal bianco e nero del film che stiamo guardando. La realtà creata dall’osservazione di chi legge di noi.
«Mica vuoi scrivere di noi?»
Sapevo l’avrebbe chiesto.
«Assolutamente no!» spalmo la bugia in un sorriso, che in fretta viene coperto da un bacio e da un candido «stronzo!» sussurrato appena dalla sua voce.
Fine dei legamenti.
Editing di Fabiana Castellino
Enrico Manzo è sceneggiatore e drammaturgo pluripremiato (Fringe Festival, Primiceri 2021, Best Fashion Film Italia 2021). Autore spot Roger Vivier con star come Deneuve, Ricci e Sarandon. Sceneggiatore per Dylan Dog (Bonelli). Insegnante storytelling, script-designer, ricercatore e critico di cinema indie, underground e pop culture. Vincitore premi nazionali (Fison, Moby Dick) e menzioni d’onore (Napoli Cultural Classic, Ossi di Seppia, Navarro, KIWANIS).






Nella serie fotografica di Roberto De Ruvo il punctum è la linea: oltre al soggetto, oltre al movimento registrato dei corpi l’occhio è attratto dalla ripetizione, dalla scacchiera, dagli elementi geometrici esterni. L’orizzonte è avvertito come spessore; la spiaggia è superficie piana e, assieme alle mute dei surfisti, collabora a un’idea di mondo coperto, stratificato: un mondo di millimetri che si aggiungono alla pelle.
La documentazione di una giornata sul mare è qui espediente per registrare ciò che persiste nel piano: ultimo elemento sfuggente è la schiuma.
Livia Del Gaudio
Roberto De Ruvo. Nato nel 1981 a Cattolica, scopre la fotografia a 18 anni, quando gli viene regalata la sua prima fotocamera a pellicola. Da quel momento, sviluppa un legame profondo con questo mezzo espressivo esplorandolo in modo totalmente autodidatta. La curiosità e la voglia di affinare il proprio sguardo lo portano a studiare da solo, sperimentando tecniche, linguaggi e approcci diversi, fino a trovare nella fotografia documentaria la sua dimensione più autentica. Con il desiderio di approfondire il suo percorso, frequenta un master in fotografia documentaria presso il collettivo Cesura, un’esperienza che gli permette di affinare la narrazione visiva. Accanto alla fotografia, la sua vita è segnata da esperienze diverse, tra cui un passato nel mondo delle competizioni motociclistiche e una forte connessione con la natura e il movimento, che trova espressione anche nella passione per la bicicletta. Ma è attraverso l’obiettivo che sente di poter esprimere al meglio il suo sguardo sul mondo.
- https://www.taopatch.com/blog/conferma-per-lentanglement-il-grande-mistero-della/ ↩︎
- «La diapositiva è un quadro alterato della realtà nella nostra mente. Queste possono essere negative e positive a secondo della visione e della forza immaginifica del soggetto. La diapositiva del fine è l’immagine del fine come se fosse già stata raggiunto. La visualizzazione sistematica di questo tipo di diapositiva porta alla materializzazione del settore corrispondente nello spazio delle varianti (cioè, delle altre realtà possibili).» Vadim Zeland, Il fruscio delle stelle del mattino – Transurfing, Macro Edizioni, Bertinoro FC, 2010. ↩︎
- https://www.wired.it/scienza/lab/2017/06/19/record-distanza-entanglement-quantistico/ ↩︎
- «Bergman omaggia Jung. (l’immagine interiore, l’Anima)» Roberto Chiesi, Il cinema di Ingmar Bergman, Giunti, Milano, 2018. ↩︎
- Tullio Kezich (Trieste, 17 settembre 1928 – Roma, 17 agosto 2009) è stato critico cinematografico, commediografo, sceneggiatore e attore italiano. La citazione è tratta da: Tullio Kezich, Il Millefilm. Dieci anni al cinema, 1967-1977, Il formichiere, Milano, 1978. ↩︎
- Persona di Bergman ↩︎