Chiedere aiuto

di Livia Del Gaudio

© Edo Massa

Siamo al secondo piano di un palazzo del centro, la casa resterebbe in penombra anche se tutte le finestre fossero spalancate, ma la prima impressione è di luce. Qualcosa che continua ad abbagliarmi anche quando dico:

«Buongiorno Giovanna».

Per risposta, Giovanna spinge la punta della sigaretta in direzione del televisore. Il suo corpo seduto, almeno cento chili di carne avvolta in una tuta blu di viscosa, è una barricata piantata al centro della stanza. 

«L’appuntamento era per oggi, ricorda?»

Lo sguardo di Giovanna si sposta dallo schermo a Matteo, il quattordicenne spigoloso che mi ha aperto la porta, che ora aspetta appoggiato al frigo, le mani in tasca, un piede che rimbalza sul pavimento concentrato nello sforzo di non seguire alcun ritmo. 

«Che vuoi, io sto sempre in casa. Mi guardo la tv per passare un po’ il tempo».

«Capisco. Ma possiamo spegnerla per parlare con più tranquillità?»

Con la mano in cui tiene il mozzicone acceso Giovanna prende il telecomando. Sposta gli occhiali sulla fronte e muove il dito come una sonda, frammentando il gesto in un’infinità di tentativi: prima il volume, poi una veloce rassegna dei canali, infine la pagina del televideo. Quando finalmente lo schermo si spegne in un risucchio da tubo catodico, Matteo non c’è più, sparito chissà quando nel corridoio alle spalle della madre, assorbito dal corpo enorme, ingoiato dall’odore della casa, un odore umido di cibo freddo e fumo che mi arriva in differita, un’onda d’urto a cui dovrei essere preparata e che invece mi coglie di sorpresa, come un secondo ingresso.

«Stava preparando il pranzo?» Mi avvicino al tavolo, ignoro l’impulso di girarmi e uscire. Giovanna accenna a un sì con la testa, spegne la sigaretta dentro il bicchiere e con la manica si pulisce gli occhiali. Sulla tovaglia ci sono dei piatti, ma mancano le posate, e non ci sono pentole sui fornelli.

«Non si preoccupi, non le prenderò più di mezz’ora. Come le ho spiegato, si tratta solo di una chiacchierata. Lei mi fa vedere la casa, mi racconta le sue abitudini e capiamo insieme come aiutarla». 

Giovanna non parla. Non mi invita a sedere ma neppure me lo impedisce. Ora che la televisione è spenta e che suo figlio è uscito, sembra svuotata. Solleva le sopracciglia, si morde le labbra, apre e chiude le narici ma a dispetto dei movimenti superficiali la sua faccia resta immobile, lo sguardo inespressivo che hanno certi bambini di fronte alla lavagna, il silenzio ostinato di chi oppone al mondo una resistenza passiva eppure intimamente violenta. Come se fosse l’unica a comportarsi così. 

Rispetto all’ultima volta, il suo aspetto è cambiato. Sembra ancora più grassa, ma potrebbe trattarsi di un’impressione. Nel mio ufficio, i mobili mi aiutano a valutare i cambiamenti di peso degli utenti senza essere costretta a chiederlo. Ma in questa cucina piccola e satura di oggetti inutili non riesco a identificare nessuna misura. La vedo riflessa nel vetro della finestra, moltiplicarsi nelle foto alle pareti. Una Giovanna di vent’anni più giovane mi guarda sorridendo da una spiaggia; abbracciata al marito in abito da sposa; seduta al tavolino di un bar in compagnia delle amiche. Nonostante il gonfiore e le pieghe di grasso che corrono parallele al mento, quella ragazza è ancora lei. Occhi e capelli chiari, naso piccolo, zigomi alti e pronunciati. Domandarle perché non si sia pettinata e non indossi un vestito diverso dalla tuta è inutile. Per Giovanna trascurarsi è un diritto, non un argomento di discussione.  

«Come mai non è venuta ad aprire?» chiedo appendendo la borsa alla spalliera della sedia. «È venuto il ragazzo» risponde lei. Accanto al televisore ci sono altre foto e alcuni piccoli oggetti: un posacenere, un gatto di ceramica, una coppia di Puffi di plastica blu. Oltre a un paio che lo ritraggono neonato, non ci sono immagini recenti del figlio.

«Capisco. E come va con Matteo? È riuscita a parlare con gli insegnanti?»

«Mio marito è un invalido al centro per cento. Devo starmene sempre dietro a lui».

«Quindi non è andata?»

Giovanna si guarda le mani. Ha l’aria concentrata di chi sta cercando qualcosa. Qualcosa di piccolo, un bottone o un ago, un oggetto che è forse un fastidio avere perso, ma per il quale non vale la pena di impegnarsi troppo. Non è un caso che abbia sottolineato la percentuale di invalidità del marito. L’oggettività dei numeri rassicura, aiuta a visualizzarsi all’interno della graduatoria. 

«Giovanna, è andata a scuola a parlare con gli insegnanti di Matteo?»

Con uno scatto di cui non la credevo capace, Giovanna si fa improvvisamente avanti ed è come se mi stesse franando addosso. Come se si stesse trascinando dietro la casa.

«Ma te ce l’hai dei figli?» dice finalmente soddisfatta, il tono di chi per primo ha trovato la parola giusta da inserire nell’ultima colonna del cruciverba.

«Non siamo qui per parlare di me». Stendo le braccia sulla tovaglia, i palmi delle mani rivolti verso l’alto. La guardo sorridendo fino a quando anche l’ultima luce di ostilità non sparisce e il suo sguardo torna bovino, immobile. «So che può sembrarle fastidioso, ma mi servono molte informazioni sulla sua vita. È per questo che le ho chiesto di incontrarci. Giovanna, deve capire che il mio compito è aiutarla».

*

© Edo Massa

«Quindi aiutarlo sarebbe compito tuo?»

Elisa parla senza smettere di toccare il cellulare, il pollice attraversa lo schermo e si ferma, impegnato in piccoli movimenti che ricordano quelli di un criceto. Le sue dita hanno la precisione della dattilografa quindicenne che era quando ci siamo conosciute, e che continua a essere, nonostante i tatuaggi e la lunga treccia rasta. Mi piacerebbe farglielo notare, ma non capirebbe. Luca dice che è la mia educazione borghese a impedirmi di dire quello che penso. Non sono d’accordo, credo piuttosto che abbia a che fare con il rispetto e con la cura per gli altri. E con il mio lavoro, certo, perché non dovrebbe essere così? 

«Immagino che dal suo punto di vista abbia un senso».

«Definire dei confini farebbe bene a tutti».

Mi chiedo se in questi confini immagini di trovarsi anche lei. 

«Non ha mangiato niente» dico indicando il piatto di penne al sugo che Nilde ha lasciato sul tavolo per correre incontro a Enea, con cui adesso sta giocando in salotto. Le loro voci arrivano in cucina, stanno litigando: Nilde vuole fare il gatto e a Enea non va giù che la mamma la faccia Pasquale, il coniglio di stoffa con il quale mia figlia dorme da quando è nata.

«Ha cinque anni, non morirà di fame». L’attenzione di Elisa non è già più per me, lo scambio di messaggi che intrattiene da quando è arrivata si è fatto più intenso. 

«Non la trovi più magra?» chiedo intenzionata a non lasciare correre, almeno questa volta. «Da quando se n’è andato, intendo».

«Non essere paranoica. E poi non direi che se n’è andato. Se la casa non gliela trovavi tu, sarebbe ancora qui».

«Te l’ha detto lui?»

«Cosa?»

«Della casa. Te l’ha detto lui?»

Elisa solleva gli occhi dal telefono. 

«Bea, lo sai che ti voglio bene, ma stai diventando ossessiva. Devi lasciare andare il controllo, con Luca è finita. L’unica cosa a cui pensare adesso è tua figlia. Fatti dare i soldi, stabilite un calendario per l’affido e parla con un avvocato. Poi cercatene un altro, meglio se giovane. Uno che ti faccia sudare».

Butto la pasta avanzata nel contenitore dell’umido, strofino bene il piatto, lo ripongo nello scolapiatti. Faccio lo stesso con i bicchieri. «Vado a vedere cosa combinano» dico senza aspettarmi risposta. Non sono offesa per quello che ha detto, non è questo. Elisa è una di quelle persone che finisce sempre a parlare di corpo, è come se stesse sempre dentro il suo corpo, un astuccio ben stipato, chiuso, con la cerniera e tutte le cose al suo posto, ma forse un po’ troppo pieno, ecco. Anche quando era incinta di Enea e io di Nilde era così: la sua pancia sembrava più rotonda, più adatta della mia a contenere un bambino.

A metà dal corridoio, a pochi passi da me, si apre la porta del salotto; c’è uno strano silenzio che mi obbliga ad accelerare, attraverso la soglia quasi correndo.

«Mamma!» La voce di Nilde mi raggiunge un istante prima delle sue braccia. 

La stringo senza capire; la sollevo come si solleva un gatto, il suo corpo leggero che si fonde al mio, il caldo delle lacrime, le piccole unghie che mi premono contro la nuca e che per un attimo mi danno l’impressione di non volersi fermare, che continueranno a scavare così, fino a bucarmi la pelle. Allontano le dita di mia figlia ma continuo a tenerla stretta. «Cosa è successo?» chiedo.

Nilde non risponde ma si scosta quel tanto che basta affinché qualcosa di morbido e grigio, che prima si trovava schiacciato tra noi, cada sul tappeto. 

Sollevo lo sguardo.

Enea mi è di fronte. Diritto in piedi, gli occhi ben aperti, fissi nei miei. Non parla, non si giustifica, mi guarda soltanto.

Poi, con un calcio, colpisce la testa di Pasquale e la fa rotolare fino ai miei piedi.

*

© Edo Massa

L’interno della casa è anche peggio. Qui la luce è poca e l’odore più forte, una presenza massiccia che a questo punto dovrei analizzare ma che ha l’unico effetto di farmi bruciare gli occhi. Giovanna è rimasta in cucina, a farmi da guida c’è Matteo: non dice una parola, mi cammina davanti come un fantasma, le spalle che strisciano lungo il corridoio, le mani in tasca, il collo piegato verso il mento. Quello che vedo di lui è il retro della maglietta, la scritta IO NON DICO CAZZATE. LE FACCIO e le ultime vertebre appuntite del collo che spuntano come schegge dalla nuca rasata.

«Sta qui».  Matteo si è fermato davanti a una porta chiusa. «Vuoi entrare?»

Per un attimo considero l’idea. Mi vedo in piedi sulla soglia con accanto il ragazzo, il letto e dentro al letto l’uomo, le medicine, la mancanza di spazio. «No, Matteo, non disturbiamo papà. Ti va di farmi vedere la tua stanza?»

Matteo fa spallucce, si gira e riprende a camminare. «Vorrei che morisse» dice dandomi la schiena. «Vorrei che morissero tutti».

«Alla tua età è normale essere arrabbiato. Anch’io ho odiato i miei genitori, è così per tutti. Provare rabbia è normale».

«Io non sono arrabbiato».

Respiro e riprendo il controllo. Ho sbagliato a rimproverare Giovanna davanti al figlio, e sto sbagliando adesso con Matteo. Il mio compito è osservare, rendere la mia presenza il più neutra possibile, stabilire un contatto. 

«Sei una di quelle?» mi chiede dopo un po’, sempre senza guardarmi.

«Di quelle cosa?» 

«Una comunista. Magari sei pure lesbica».

Non rispondo. Mi concentro sulla schiena di Matteo, rileggo la scritta sulla maglietta. Il tono di voce è cambiato, come il suo modo di camminare; adesso Matteo sembra più grande, un adulto proprio come i suoi genitori e come loro senza scampo. Lo stesso piccolo adulto che ho visto in Enea, quando ha preso a calci la testa di Pasquale.

«È questo che sei venuta a vedere?»

Matteo si ferma all’improvviso, alza il braccio in segno di saluto.

Mi volto, confusa. Cerco qualcosa a cui aggrapparmi ma non trovo niente, soltanto il corridoio in penombra e la maledetta sensazione di luce di quando sono entrata. Torno a guardare davanti. Non c’è nessuna stanza, soltanto una brandina buttata alla fine di un muro dove troneggia immobile il volto di Mussolini circondato da un’aura, come quelle dei santi. Sul pavimento, tra pile di vestiti buttati a terra, ci sono tre lumini rossi, di quelli si portano nei cimiteri.

Da quanto tempo so che Elisa va a letto con Luca?, mi chiedo. Perché, quando lei mi ha spinto per impedirmi di dare uno schiaffo a suo figlio, Nilde è scappata?

Piego le gambe e mi accuccio a terra. Ci ripenso e mi metto in ginocchio. Allungo una mano e prendo una maglietta, la stendo con cura sopra i vestiti sporchi. La piego a sinistra, poi a destra. Vado avanti così, un pezzo alla volta, fino a quando sul pavimento non c’è più niente. Quando uscirò di qui, penso, comprerò un fazzoletto rosso per Pasquale. Assieme a Nilde lo taglieremo fino a dargli la forma di un triangolo. Su un lato del fazzoletto ricameremo il suo nome e glielo metteremo al collo, in modo che non si veda più la cicatrice del rammendo. Una volta finito, gli faremo una foto.

Editing di Fabiana Castellino

Livia Del Gaudio (Volterra, 1981) ha studiato e lavorato come architetto, ora insegna storia dell’arte nelle scuole superiori. Ha collaborato con l’editore Feltrinelli in veste di lettrice, ha svolto attività di editor freelance ed è stata consulente editoriale per festival letterari. Nel 2021 ha fondato con Aurora Dell’Oro la rivista online «In allarmata radura». Ha scritto racconti e saggi, alcuni dei quali pubblicati su riviste online e cartacee («Subway Letteratura»; «Diaforia»; «Cadillac»; «Bomarscè»; «In allarmata radura»; «retabloid», etc…). Collabora come critica d’arte con diversi illustratori e fotografi. Nel 2024 è uscita la novella Edwin Land. L’uomo della luce, Coppola editore.

Con alle spalle due pubblicazioni, Tutti autistici? (Beccogiallo, 2023)  e Pensi di stare meglio? (Minimumfax, 2024), Edo Massa è un autore che resiste a una classificazione facile e immediata, a partire dal segno con cui si presenta ai lettori. Un segno inquieto, che si trasforma, capace di passare dalla massima stilizzazione al ritratto senza perdere di unità anche grazie a un uso codificato del colore che da campitura diventa codice linguistico. La ricerca di Massa sembra sempre tesa verso il semplice, non in quanto semplificazione, quanto immediata aderenza alla vita. Ironia e autoironia emergono spontaneamente dalle sue strisce che per questo cercano e ottengono un immediato aggancio empatico. L’apparente frammentazione, inserita all’interno di un impianto narrativo che cerca per prima cosa la chiarezza – la comunicazione –, accentua il generale effetto di realismo.

I temi affrontati sono quelli che appaiono più urgenti alla generazione a cui il fumettista appartiene: la ricerca di sé attraverso l’incontro con l’altro; l’autoaffermazione nell’epoca del post-lavoro; il tentativo di tenere insieme conflitto interno e scelta etica. 

Se in Tutti autistici? lo specchio è rivolto verso l’esterno attraverso la formula del reportage narrativo – la storia narrata è infatti quella di Cascina Cristina, una Community Farm inclusiva gestita da adulti con autismo –; in Pensi di stare meglio? quello stesso specchio diventa simbolo di un percorso introspettivo condotto attraverso la psicoterapia, di nuovo e ancora esperienza che accomuna Massa ai suoi coetanei. Il lavoro di cura, verso se stessi e verso gli altri, si fonde qui in una nuova ricerca di senso capace di riappropriarsi del concetto di comunità in una chiave meno e ideologica e più pragmatica: una tensione che vede nell’assenza di giudizio e nell’accettazione gli strumenti non tanto per cambiare il mondo, quanto per renderlo più accessibile.

Livia Del Gaudio

Edo Massa, fumettista, illustratore e scriber, collabora con la rivista The Passenger (Iperborea). In passato, con i suoi disegni, ha lavorato negli spettacoli teatrali di Michela Murgia, tra cui Dove sono le donne e I confini non esistono di Matteo Caccia e Stefano Mancuso. Ha pubblicato i graphic novel Tutti autistici? (Beccogiallo) ed è appena uscito Pensi di Stare Meglio? (Minimum Fax)

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