di Clelia Attanasio

I migliori testi di storia della filosofia che ho letto amano iniziare la storia di Pseudo-Dionigi l’Areopagita, filosofo Padre della Chiesa che ha “inventato” la teologia negativa, con la citazione biblica del discorso di Paolo di Tarso, Atti 17:16-34. Io non sono qui per citare, voglio piuttosto farvi vedere: vi trovate ad Atene, precisamente all’Areopago – la collina a metà tra l’agorà e l’acropoli – nel posto di mezzo in cui il tempo si sospende: a metà tra i vivi e i morti. Siete tra gli eletti che si trovano in una folla di saggi, filosofi, sapienti; il cielo è limpido e l’aria profuma di datteri e sale; il caldo vi fa un po’ secca la pelle ma a colpo d’occhio trovate mare ovunque, e questo vi rinfresca già solo gli occhi. In questo contesto un uomo cieco, barbuto forse, con una toga e un accento straniero, si presenta all’Areopago e comincia a parlare: vi parla di un Dio, un Dio che voi non conoscete – voi che tra tutti siete i più informati sugli dei, c’è poco da dire, avete anche un altare eretto al Dio Ignoto – un Dio che tra tutti gli dei è sicuramente il più vero e indiscutibile di tutti, l’unico Dio che dà prova di sè promettendo di resuscitare i morti: il Dio per il quale voi dovreste adesso prostrarvi, macchiarvi le ginocchia di gesso bianco e terreno, convertirvi. Dite, voi vi convertireste?
Storia vuole che due persone sole si inginocchiarono per adorare il Dio di Paolo di Tarso: Dionigi, membro dell’Areopago, a Dàmaris. Dàmaris resterà un piccolo personaggio secondario, un colore di un dipinto, niente di più. Dionigi, invece, ha ricevuto in dono un compito ben più importante: il suo stesso nome. Il nome l’ha reso più vero del resto: più vero della terra, del legno, del mare e persino del cibo. Poco importa che Dionigi, membro dell’Areopago, sia davvero esistito: non interessa a nessuno – a me che scrivo no di certo – che abbia avuto un corpo, che di lui non si sia parlato in nessun altro testo, che nessuno abbia visto il colore dei suoi occhi nè ascoltato il suono della sua voce; se sapeva cantare, ballare, se aveva moglie o un giovane amante, se sapeva fare l’amore o se praticava lo stoicismo più integrale, se preferiva i tramonti o le albe. Dionigi, membro dell’Areopago, ha avuto il privilegio di un nome. Il semplice fatto di esser stato nominato, la sua impercettibile genuflessione, la sua adesione silenziosa è bastata alla storia della Cristianità a nominarlo Padre della Chiesa. Ma c’è di più, come ogni buona storia vuole.

È da un furto che nasce la storia che voglio raccontarvi: l’identità di Dionigi, membro dell’Areopago, è stata rubata. Seicento anni dopo un Filosofo, un uomo – o almeno fingiamo fosse un uomo e non una donna, per una mera questione di probabilità e comodità – ha preso in prestito quel dettaglio del nome, quel breve barlume di storia, quello stralcio di esperienza mistico-religiosa così importante, e ne ha fatto un miracolo filosofico: Dionigi l’Areopagita è nato in quell’istante, per la seconda volta. E ora è impossibile discernere chi abbia dato fama a chi. A questo furto dobbiamo la teologia cristiana così come la conosciamo: niente di meno. A questo maestro del nascondimento si deve una grande intuizione, la più grande di tutte: è a questo Pseudo-Dionigi che noi dobbiamo ringraziare per l’intuizione più religiosa di tutte: Dio è assenza.
Chi dei due è più reale dell’altro? L’uomo che si inginocchia, che forse non è fatto altro che di inchiostro e del suo nome; oppure l’uomo sconosciuto, il ladro che lavora all’ombra di quello stesso nome? Millequattrocento e passa anni dopo, ne stiamo ancora parlando: io insieme a voi, voi attraverso me, filosofi e studiosi. Chi è, davvero, Dionigi l’Areopagita?
Io non ho risposte, perché sono una studiosa di professione e perché la filosofia dello Pseudo-Dionigi Areopagita è fatta di piccole bugie: d’altronde, un uomo che si nasconde dietro l’ombra di chi si inginocchia, non può fare altro che continuare nel suo gioco. Però, mi piacerebbe poter prendere in prestito la sua pseudo-identità, per pochi brevissimi momenti, e dare la risposta che credo darebbe lui – che bello il gioco delle proiezioni, dove non si ha ragione ma nemmeno torto: fingiamo quindi che io abbia trovato una lettera, l’undicesima lettera del suo corpus, la lettera che Pseudo-Dionigi non scrisse mai e che non potrà mai essere ritrovata. Inventiamo, scriviamo però che io l’abbia ritrovata un giorno, in un luogo inesistente, in un tempo non definito: al tramonto o all’alba.

A IEROTEO,
MIO VERO MAESTRO;
Saluto la tua anima consacrata, o amato: a me più che a tutti gli altri si addice chiamarti così. Io che ti ho creato, prima che io anche venissi al mondo. Mi accingo qui a scriverti queste parole poverelle, indegne della tua altissima onorificenza, a confessarmi finalmente impostore e ladro del mio e del tuo nome: non esisti tu, non esisto io. Generazioni di uomini verranno e leggeranno di te – sapranno esattamente quello che io ho voluto sapessero – che non sei altro che personaggio di inchiostro e parole: Ieroteo, discepolo di San Paolo, capace di grandi illuminazioni mistiche e mio maestro, mio amato insegnante che mi ha condotto alle più alte vette del pensiero. A te si devono opere di teologia talmente sopraffina che le mie parole possono fungere solo da corollario, per meglio preparare gli studenti a comprendere te, che più di tutti hai saputo scorgere, dipanare la coltre di caligine che ci separa dall’Altissimo. Tutto questo, mio amato Ieroteo, non sono altri che io. E financo io sono la menzogna che ho voluto si conoscesse di me. Ci hanno creduto tutti. Ti chiedo perdono, maestro, se ti ho usato come un imbuto nel quale buttare tutte le cose che io non avevo il coraggio di dire, nemmeno col mio pseudonimo – tu sei il coraggio che non mi è appartenuto mai. Eppure, nemmeno tu, nemmeno io in te sono riuscito a trovare Dio. Ma oggi sento di doverti una confessione – ché farla a te è come farla a me, e farla a me è come farla a Dionigi, così che il cerchio si chiuda e io possa finalmente svelarmi il mistero del mio bisogno di nascondimento, quindi ecco che ti dico: la Parola di Dio è Silenzio. L’intera vita di un uomo pio come io sono stato è spesa alla ricerca di Dio: i testi, in special modo, sono il luogo prediletto in cui ho ritenuto di poter identificare il Sommo, l’Altissimo destinatario di ogni lode. Ho scritto e mi sono nascosto dietro le mie parole: soprattutto, però, il mio desiderio era quello di collassare nel tempo e nello spazio. Come se rubare il nome di Dionigi, membro dell’Areopago, potesse farmi vivere quell’adesione totale che cercavo: come se potessi essere io quello le cui ginocchia si macchiarono di gesso e fango per inginocchiarsi di fronte a Paolo di Tarso. Alla stessa maniera ho scritto di te nella speranza di poter collassare nel tuo tempo vicino a Paolo, sempre un po’ più vicino a Dio di quanto io non sia mai stato. Quanto ho desiderato la distruzione del tempo e dello spazio, solo tramite le mie parole: un Dio delle piccole cose, tanto mi sentivo. Poi, un giorno, Dio mi ha grattato il capo con delicatezza come fa una Madre che sveglia il figlio dormiente: tornando verso casa ho sentito un venditore di fragole che urlava per attirare clientela. Ne ho riconosciuto la voce in un istante: era lo stesso venditore che sentivo da bambino quando portavo l’asino ai campi: io pascolavo l’asino mentre in lontanaza c’era la voce di quest’uomo e al ritorno a casa, la sera, trovavo le bellissime fragole che mamma comprava solo per me. Non ho mai visto quel venditore negli occhi, ne ho sentito solo la voce: tanto è bastato a crearne un ricordo. Così, quando ne ho percepito le stesse tonalità dopo tutti questi anni, sono scappato: ho corso nella direzione opposta più veloce che potevo, nella speranza di non vedere mai in volto quel venditore di fragole che mi ha regalato l’infanzia. Vederlo avrebbe reso vano ogni ricordo, le fragole della mia gioventù avrebbero avuto il sapore e il colore di tutte le altre che ho provato sino ad ora: era l’assenza il vero volto di quell’uomo. Così ho capito, e ho smesso di scrivere: ho visto Dio.
Mio amato Ieroteo, voglio ripeterlo perché la potenza del messaggio ti pervada come ha fatto con me: ho trovato Dio quando ho smesso di scrivere, di parlare, di pensare. L’ho visto solo quando ho ammirato il Silenzio attorno a me e una musica universale mi si è fatta attorno per sollevarmi della mia razionalità. Succede poche volte, ma l’anima mi si è alleggerita e dalla leggerezza ho sorvolato le parole, le definizioni e i nomi che abbiamo dato a Dio, per approdare a quello che Dio è per davvero: Silenzio. Solo conoscendo Dio per ciò che è lo si può amare davvero. Lui si conserva nell’assenza, perciò io mi sono nascosto, ora me lo posso confessare: per conoscere meglio Dio.
Così, giungendo alla fine di questa mia lettera, ti dico addio: ti congedo come si può fare con un amante o un amico al quale non si ha più nulla da dire o da augurare. Oltre la gratitudine per esserti prestato a me così bene, meglio di qualsiasi altro personaggio io abbia ideato, posso ora lasciarti all’oblio, nella speranza che anche i nomi fatti solo d’inchiostro trovino Dio come l’ho trovato io al di fuori del mio essere Dionigi l’Areopagita.
Una prece per te,
XXX
–
Potrei concludere qui, ma ho anche io una confessione da farvi, un dis-velamento di un piccolo nascondiglio: anche io ho mentito, all’inizio di questa storia vi ho detto una bugia: ho detto “due persone sole si inginocchiarono”: non è vero. La Bibbia dice: “…Dionigi membro dell’Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro” ( Atti 17:16-34.). E altri con loro. Chi sono questi altri? Non lo sapremo mai. Anzi, chi è senza nome ha solo due opzioni: non esiste ed è Dio. Il nome è un prolasso della propria identità nel tempo, un collassare infinito che ingabbia, un’uscita dal canale dell’indefinito, del possibile, per sbarcare nel recinto del linguaggio. Chi sono gli altri? Tutti gli altri sono in attesa.

Clelia Attanasio (1995) nasce in provincia di Salerno. Si laurea in Filosofia all’Università degli Studi di Salerno e ora è dottoranda al secondo anno alla Facoltà di Divinity presso l’Università di Cambridge ed è segretaria del Centre for the Study of Platonism. È stata finalista del Premio Campiello Giovani nel 2015 e dallo stesso anno ha fatto parte della redazione della rivista letteraria Il Rifugio dell’Ircocervo fino a marzo 2020. Nel gennaio 2021 ha fondato e ora dirige la rivista letteraria Quaerere. Suoi articoli e racconti sono comparsi su CrapulaClub, l’Irrequieto, miccorize, Nazione Indiana, Crack Rivista, Grande Kalma, Neutopia, ItalianBookItBetter e il Rifugio dell’Ircocervo. Da oggi, anche In Allarmata Radura.




Le fotografie di Marcello Chieffi, scattate a Parigi nel 2015 in occasione di una mostra al Grand Palais sull’haute couture di Jean Paul Gaultier, ci appaiono come icone, riflesso di un amore continuamente rinviato.
I manichini, rivestiti dei sontuosi abiti di Gautier e circondati dalla luce di un acquario, rivelano la loro vera natura di ex-voto, immagini sacre della società del capitale. In un processo di continui richiami, gli spazi della mostra sono una passerella dove a sfilare è il nostro desiderio. Un desiderio che si nasconde, che viene ostentato, che cade e ricade sotto la superficie dell’acqua.
Marcello Chieffi ha vissuto per quasi tutta la sua vita a Napoli, ma ha sempre desiderato viaggiare e in fondo, in tanti modi lo ha sempre fatto. Quattro anni fa, un po’ per gioco, si è trasferito a Parigi dove vive tuttora. Psichiatra infantile et flâneur instancabile, osserva volti, paesaggi, architetture e, quando può, fotografa. Pensa che oggi più che mai sia necessario (ri)scoprire altri modi di viaggiare. Fotografare è forse una delle possibilità di vedere, creare, abitare nuovi mondi.
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