Del nascondimento: lettera pseudo-scientifica sull’essenza del negativo. Ipertesto.

© Marcello Chieffi.

L’Areopago.

Vi trovate ad Atene, precisamente all’Areopago – la collina a metà l’agorà e l’acropoli – nel posto di mezzo in cui il tempo si sospende: a metà tra i vivi e i morti. Siete tra gli eletti che si trovano in una folla di saggi, filosofi, sapienti; il cielo è limpido e l’aria profuma di datteri e sale; il caldo vi fa un po’ secca la pelle ma a colpo d’occhio trovate mare ovunque, e questo vi rinfresca già solo gli occhi. 

L’Areopago è il luogo in cui si ricorda che persino gli dei vengono giudicati. Capitò ad Ares, dopo avere ucciso il figlio di Posidone, Alirrotio. Agli ex arconti che vi si raccoglievano toccò in sorte di giudicare i delitti di sangue commessi fra gli uomini. Si sarebbe aggiunto il compito di valutare l’operato dei magistrati, punire i  nullafacenti e indagare sulle fonti di guadagno dei cittadini ateniesi; vigilare sugli olivi sacri, giudicare gli empi e occuparsi delle frodi nei pesi e nelle misure. Nel 462-461 a.C., tuttavia, la riforma introdotta dal predecessore di Pericle, Efialte, avrebbe fortemente limitato le prerogative di questo tribunale, riducendone la giurisdizione a questioni di ordine religioso e ai soli delitti di sangue. 

Poi, la guerra con Sparta, l’ascesa macedone e il dilagare della macchina bellica romana avrebbero segnato il tramonto di Atene e, dunque, dell’Areopago. L’assemblea a cui si rivolge Paolo di Tarso non è più un’assemblea di cittadini, ma di sudditi. Ed è a questi sudditi che parla allo scopo di persuaderli a una rivoluzione dello spirito. 

“Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:

«Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: «A un dio ignoto». Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: «Perché di lui anche noi siamo stirpe». 

Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: «Su questo ti sentiremo un’altra volta». Così Paolo si allontanò da loro. Ma alcuni si unirono a lui e divennero credenti: fra questi anche Dionigi, membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro”.

(Atti degli Apostoli, 17:16-34)

Pseudo-Dionigi l’Areopagita. 

Quel che sappiamo di Pseudo -Dionigi l’Aeropagita è che non era chi diceva di essere. Di sicuro non era quel Dionigi convertito da San Paolo e di cui fanno menzione gli Atti. Era, probabilmente, un ecclesiastico siriano, vissuto nel V secolo: i suoi testi, infatti, contengono referenze che sarebbe impossibile calare nel contesto della prima predicazione apostolica. Piuttosto, lasciano intendere una certa vicinanza agli ambienti neoplatonici, circostanza che gli valse l’accusa, mossagli dal sofista Apollofane, di «utilizzare le cose dei greci contro i greci». Lo Pseudo-Dionigi avrebbe risposto facendo sua la posizione dell’apologetica patristica, secondo la quale sarebbe stato compito dei teologi cristiani reinterpretare in modo corretto i sistemi di pensiero elaborati dai filosofi pagani.  

Il corpus dei suoi scritti comprende quattro trattati (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus e De mystica thelogia) e dieci lettere, ai quali si deve un sostanziale contributo alla speculazione teologica, dalla sistemazione della gerarchia angelica a quella degli ordini ecclesiastici, dalla teologia simbolica ai fondamenti della teologia negativa, secondo cui l’avvicinamento al divino sarebbe possibile soltanto attraverso la comprensione di ciò che non è. 

«Diciamo dunque che la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita, di ragione, d’intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una figura, né una forma, né una qualità, né una quantità, né un peso; non si trova in nessun luogo, non è visibile, né può essere toccata materialmente; non ha sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza, come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun’altra cosa sensibile; e non è neppure qualcuna di queste cose.» 

(De mystica theologia, cap. IV)

De coelesti hierarchia.

Se è a noi chiaro che lo Pseudo-Dionigi si è appropriato di un’identità non sua, la tradizione medievale non aveva ancora distinto il Dionigi discepolo di Paolo di Tarso dall’autore del De coelesti hierarchia. è perciò all’uomo che aveva ascoltato l’apostolo nell’Areopago che Dante fa riferimento nel canto XXVIII del Paradiso, in quanto autorità indubitabile: gli insegnamenti che avrebbe trascritto nel suo volume, infatti, deriverebbero dall’esperienza diretta di Paolo, rapito in cielo per essere testimone della perfezione dell’ordine celeste. In errore, invece, sarebbe stato Gregorio Magno che, menzionato alla fine del canto, ride di se stesso. 

Il cielo al centro del XXVIII canto è quello chiamato Cristallino, o Primo mobile, l’ultimo prima dell’Empireo. Non ospita anime beate, bensì creature angeliche, incorporee, presenti solo in essenza, tanto che il poeta riesce a vederle solo grazie alla mediazione degli occhi di Beatrice e solo in forma simbolica, geometrica. Nove cerchi di fuoco rotanti attorno a un punto fisso, minuscolo, così minuscolo che la stella più lontana dalla Terra, al confronto, assumerebbe le dimensioni della Luna. è Dio. 

Gli angeli, invece, sembrano aloni di luce attorno a un astro, sembrano arcobaleni, disposti secondo il grado della loro beatitudine, dal più piccolo, più vicino a Dio e dunque più virtuoso, al più grande. L’enumerazione delle gerarchie è affidata alle parole di Beatrice:

«[…] I cerchi primi / t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. // 

[…] Quelli altri amori che ‘ntorno li vonno,/ si chiaman Troni del divino aspetto, per che ‘l primo ternaro terminonno; […]/ 

L’altro ternaro, che così germoglia/ in queste primavera sempiterna/ che notturno Ariete non dispoglia,// 

perpetualmente “Osanna” sberna/ con tre melode, che suonano in tree/ ordini di letizia onde s’interna. // 

In essa gerarcia son l’altre dee:/ prima Dominazioni, e poi Virtudi;/ l’ordine terzo di Podestadi è./ 

Poscia ne’ due penultimi tripudi/ Principati e Arcangeli si girano;/ l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.[…] 

E Dionisio con tanto disio / a contemplar questi ordini si mise, / che li nomò e distinse com’io. //                                      

Ma Gregorio da lui poi si divise; / onde, sì tosto come li occhi aperse / in questo ciel, di sé medesmo rise. //                            

E se tanto secreto ver proferse / mortale in terra, non voglio ch’ammiri; / ché chi ‘l vide qua sù gliel discoperse //

con altro assai del ver di questi giri»

(Paradiso, XXVII, vv. 98-139)

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