Memoriette di un educatore

di Renzo Favaron

© Edo Massa

Dopo 38 anni, avevo deciso di togliere il disturbo. Negli ultimi 24 mesi mi ero trascinato stancamente e sentivo di non avere più amore da dare né da ricevere. Ormai quando squillava il telefono, la tentazione era quella di lasciarlo suonare. 

Il lavoro mi era andato di traverso. 

Di solito, avevo in carico quaranta persone. Di queste, però, oltre la metà era cognitivamente limitata, o soffriva di qualche disturbo del comportamento, oppure presentava entrambi i problemi. 

Due mesi dopo aver tolto il disturbo, mi ero imbattuto in un articolo che mi aveva fatto trasalire. Prendeva di mira l’inclusione scolastica, licenziandola come “mito” e suggerendo che si doveva accantonare e relegare in soffitta. 

Alla fine degli anni ‘80 la figura di mediatore in materia socio-lavorativa avevo dovuto costruirla con le mie mani, dal momento che erano generiche le materie professionalizzanti e di scarso valore le esperienze a cui attingere. L’ente per cui prestavo servizio gestiva alcuni centri diurni, dove erano inserite persone affette dalle più svariate disabilità. Il principale intento di queste strutture non era istruire, ma predisporre e allestire attività con le quali coinvolgere e tenere occupato chi le frequentava. Non erano le uniche realtà di questo genere presenti sul territorio. Operavano anche delle cooperative sociali che si erano costituite spontaneamente e che si mantenevano intessendo rapporti con aziende operanti nel settore privato. Pur essendo luoghi di inclusione, però, l’inserimento delle persone disabili il più delle volte si esauriva lì, nel senso che erano saltuari i contatti con il tessuto democratico esterno, specialmente con l’ambiente lavorativo. Cosa complicata dal fatto, come nel caso dell’ente in cui operavo, che non esisteva una figura preposta a questo scopo, cioè a facilitare l’incontro tra le persone disabili e il mondo del lavoro. Io lo avevo capito dopo mesi – avrei dovuto indossare gli abiti di questa figura, ma non sapevo come. Bisognava individuare degli strumenti e mettere a punto una metodologia.

© Edo Massa

Se volevo avviare delle esperienze di inclusione, non potevo presentarmi da un datore di lavoro e chiedergli di assumere una persona che avevo in carico. Bisognava proporre una collaborazione che non fosse vincolante e al tempo stesso che non fosse onerosa da un punto di vista economico, né rispetto agli eventuali infortuni sul lavoro. 

Il mio obiettivo, sostanzialmente, era di tipo riabilitativo e mirava al mantenimento di abilità possedute e, per quanto possibile, all’acquisizione di competenze lavorative. Non di rado avevo avuto l’impressione che il disabile che avevo di fronte non fosse mai stato trattato come persona, ma solo custodito e non considerato capace di essere protagonista del proprio apprendimento. Mi era capitato spesso di provare la sensazione che nessuno prima di me avesse riconosciuto delle potenzialità o avesse dato fiducia, sostegno concreto ai disabili che mi accingevo a prendere in carico.

Più spesso che raramente, i disabili al termine del percorso scolastico, costellato quasi sempre da bocciature, si presentavano ai miei occhi come persone fragili e acerbe, tanto nell’ambito cognitivo e affettivo, quanto nell’ambito pratico e operativo. Nell’articolo, inoltre, si considerava la presenza del disabile nella scuola come un problema e non come una risorsa, come una ricchezza con una valenza educativa per insegnanti e per discenti normodotati. Nelle cooperative sociali di cui si è parlato, i soggetti svantaggiati coesistevano con i soci lavoratori. In queste strutture si cercava di favorire l’integrazione del disabile. 

Perplessità e resistenze le avevo incontrate quando prendevo contatto con aziende private ed enti pubblici. Anche per questo erano rari i progetti di inclusione a sbocco lavorativo che riuscivo ad avviare, dal momento che, almeno nel territorio in cui operavo, i datori di lavoro propensi a un’apertura di credito nei confronti delle persone svantaggiate erano delle mosche bianche. 

© Edo Massa

Persino alcune leggi, per quanto ispirate dalle migliori intenzioni, non mi aiutavano. Nel 1991 la legge 381 costringeva le cooperative sociali di tipo misto a sdoppiarsi e a intraprendere strade separate. In particolare, una rivolta ad attività socio-sanitarie e educative (cooperative di tipo A), e l’altra all’inserimento lavorativo (cooperative di tipo B). A lungo andare, l’applicazione della legge aveva avuto esiti contrastanti. Infatti, se da un lato aveva favorito il costituirsi di rapporti di lavoro, dall’altro aveva prodotto un effetto che portava a percepire le cooperative di tipo A come luoghi in cui venivano relegati i soggetti svantaggiati con disabilità mentale e/o motoria gravi. Per il fatto di doversi occupare esclusivamente di servizi assistenziali, le cooperative di tipo A erano considerate alla stregua di luoghi stigmatizzanti. 

In realtà, le cooperative di tipo A si caratterizzavano come spazi sociali e di aggregazione, e rappresentavano una boccata di ossigeno per le famiglie. Eppure, non erano viste con la mente sgombra da pregiudizi. Ne avevo contezza ogni volta che vedevo delle persone a cui non era stata riconosciuta l’idoneità ai fini dell’inserimento lavorativo. Il possesso di un tale requisito era indispensabile per attivare tirocini di inclusione sociale e la comunicazione che non potevo procedere alla presa in carico suscitava, come si può immaginare, reazioni adirate. 

L’azione educativa di questi operatori (di cooperative di tipo A) si traduceva nell’acquisizione di competenze importanti. E questo, come si è già detto, mi faceva pensare che la loro frequenza scolastica fosse stata ‒ in buona sostanza – una perdita di tempo e me ne addoloravo, perché doveva essere stata costellata da una valanga di frustrazioni non meno che di umiliazioni.

© Edo Massa

 Ogni giorno mi aspettavo un piccolo passo avanti nel processo di apprendimento di questa o quella persona e in effetti qualche volta assistevo a progressi e miglioramenti. Ma ciò non era costante. A un tratto, come se queste persone fossero colpite da un urto funesto o, chissà, una stretta più acuta del mondo che le abitava, rifiutavano ogni approccio alla mia persona. 

Il che mi disorientava, perché mi inviavano segnali contraddittori, che ogni volta avevano l’aria di scoraggiare una mia iniziativa anziché spronarmi all’azione; tanto che, al di là di ogni discorso tecnico, non ero mai sicuro che le persone che avevo di fronte si sentissero accolte e rispettate nella loro libertà assediata e nella loro significazione umana.

Tra l’altro, non c’è mai stato un giorno in cui non mi sia chiesto se l’attività svolta aderiva sufficientemente al mandato che mi aveva affidato l’ente per il quale operavo. Confesso che più di una volta ho nutrito un sentimento di inadeguatezza. Eppure, l’incertezza e l’insicurezza mi hanno spinto ad andare avanti e a non cedere all’irresponsabilità. Nel momento in cui si affacciavano in me pensieri di diserzione, avvertivo che era una resa non prestare più ascolto alla richiesta d’aiuto. Paradossalmente, quando entravo in contatto con i limiti della mia azione, sentivo più forte il richiamo alla responsabilità e il dovere di insistere nel mediare l’inclusione di coloro la cui disabilità ne ostacolava la vita e la sopravvivenza. Se mi fossi spogliato di assumerne il carico, mi sarei comportato come chi continua a vivere dopo avere rinnegato una parte genuina e significativa di sé. Il che avrebbe fatto di me un uomo triste.

Editing di Fabiana Castellino

Renzo Favaron vive a San Bonifacio e si è occupato di mediazione socio-lavorativa.  Ha pubblicato alcune raccolte di poesia in lingua (Al limite del paese fertile e Piccolo canzoniere più bugiardo che vero) e in dialetto (Presenze e conparse, Testamento, Balada incivie, tartufi e arlechini e Teatrin de vozhi e sienzhi). È autore di racconti e romanzi brevi (Dai molti vuoti, La spalla e L’aspetto della sibilla e il ricatto del pane). Collabora con lit-blog che si occupano di poesia e narrativa. Racconti sono stati pubblicate dalle riviste Inutile, Quaerere, Quarta corda, In fuga dalla bocciofila, Taccuino all’idrogeno, Morel-Voci dall’isola, eccetera.

Con alle spalle due pubblicazioni, Tutti autistici? (Beccogiallo, 2023)  e Pensi di stare meglio? (Minimumfax, 2024), Edo Massa è un autore che resiste a una classificazione facile e immediata, a partire dal segno con cui si presenta ai lettori. Un segno inquieto, che si trasforma, capace di passare dalla massima stilizzazione al ritratto senza perdere di unità anche grazie a un uso codificato del colore che da campitura diventa codice linguistico. La ricerca di Massa sembra sempre tesa verso il semplice, non in quanto semplificazione, quanto immediata aderenza alla vita. Ironia e autoironia emergono spontaneamente dalle sue strisce che per questo cercano e ottengono un immediato aggancio empatico. L’apparente frammentazione, inserita all’interno di un impianto narrativo che cerca per prima cosa la chiarezza – la comunicazione –, accentua il generale effetto di realismo.

I temi affrontati sono quelli che appaiono più urgenti alla generazione a cui il fumettista appartiene: la ricerca di sé attraverso l’incontro con l’altro; l’autoaffermazione nell’epoca del post-lavoro; il tentativo di tenere insieme conflitto interno e scelta etica. 

Se in Tutti autistici? lo specchio è rivolto verso l’esterno attraverso la formula del reportage narrativo – la storia narrata è infatti quella di Cascina Cristina, una Community Farm inclusiva gestita da adulti con autismo –; in Pensi di stare meglio? quello stesso specchio diventa simbolo di un percorso introspettivo condotto attraverso la psicoterapia, di nuovo e ancora esperienza che accomuna Massa ai suoi coetanei. Il lavoro di cura, verso se stessi e verso gli altri, si fonde qui in una nuova ricerca di senso capace di riappropriarsi del concetto di comunità in una chiave meno e ideologica e più pragmatica: una tensione che vede nell’assenza di giudizio e nell’accettazione gli strumenti non tanto per cambiare il mondo, quanto per renderlo più accessibile.

Livia Del Gaudio

Edo Massa, fumettista, illustratore e scriber, collabora con la rivista The Passenger (Iperborea). In passato, con i suoi disegni, ha lavorato negli spettacoli teatrali di Michela Murgia, tra cui Dove sono le donne e I confini non esistono di Matteo Caccia e Stefano Mancuso.Ha pubblicato i graphic novel Tutti autistici? (Beccogiallo) ed è appena uscito Pensi di Stare Meglio? (Minimum Fax)

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