di Claudia Conte

© Noemi Caira
Hai troppa speranza. Ma speranza e fretta non vanno d’accordo.
E questo cosa vorrebbe dire? È una cosa buona o no? Mentre sento la rabbia crescere come un conato acido, mi accorgo che per la prima volta da mesi, Marco, il mio psicologo, ha detto qualcosa che attira la mia attenzione, una frase che finalmente risuona. Un’eco distorta.
Ero consapevole di frequentare le sedute con presunzione infantile: prendevo tutto quello che lui diceva, aspettando di essere stupita. Spesso mi sorprendevo a braccia conserte con una specie di ghigno stampato sulla faccia per poi decretare: non c’è ancora nulla, nemmeno stavolta.
Una brat girl della vita vera, mocciosa e furente, incastrata nella performance.
Dopo mesi di stallo, le mie nevrosi erano diventate sempre più tenaci. I metodi proposti in terapia erano ormai prevedibili. Ero sicura che con altre persone funzionassero, pensavo spesso: qualcuno dovrà pur guarire se continua a mantenere questo studio in pienissimo centro. Ma con me nessun clic, nemmeno piccolo. O almeno non duravano abbastanza, non più di tre giorni. Li avevo contati. In quel periodo provavo ogni cosa, ogni proposta di corso, attività, condivisione. Speravo di una speranza infantile, ne avevo fame.
Se proprio vogliamo dirlo, ero arrivata a una cosa: avevo capito di essere in balia di tutta la lista di etichette del manuale diagnostico; navigavo in un mare ostile e sapevo riconoscermi in alcune diagnosi, le avevo lette online, però in terapia non se ne parlava, non era produttivo.
La mia personalità dipendente era facilmente rintracciabile in traumi infantili più o meno violenti, niente che non avessi già letto in qualche post divulgativo su Instagram o in un romanzo di Sally Rooney. Quello che però accadde fu che io non solo ero dipendente dalle persone, ma da tutti gli elementi del mondo conosciuto. Quanto mi piaceva ascoltare una nota sola ripetuta. Ancora una volta, una, ancora una e poi basta. Tutto pur di sopravvivere.
Questa corsa era iniziata cinque anni prima, quando era nata mia figlia. Vivevo in uno stato di allerta estremo, in attesa dell’inevitabile. Continuavo ad avere pensieri intrusivi: sentivo che da un momento all’altro avrei dovuto lasciarla, abbandonarla, figuravo scenari ricchi di particolari spaventosi che terminavano sempre con la mia morte; nella mia testa sarebbe bastato intercettare solo un attimo prima la profezia per poterla cancellare. Chissà da quanto tempo i miei muscoli si preparavano alla gara.

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Nella percezione generale, l’esperienza di essere madri rientra in quei momenti di vita di una donna avvolti da delicatezza estrema; eventi spontanei visibili a occhio nudo, ma sempre attraverso una lente rosa, un’atmosfera sospesa, uno strato sottile simile a cipria, dove tutto quello che succede è destinato ad arricchire la donna e chi le sta intorno.
La realtà del puerperio è un’esperienza molto più animalesca, primordiale, che non vive sulle stesse frequenze che l’immaginario sociale e cinematografico hanno costruito dagli anni Settanta in poi.
Ma se è vero che si è sempre fatto così, se questa è la risposta preferita quando emergono problemi legati alla salute mentale femminile che rimangono senza cause (e soluzioni) conosciute, come mai i dati ci parlano di un’epidemia di disturbi? Siamo diventate tutte più sensibili e polemiche o, come spesso accade quando si guardano i dati scientifici da una prospettiva meno patriarcale, le donne hanno iniziato a parlare?
Per indagare la maternità e le origini dei meccanismi evolutivi e adattivi che ritroviamo attorno alla donna e all’ambiente familiare – e a come rispondano entrambi alle sollecitazioni sociali – non bisogna necessariamente scomodare la letteratura psicanalitica. Piuttosto, l’approccio che potremmo adottare è a partire dai dati a nostra disposizione: quelli relativi a chi vive gli eventi in prima persona.

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Il primo ricordo di speranza agonistica è del sesto giorno della nascita di mia figlia, quando, in un torrido agosto, dovetti tornare in ospedale, non mi sentivo bene.
Rincorrevo gli sguardi delle infermiere del pronto soccorso in cerca di un segno, di una benedizione. Sarebbe bastato che qualcuno mi avesse detto di riposare, di piangere prima e riposare dopo. Invece nessuno mi aveva insegnato nulla, e il mio corpo aveva deciso di imporsi: aveva iniziato a essere ostile, a manifestare sintomi, a chiedere aiuto per interposta persona, come se volesse dirmi che da quel momento in poi saremmo stati due cose separate.
Così, mentre mi figuravo la maggior parte delle mamme del mondo che inaugurava tutine e fotografava piedini sporchi di granelli di sabbia, io aspettavo l’autorizzazione a vivere. Erano tutti lì con una piccola lente a guardare pezzetti di corpo – vene, sangue, frammenti di pelle – e nessuno a vedermi tutta intera, sana. Forse non è la parola più indicata, ma mia nonna diceva sempre che una cosa era sana-sana, quando voleva descrivere la totalità di una forma o di una figura. Io quella sera non lo ero affatto: mi sentivo tutto fuorché in salute.
Non può tenerla, se si sveglia gliela portiamo e la può allattare, aveva detto la caposala. Ma ha solo sei giorni, era stata la mia unica obiezione. C’è il padre, signora, mi dicevano in coro. Come se fosse possibile credere a quella stupidaggine.
Dovevo esserci io.
I pensieri ossessivi annullavano le percezioni fisiche.
Vi prego signori medici ditemi che va tutto bene, che non la lascerò mai, che non crescerà senza ricordarmi, che non sta succedendo niente.
Ma chi ha tempo per ascoltare queste cose in un pronto soccorso; la voce era rimasta incastrata alla base della gola.

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Secondo i dati messi a disposizione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi una donna su cinque sperimenta una condizione precaria di salute mentale durante la gravidanza o nell’anno successivo al parto. Tra le donne in condizioni difficili, il venti per cento ha pensieri suicidi o intraprende atti di autolesionismo. Ignorare la depressione postpartum non solo mette a rischio la salute e il benessere generale delle donne e del loro ecosistema, ma ha anche un impatto sullo sviluppo fisico ed emotivo del bambino.
A partire da queste premesse l’Oms ha lanciato linee guida finalizzate ai vari servizi di salute materna e infantile al fine di arginare o, meglio, prevenire situazioni nelle quali le conseguenze possono rivelarsi fatali.
Ma dal momento che si tratta della difficoltà più comune riscontrata, come mai continua a manifestarsi o a essere sottovalutata? Perché questo avviene nonostante l’elevata frequenza dei contatti con operatori come ostetriche, infermieri, puericultrici, pediatri, che si hanno sia prima che dopo la nascita?
Se nei casi più gravi, durante i quali sono necessari interventi farmacologici, la donna viene messa in sicurezza, nella maggior parte delle situazioni le problematiche vengono sminuite, poste in secondo piano rispetto alla routine di accudimento del neonato o, peggio, invalidate. Questa tendenza non solo si riscontra a fronte di un ambiente circostante impreparato, ma anche di una mancanza da parte delle istituzioni preposte a intercettare le fragilità.

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Intanto i seni erano turgidi e mi facevano male. Avevo la sensazione che se non fosse stato per le ragadi, che cominciavano a cicatrizzare, il latte sarebbe colato senza controllo e sarebbe andato sprecato.
Dicono che una madre riconosca il pianto del figlio in mezzo a quello di altri bambini. È una bugia. Mi sintonizzavo sulle frequenze al di là della porta automatica e quando qualcuno passava e la lasciava aperta per qualche secondo, cercavo di capire se il pianto era di mia figlia. Non ci riuscivo, mi sforzavo; ero troppo stanca.
Qualche mese dopo lessi di una donna su un barcone naufragato che, dopo giorni di pianto di un neonato rimasto senza madre, aveva avuto l’istinto di portarselo al capezzolo. Con stupore, e dolore fisico, dopo qualche ora era uscito del liquido sieroso dal suo seno. Una nuova forma di madre.

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Potremmo indagare a lungo l’inadeguatezza del welfare a disposizione per chi mette al mondo un figlio; sprofondare nello sconforto dei genitori quando capiscono (ben presto) che iscriverlo al nido pubblico potrebbe essere una corsa a ostacoli che inizia ancora prima del parto e che i sistemi retributivi non sono adeguati; ma andremmo solo a guardare il problema da un punto di vista meccanico, che è anche il più utilizzato per parlare dei problemi relativi alla maternità.
La domanda controversa che potremmo invece porci è: se tutti i sussidi fossero adeguati; se quel famoso villaggio che serve per fare un bambino funzionasse non solo nei piccoli paesi di provincia ma diventasse efficiente anche in città grandi e complesse; se entrambe le figure genitoriali avessero a disposizione un tempo adeguato per assecondare lo sviluppo e le richieste fisiologiche del bambino, mantenendo invariati la propria retribuzione e il posto di lavoro; se ci fossero tutte queste condizioni, le donne smetterebbero di soffrire?
La risposta ha a che fare con l’istinto di cui parlavo prima. Di recente è uscito un film con Amy Adams, Nightbitch, che descrive vividamente alcune delle dinamiche che emergono in maniera totalmente imprevedibile e ancestrale nel momento in cui si rimane incinta.
La cinematografia ha affrontato il tema in tanti modi, alcuni spostando il termometro della narrazione sull’ironia e l’ostentazione grottesca della difficoltà, come nelle fortunate serie Working Moms e The Letdown; altri, come Fleishman Is In Trouble, hanno preso il toro per le corna e inscenato lo squilibrio del carico delle madri rispetto al partner; ma l’interpretazione cruda di Amy Adams è probabilmente la forma più vicina alla realtà di ciò che succede quando nasce una madre.
La protagonista, che ha lasciato ogni cosa per crescere il proprio figlio, vive la maternità come la trasformazione di sé in una specie mai vista, una bestia. Diventa un vero e proprio animale, i suoi sensi si trasformano, così come la fame e le percezioni.
La solitudine che prova risveglia in lei un istinto che la spinge verso una nuova forma di libertà o, forse, di liberazione.

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Nella stanza della terapia, dopo anni, la paura di lasciare mia figlia era ancora più forte della voglia di abbandonare me stessa, di lasciare andare qualsiasi tentativo e questo si manifestava tramite ossessioni ipocondriache e attacchi d’ansia. Vivevo in uno stato di allerta che mi faceva stare in costante movimento per cambiare le cose, per aggiustare la mia vita. Provavo di tutto pur di guarire, aspettavo un’epifania risolutiva ma tutte le energie finivano in pensieri ripetitivi che mi stavano consumando.
Forse erano quei movimenti disordinati e incostanti che il mio terapeuta aveva scambiato per speranza: il mio desiderio di controllo e di guarigione improvvisa. Non mi vergognavo di invidiare le persone spontaneamente inclini alla depressione, che vivono con movimenti piccoli e misurati, quanto basta per tenersi in vita. La ricerca bulimica di rassicurazioni mi costringeva a cambiare di continuo interlocutori; chiunque potesse servirmi un pasto premasticato.
Che nemmeno il mio psicologo credesse in me era troppo: in quel modo aveva rassegnato le sue dimissioni. Troppa speranza, per lui voleva dire che stavo facendo troppi tentativi disconnessi e infruttuosi senza affrontare qualcosa di più radicato. Ma io all’epoca percepivo solo che non ero abbastanza, addirittura non abbastanza depressa, al punto che la terapia che stavamo facendo stava fallendo.
Sentivo che il tempo era scaduto.

© Noemi Caira
La solitudine ripetitiva della madre sfocia ben presto nell’isolamento. Il giudizio o la paura di apparire disinteressate o peggio pentite della propria condizione, diventa un filtro per muoversi nel mondo e costruire modi per sfuggire alla realtà; ma ammettere che non si sta bene nella maternità non significa non amare i propri figli.
Ed è proprio questa, forse, l’unica risposta alla domanda più difficile che possiamo farci. Essere madri non deve piacere a tutti i costi, la possibilità di mettere al mondo un’altra persona non è qualcosa che si deve guadagnare. Essere madri può essere noioso, ingrato, difficile e possiamo rimpiangere di esserlo diventate; suonerà paradossale, ma non inficia minimamente sul gesto di cura che siamo pronte a dare a nostro figlio nel momento del bisogno.
Essere madri può non piacere come si pensava, o non piacere più, anche se si ha intorno il necessario per esserlo in potenza, welfare e strutture comprese. E la mente può non rispondere come faceva prima e si potrebbe avere il bisogno di una pausa e di riposare, chiedere aiuto o persino lontananza.
Potrebbe esserci finalmente spazio per una narrazione della maternità solo in un mondo in cui l’istinto femminile non venga addomesticato, né raccontato come qualcosa di pacifico e relativo al solo accudimento, bensì legato al cambiamento dei ruoli genitoriali, ad esempio. Solo concependo un mondo che parli di fuga e allontanamento, di contatto e soprattutto di indipendenza, di tremenda paura e, di conseguenza, di sollievo nell’ammettere che essere madri non deve per forza appagare, si può sperare in una vera emancipazione.

© Noemi Caira
Quel giorno trascorsi tutta la seduta in silenzio, era la prima volta che mi capitava. Mi sentivo stanca ma in qualche modo sollevata, anche se non sapevo definire perché. Decisi che potevo permettermi di non fare nulla per qualche ora, di non prendere decisioni rispetto al mio percorso. Tornai a casa in autobus con la sensazione che la mia profezia quasi realizzata fosse seduta accanto a me, ma un pochino più docile. In balcone c’era un sole tiepido, capii che ero pronta a provare la sola cosa che non ero ancora riuscita a fare: raccontare questa storia.
Editing di Viola Carrara
Claudia Conte, classe ’89, metà pugliese, metà abruzzese. Si occupa di comunicazione per il non profit con particolare attenzione a temi inerenti donne e salute mentale. È un’attivista polemica ma gentile, praticamente una Barbie strana. Insegna alla Scuola Holden e ogni tanto scrive cose per sé stessa, per la sua terapeuta e per sua figlia di 5 anni.









Una famosa terracotta policroma risalente al secondo millennio avanti Cristo, oggi conservata nel Museo archeologico di Candia, rappresenta una donna in piedi, avvolta in vesti regali e con il seno scoperto: tra le mani stringe due serpi e porta accovacciata sul capo una civetta. È una delle immagini più conosciute dell’arte minoica; simbolo di una società che conserva traccia dell’antica religione matriarcale: un culto legato alla terra e ai suoi riti che vede nel serpente il processo rigenerativo del femminile.
Il mito legato a Potnia theron, la Dea Madre, racconta di un viaggio. Costretti a fuggire dalla terra d’origine, i cretesi cercarono rifugio nella loro Signora che dal nulla creò l’isola e lì fece stabilire i suoi figli. Niente deserto, dunque; nessuna ardita prova di fede verso un Padre assente e mutevole, piuttosto un affidarsi al ciclo morte-vita, all’alternarsi del respiro della Dea nella storia del mondo.
Al seno, alla sua rappresentazione impudica e simbolica, si rivolge la fotografia di Noemi Caira. La donna, qui, non ha nulla di consolatorio, si mostra nella potenza generatrice: un corpo che emerge dal buio ornato di gioielli feticcio, rivolto a tutti e nessuno, che non seleziona, non giudica: si spalanca. I riferimenti all’estetica leathers e al bondage assumono, dentro questa visione, connotati non contemporanei: meno Robert Mapplethorpe e più Jenny Saville. Della pittrice inglese, Caira conserva la concentrazione sulla figura, l’abbondanza e la circolarità di sguardo che esclude il contesto e riporta con rigore verso il focus della ricerca: il corpo della Dea, la sua imparzialità, il suo ergersi in controluce.
Livia Del Gaudio
Noemi Caira. Napoletana. 31 anni. Dopo essersi diplomata al liceo linguistico e non essere riuscita a superare i test di ingresso per la facoltà di Psicologia, decide di iscriversi alla facoltà di Teologia, in cui si laurea a pieni voti. Vive a Napoli fino a 26 anni per poi trasferirsi a Bologna raggiungendo il suo attuale compagno. Resta in questa città per 5 anni per poi, quasi follemente trasferirsi in Abruzzo. La fotografia, per Noemi, è sicuramente un modo per esorcizzare i suoi demoni, i suoi difetti, i suoi lati fisici con cui combatte da una vita. Nella speranza di prenderne sempre più consapevolezza e accettarli per quello che sono. Ma è anche un forte mezzo con cui comunicare sensualità, passione, corporeità, bellezza, veridicità. Attraverso la fotografia Noemi riesce a percepirsi e a vedersi per quello che realmente è. Senza filtri. Senza mezze misure. Senza maschere.
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