di Livia Del Gaudio

© Noemi Caira
Tra due mondi
Le facce del mostro femmina
di Livia Del Gaudio
«Se il crimine maschile è lo stupro, il crimine femminile è il mancato accudimento. Abbandonare i figli è la cosa peggiore che una donna possa fare». Questa è l’affermazione che apre Madri che abbandonano, il decimo capitolo di Mostri1, saggio che Claire Dederer dedica agli artisti, in prevalenza maschi, che abitano il suo immaginario: figure in bilico tra venerazione e disgusto, incarnazione della scissione tra opera e vita privata. Dopo Woody Allen, Pablo Picasso, Hemingway e Polanski, Dederer passa a illustrare la vita di Doris Lessing, un vero rompicapo in cui il doppio ritorna sotto forma di numero: due matrimoni, due divorzi; e un nuovo due quando, nel 1949, la scrittrice anglofona abbandona in Rhodesia due figli per trasferirsi con il terzo in Inghilterra dove inizia la carriera che la porterà al Nobel con la seguente motivazione: «Cantatrice dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa». A parte il fatto che definire Lessing femminista è un azzardo anche per la pagina Wikipedia a lei dedicata2, a attirare Dederer non è tanto la collocazione politica della scrittrice quanto il giudizio di mostro: se è vero che disfarsi della prole, con l’aggravante di portarsi dietro un solo prediletto, è oggettivamente un’azione che denota egoismo, è possibile paragonarla all’azione criminale, ad esempio, di un Polanski colpevole di stupro sul corpo di una tredicenne drogata e incosciente? In Mostri, Dederer non fornisce risposta: usa la domanda come pretesto per tracciare la storia della propria esperienza di maternità intrecciandola con l’ambiguo senso di colpa che, prima o poi, ogni madre che vuole intraprendere o portare avanti un percorso artistico prova. A sostegno del discorso cita il romanzo più famoso di Doris Lessing, Il taccuino d’oro, quello in cui il premio Nobel affronta la questione di come vivere da persona libera dando la parola a un alter ego letterario, Anna Wulf: «Il sentimento di una donna: il risentimento contro l’ingiustizia, un veleno impersonale. Quelle sfortunate che non sanno che è impersonale lo rivolgono contro i loro uomini. Le fortunate, come me, lo combattono». Alla dichiarazione, Dederer aggiunge, questa volta di suo pugno: «Soltanto a due categorie di persone è richiesto di essere sempre ed esclusivamente buone: alle madri e ai bambini».
Il capitolo prosegue argomentando e arricchendo il discorso senza però fare cenno a un altro romanzo di Doris Lessing, Il quinto figlio, per molti versi ancora più inquietante (oggi si direbbe wired) proprio perché privo delle ambizioni politiche presenti nel Taccuino. Pubblicato in Inghilterra nel 1988, Il quinto figlio racconta la storia di Harriet e David Lovatt, giovane coppia degli anni Sessanta alle prese con un sogno all’antica: mettere su una grande famiglia (composta da addirittura otto figli) in un mondo in cui pressioni sociali, desiderio di indipendenza, autoaffermazione innescano la crisi che, di lì a poco, travolgerà l’istituzione del matrimonio. Un sogno che si infrange alla nascita di Ben, il quinto figlio a cui allude il titolo: un essere al limite tra due mondi, quello degli uomini e quello degli elfi, che tuttavia appare con queste sembianze solo agli occhi dei genitori, la cui alterità viene ripetutamente negata dagli esperti, i numerosi medici ai quali la coppia si rivolge che, ça va sans dire, scaricano il problema sulle spalle della povera Harriet. Lontana dallo stereotipo della vittima, la madre tratteggiata da Lessing non si arrende al destino ma specchia e moltiplica la mostruosità del figlio finendo essa stessa per mostrarsi come creatura aliena, frutto di un’atroce mutazione. Ovviamente la storia non finisce bene; l’epilogo porterà alla disgregazione della famiglia Lovatt e, in senso lato, ai valori borghesi che la sostanziano, ma aprirà delle crepe, delle vere e proprie faglie metamorfiche nella mente del lettore che dopo una sessantina di pagine di vivace realismo si trova coinvolto in immagini di questo tipo: «Era come se la fatica di vivere le avesse strappato uno strato di carne, non vera carne forse, piuttosto una sostanza metafisica, invisibile e insospettabile finché non se n’era notata la mancanza. […] Le pareva che tutti i suoi sforzi per renderlo umano non avessero altro risultato che quello di indurlo a ritrarsi al fondo di sé stesso dove lui…già, cosa avrebbe fatto? Si sarebbe ricordato o avrebbe sognato quelli della sua razza? […] Dall’alto lucernario cadeva un rettangolo di luce in cui stava Ben, con il volto sollevato verso la pallida luce. Chissà cosa voleva, cosa sentiva, pensò Harriet. Poi lui la udì e a Harriet si rivelò finalmente il Ben che quella loro vita aveva tenuto soffocato: con un balzo raggiunse l’angolo più buio e sparì ai suoi occhi. Davanti a lei c’era soltanto l’oscurità della mansarda, apparentemente senza confini».
Da pochi mesi, precisamente dal 7 marzo 2025, è arrivato in libreria, edito da Fandango, l’ultimo libro di Barbara Di Gregorio, Cronache dell’età fertile: una raccolta di sei racconti che tracciano il profilo di una femminilità scomoda rappresentata attraverso la metamorfosi bestiale e il fantastico, di cui mi interessa qui discutere il primo, L’animale maschio.
L’animale maschio ruota attorno a un mistero: in un mondo simile al nostro, raccontato con tratti iperrealisti, compare all’improvviso un’anomalia che colpisce solo alcune donne, le ferine, mutanti il cui destino è inscritto nella genetica che le vuole non più femmine ma lupe affamate: «Bisogna mettersi in testa che questi animali uccidono», dice a un certo punto una delle guardie forestali addette al compito di separarle dal consorzio umano, al quale non appartengono più, e forse non sono mai appartenute, evidenziando così il modo in cui questa nuova forma di donna viene accolta. Non umane e non ancora bestie: è la situazione liminare su cui Di Gregorio ci porta a riflettere, giocando all’interno della narrazione con i pensieri e le azioni di chi rimane, ovvero l’uomo, il maschio stordito e incapace di rispondere al cambiamento e che per questo è condannato a non evolvere, a restare l’animale maschio richiamato nel titolo. Altre volte la narrativa italiana scritta da donne si è occupata di ibridi: tra tutti il romanzo, riuscito, di Laura Pugno Sirene, nel quale però la donna bestia appare più malinconica e meno vitale di quella tratteggiata da Di Gregorio, che qui sembra compiere un salto presentando la condizione bestiale come più lucida e migliorativa della precedente cattività. Al di là delle singole espressioni, la quantità di testi, pellicole (come The Nightbitch, citata da Claudia Conte) e fumetti usciti negli ultimi anni rivela un’urgenza: capire cos’è questa nuova bestia che avanza, la donna. Nella condizione attuale è utopico aspettarsi una definizione, e forse neanche auspicabile: l’interesse va inteso al processo, alla registrazione del cambio di pelle, a quei primi ciuffi di pelo che spuntano tra le scapole.
Editing di Viola Carrara
- C. Dederer, Mostri, trad. it. di Sara Prencipe, Altrecose, Iperborea, Milano, 2024 ↩︎
- Qui la citazione di Lessing, tratta da un articolo di The New York Times, riportata sulla pagina italiana di Wikipedia: «Quello che le femministe vogliono da me è qualcosa che loro non hanno preso in considerazione perché proviene dalla religione. Vogliono che sia loro testimone. Quello che veramente vorrebbero che io dicessi è “Sorelle, starò al vostro fianco nella lotta per il giorno in cui quegli uomini bestiali non ci saranno più”. Veramente vogliono che si facciano affermazioni tanto semplificate sugli uomini e sulle donne? In effetti, lo vogliono davvero. Sono arrivata con grande rammarico a questa conclusione». ↩︎