Proteine

di Laila Malik

Traduzione dall’inglese di Sofia Cavazzoni

© Edona Demiraj

Mia madre raccontava sempre una storia.

Nel 1968, durante una luna di miele tardiva con mio padre da Kampala a Kabul, passando per Teheran e Istanbul, si recò nella Moschea Blu per pregare. Snella con indosso i suoi pantaloni churidar di cotone, era in ginocchio quando sentì tirare bruscamente la nera e spessa corda intrecciata che le pendeva giù per la schiena, ben oltre le ginocchia e fin sotto una leggera dupatta anni Sessanta. Si voltò in preda al panico e al dolore, giungendo occhi negli occhi con una donna turca dal viso arcigno.

«Harām» disse la donna, indicando la treccia di mia madre.

Mia madre osservò la sua accusatrice avvolta in un mantello che le arrivava ai polpacci, i capelli nascosti sotto un velo. Tirò fuori la mano e indicò le gambe nude della donna.

«Harām» rispose.

Un’artista palestinese che ammiro ha scritto di recente una lettera d’amore alla figlia. Ha detto: amo la risata di mia figlia, il mio amore per lei è una delle storie d’amore più belle che abbia mai vissuto, sincera, pura e inestinguibile. Ha detto: amo mia madre perché mi ricorda che esisterà sempre un legame con chi è venuto prima di me. Se lei c’è, non sono sola nel tempo e nello spazio. Ha detto: spero che il suo amore per me sia una delle storie d’amore più belle mai raccontate.

Non sono palestinese, anche se mi hanno chiamata come una combattente per la libertà della Palestina, e non di rado mi viene rammentata la sua forza d’animo. A ricordarmi del suo coraggio di opporsi e della sua resistenza ci sono mia madre, che non ha scelto il mio nome (anche se l’ha fatto), e mia zia, che ha scelto il mio nome (anche se non l’ha fatto).

Credo che mi abbiano chiamata così per rispondere a un’eco che sta piano piano scomparendo e mutando attraverso generazioni di crisi migratorie e periodi turbolenti. Per rispondere a un ricordo, qualcosa di primordiale. È un fatto di terra, di diritto di nascita. Un grido per rivendicare la loro esistenza dal punto di vista sanguineo, mucoso, biliare; anche se, quell’ossessione sull’origine, sulla loro genesi più autentica, nel tempo si è fatta sempre più incerta e imperscrutabile.

E così, dandomi questo nome, quel sentimento si è fuso con me.

© Edona Demiraj

Negli ultimi anni, io e mia sorella abbiamo sorvegliato i capelli di mia madre. Per decenni è stata l’unica donna della sua famiglia a portare un caschetto corto e ordinato, e poi, prossima agli ottanta, ha deciso di non tagliarli più. All’improvviso ha cominciato a detestare l’idea di essere toccata da mani sconosciute, forse per rivendicare una specie di potere personale dopo la morte di una figlia e un bypass aortocoronarico quadruplo, ai quali si è aggiunta la scoperta di un furto commesso da un fidato collaboratore domestico.

Nonostante l’età che avanzava, i suoi capelli sbocciavano sani e spessi come un tempo, e noi li abbiamo guardati crescere copiosi, anche quando il resto del corpo rimpiccioliva. Continuava a essere fedele alla sua rigida routine da insegnante di biologia, che comprendeva un lavaggio il sabato con shampoo e balsamo rigorosamente importati. Ogni mattina si spazzolava i capelli e li sistemava in un’alta coda di cavallo che cresceva e cresceva man mano che si avvicinava agli ottanta.

I passi più lenti, l’udito più debole e le braccia più stanche; ha iniziato a usare uno shampoo e balsamo 2 in 1 locale, i capelli, intanto, erano sempre più lunghi. Qualche volta io e mia sorella proponevamo una spuntata, accorciavamo di soppiatto un pezzettino della sua coda mentre mangiava, parlava o mentre guardava la televisione, ma con il tempo i filamenti del suo cuoio capelluto hanno iniziato a comunicare e a convergere.

«Tagliamo un po’?» chiedevamo con gentile disperazione, accarezzando quei ciuffi arruffati. «Faccio io oppure lei?».

Ma mia madre era inflessibile: i capelli andavano lasciati fiorire.

© Edona Demiraj

Viviamo in un’epoca di gravi fratture.

Per noi rifugiati, diseredati ed emarginati dal sistema, i punti di riferimento trasmessi dalle generazioni precedenti si sono incrinati e dissolti. Siamo alla ricerca di verità inconfutabili e ci appelliamo con sempre maggior vigore ai nostri antenati in cerca di una direzione. Una lunga linea matriarcale, un’impalcatura spirituale con una storia.

Qualcosa a cui appigliarci. Qualcosa da tramandare.

Eppure, nel dispiegarsi della sua vita, in quel guazzabuglio di ventura e privazione, la ribellione di mia madre ha assunto la forma di un ostinato rifiuto alla memoria. 

«Non mi ricordo», rispondeva bruscamente a mio padre ogni volta che, nella sua ingenuità, lui tentava di rivivere un’esperienza condivisa.

«Il passato lo lascio dove sta», brontolava irritata avvertendoci di un imminente crollo, perché potessimo agire seduta stante con qualche teatrale distrazione per ristabilire l’equilibrio.

Diventava una specie di mantra, un simpatico Zikr, la cosa che si imponeva di ricordare attraverso ripetizioni quotidiane. Penso che fosse il suo modo di arrestare l’infinito dolore e la vergogna mai metabolizzata di una vita vissuta non in sincronia con l’ambiente circostante.  Uno sforzo perverso di proteggere la sua fragile coerenza cognitiva.

Non mi ricordo, un’intimazione e un appello, un nuovo modo di vivere, sconnesso e disorientato.

Non mi ricordo quali cereali mangiavamo da piccoli. Non mi ricordo se e per quanto tempo ti ho allattata. Non mi ricordo la storia che ti raccontai un giorno sulle verdure che crescevano rigogliose nel sentiero fertile tracciato dal camion spurgo che collegava il nostro gabinetto esterno al vicolo sul retro. Non mi ricordo i nomi dei miei professori di biologia, le mie lezioni preferite, la mia migliore amica. Cosa provai a essere la prima della famiglia ad andare a studiare in un altro paese.

«Lasciatelo stare il passato», sono le parole che mia madre ha impresso nella mente delle mie figlie un giorno.

Dopo una breve pausa di riflessione, aggiunge «E lasciate stare anche il presente».

Le mie figlie mi lanciano sguardi perplessi. Io mi limito a scrollare le spalle rassegnata. Il nostro regno del possibile si assottiglia sempre di più.

© Edona Demiraj

«Ti piacciono i diamanti?» chiede mia madre a mia figlia mentre mi accovaccio su uno sgabello accanto alla sua poltrona, le dita impegnate tra le ciocche aggrovigliate in un nido. Vicino a me ho un pettine di plastica e un paio di forbici argentate che alterno con zelo mentre sfido l’orologio della sua impazienza che ticchetta. Non so cosa l’abbia portata a questo ripensamento, ma non resterò con le mani in mano in attesa che cambi idea di nuovo.

Mia figlia esita, conosce la mia personale avversione per le pietre e i metalli preziosi, non sa come rispondere.

«Avevo tanti gioielli», continua lei. «E sono tutti per le mie nipoti».

Non mi scompongo né protesto. Al contrario, mormoro a mia nipote che siede di fronte a me: «Tienila impegnata, falle domande».

Conto sulla lotteria delle sue risposte perché l’ingranaggio continui il suo moto.

Quando si alza nel cuore della notte, mia madre è al settimo cielo. Da brava insegnante, sveglia mio padre all’ora stabilita, poi si trascina in cucina per preparare quello che i miei genitori chiamano il “banchetto di mezzanotte”. «È tornata ragazzina», dice più tardi mio padre con un sorriso stremato, «è diversa da come è di giorno. Non voglio deluderla».

Riscaldano due tazze di latte, tagliano due fette di torta quattro quarti e siedono al tavolo rotondo di cucina. Il viso di mia madre si illumina quando capita che partecipi anche una delle mie figlie, e il silenzio notturno viene costellato da una sempre più circoscritta orbita di aneddoti, ricavati dal giorno appena trascorso, dalle settimane o dagli anni precedenti, dal giornale o dalla sua soap opera indiana. Frammenti di fatti e finzioni cuciti insieme alla rinfusa per creare qualcosa di simile alla memoria, solo migliore, benevola, anche se un po’ più stravagante. Sa che siamo il suo cast interiore di personaggi e così riavvolge il nastro delle sue storie preferite su di noi aggiungendo a ogni racconto nuove infiorettature.

Dicono che la memoria sia la riattivazione di un gruppo specifico di neuroni. La plasticità sinaptica permette la neurogenesi, ossia la creazione di nuovi neuroni nell’ippocampo. L’ippocampo di mia madre è florido e frenetico. Si è impegnata con la sua consueta diligenza, attingendo all’inesauribile pozzo di disciplina, per creare un giardino alternativo di storia che cura meticolosamente col bisturi dell’oblio. Chissà dove vanno i ricordi recisi, in che maniera si depositano come accumuli di grasso nelle zone più inappropriate: nelle arterie, nel fegato, nei linfonodi.

Nei capelli.

Può darsi che mia madre – fissata da sempre con la cura della persona, avversa anche alla più impercettibile piega sui vestiti, capace di imporre rossetti e profumi e tacchi a qualsiasi donna al naturale le si presenti davanti – stia cercando, a modo suo, di comunicare qualcosa di urgente e segreto attraverso i capelli.

© Edona Demiraj

Le tocco il capo e penso a tutti i vincoli.

Un fratello più piccolo, seduto insieme a lei a un tavolo di cucina diverso in un tempo diverso, che rimarca con disinvoltura che le maniche corte non sono adatte alle donne, mentre lei indossa proprio quelle maniche corte che lui di proposito non guarda. Una sorella più giovane che cuoce un roti e spiega che le donne non dovrebbero portare i capelli corti, o sciolti, o scoperti, e nel frattempo mia madre si tiene impegnata in un altro angolo di quella stessa cucina.

Mentre separo i suoi filamenti di cheratina, massaggiandoli con il balsamo e tagliandoli con le forbici quando si rifiutano di cedere, penso ai confini, con i loro vincoli a cui permettiamo di invaderci la psiche. In che modo li interiorizziamo e ossifichiamo per poi conservarli come eredità. Penso a chi rimane dopo la capitolazione, quando le tue lunghe, lunghissime ciocche diventeranno serpentine e s’involgeranno su se stesse. Rifletto su cosa nutre le mie personali scelte circa il modo di esercitare la memoria.

E penso alle proteine. Ogni mattina, mia madre mi chiede quali proteine ho dato da mangiare alle mie figlie. Uova, tonno, pollo? Il tempo scorre e la preoccupazione di mia madre si misura in catene di amminoacidi essenziali.

© Edona Demiraj

La amo in modo viscerale, con l’ingenuità incontaminata dei bambini.

So che il mio amore per lei si posa su sabbie mobili di magma emotivo vorticante. So che questo amore è feroce e primitivo, e anche butterato di tradimento e di rimpianto. La amo nonostante ciò che è e proprio per ciò che è, quando ci crea e poi distrugge. Ascolto attentamente il suo rifiuto del passato, in cerca di messaggi di saggezza avita. Esisterà pure un qualche legame in questa distanza, un modo per assicurarci che non siamo soli nel tempo e nello spazio.

© Edona Demiraj

Quando finiscono il banchetto di mezzanotte, dopo aver rimesso in frigo il latte e ciò che resta della torta e aver pulito le briciole sul tavolo, prima di spegnere la luce fluorescente della cucina e ritornare piano piano nella loro camera da letto, mia madre afferra il braccio di mio padre.

«Mia madre», dice. Lui la guarda con la stessa infinita pazienza che aveva quando l’ha sposata sessant’anni fa.

«Cosa ha fatto tua madre?», le chiede.

«Come si chiamava mia madre?»

Forse la nostra impalcatura avita non è formata da una lunga linea matriarcale, ma da filamenti continui di amminoacidi, un intricato complesso proteico che abbraccia il tempo e la terra. Una storia d’amore oltre i confini e la tracotanza dei vincoli umani.

Dopo tutto, mia madre era una biologa.

Il racconto originale, in inglese, pubblicato il 21 maggio 2022, può essere letto su Archetype, a questo link: https://archetypemag.com/protein/

Laila Malik è autrice della raccolta poetica archipelago (Book*Hug Press, 2023), finalista dei premi letterari Pat Lowther Memorial e Gerald Lampert Memorial nel2024. I suoi saggi sono stati nominati ai premi Pushcart e Best of the Net e le sue opere sono apparse su riviste letterarie canadesi e internazionali. La scrittrice fa parte di una delle comunità diasporiche del mondo e vive nell’area di Adobigok (oggi Etobicoke, Ontario), territorio tradizionalmente occupato dalle comunità indigene dei Mississaugas, Anishnabeg, Chippewa, Haudenosaunee e Wendat che oggi ospita i popoli delle Prime Nazioni (First Nations), Inuit e Métis.

Sofia Cavazzoni (1993), è traduttrice e revisora italiana e vive tra Siena e Colonia. Dopo la laurea in lingue e un master in Traduzione audiovisiva, ottiene una laurea magistrale in filologia moderna con specializzazione in editoria. Dal 2024 è stata pubblicata sul volume Joyce e la censura a cura di Andrea Carloni (Eretica Edizioni) e ha tradotto per diverse riviste letterarie, tra cui «Allegoria» e «L’Appeso». Dal 2025 fa parte della redazione della rivista berlinese di poesia, FLORETS Magazine.

All’interno de L’immagine fantasma, Hervè Guibert dedica un breve capitolo al tema della diffrazione, quel particolare sguardo indiretto che passa, ad esempio, da finestrino a finestrino in metropolitana. Una visione riflessa che libera la visione dall’intrinseca rapacità che le appartiene per portarla nello spazio del desiderio e della seduzione. 

È a questo tipo di visione che si riferisce la fotografia di Edona Demiraj. Gli scatti si susseguono come se nessuno all’infuori di noi potesse coglierli: frammenti di un movimento in rapida evoluzione, angolazioni inusuali, stratificazioni temporali rese possibili da seconde impressioni fotografiche. La brutalità diretta della 35mm, un istinto predatorio che da sempre la associa a un certo immaginario maschile incarnato da Blow-Up, è qui trasfigurato da un bianco e nero che muta in continuazione passando dalla saturazione del nero all’indefinitezza dei grigi: un linguaggio che fa della mancanza di segno la sua chiave di accesso. In questo modo nuvole, silhouette, ritratti e scorci di paesaggio collaborano a narrare il medesimo istante esploso nel gioco di riflessi che nasconde ogni mirino.

Livia Del Gaudio

Edona Demiraj (12/08/92). La mia prima macchina analogica l’ho avuta a cinque anni e ricordo mia madre che tornò a casa dopo aver fatto sviluppare le pellicole, dicendomi che avevo usato un intero rullino per fotografare le nuvole. La cosa divertente è che non è cambiato molto. Ho sempre avuto interesse per le arti visive: ho lavorato come grafica, sono una paper artist, ma la fotografia analogica è sempre rimasta ciò che sento più intimo. La pellicola è un elemento vivo, capace di raccontare e restituire il tempo, trasformandosi insieme a esso. E si contraddistingue nella sua parte più essenziale della vita, vibrazioni piccole come particelle di luce e buio.

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