La gente felice mi fa schifo – il politicamente scorretto in Jean-Marc Reiser

di Gabriele Esposito

© Nicola Galli.

En face

le pire

jusqu’à ce

qu’il fasse rire

Poèmes suivi de Mirlitonnades – S. BECKETT

Cinzia mi si presenta davanti con il solito faldone in eco-pelle sotto braccio. Arriva in ufficio mezz’ora prima che inizi l’orario di ricevimento ufficiale; io sto ancora al telefono con il magnifico rettore: mi alzo per sbatterle le porta in faccia. Aspetterà.

Alle dieci e trentadue il clic della cornetta si infila nel buco della serratura, Cinzia lo sente ed entra sbuffando, la panchina in corridoio non è tra le più comode e lo so, e lo sa.

Mi getta sulla cattedra i fogli, vedo che lo studio avanza, a parole prova a illustrarmi i paralleli tra Jeaninee Gros déguelasse (in Italia noto come “il Porcone”). È lui il personaggio più iconico dell’autore francese, uno di quelli che conosco bene: la barba di una settimana, la sigaretta pendula, il grosso mutandone giallastro, l’elastico rilassato, i coglioni sempre in vista.

Basta chiacchiere, Cinzia. Leggo.

Capitolo IV – L’uso del politicamente scorretto come denuncia delle ipocrisie e nell’esaltazione degli emarginati e delle donne nella poetica di Jean-Marc Reiser.

[…] Un incel fine anni Settanta, primissimi Ottanta, un personaggio simbolo di tante epoche (in quarta di copertina:La gente felice mi fa schifo”, con quel francese chierche letteralmente vuol dire “cacare”, ma che andrebbe interpretato piuttosto con incazzare o annoiare), tante le gag micidiali dal retrogusto sociale: Gros déguelassesa di non avere speranza nel rimorchiare le passanti più belle, eppure ci prova lo stesso (Lascio mia moglie e miei quattro bambini per seguirla in capo al mondo”, dice a una sconosciuta), al solo scopo di lasciare un ricordo imperituro nell’immaginario della donna prescelta (Per anni, nella loro testolina, ci sarà questo”, dice ammirando il suo corpaccione immondo riflesso in una vetrina, nelle mani due borse della spesa piene di vino rosso, patate, porri e pannolini). Nella sua solitudine Gros déguelasse ha una lucidissima percezione dell’ipocrisia borghese. Fenomenale la tavola dove è descritta la sua domenica mattina ideale: il lavaggio dello slip metafora di una messa personale, le foto porno al posto dei santini, la sigaretta accesa a mo’ di incenso, il sacramento della confessione con i peccati enumerati e commentati sullo slip stesso tra chiazze di sperma, macchie di merda e piattole schiacciate, e infine l’immersione in un lavandino idealmente pieno di acqua benedetta, con tanto di elevazione finale delle mutande più o meno sbiancate. Poi, con l’anima in pace” e il solito abbigliamento, va fuori a comprare le pastine. Si mette tra la gente in coda dal pasticciere, aspetta il suo turno circondato da persone che lo guardano male, eppure – e qui la battuta che fa davvero gelare – In questa coda, il solo la cui tenuta ricordi quella del Cristo, sono io”.

Disegno il peggio perché amo il bello, amava dire Reiser.

Nel finale Gros déguelasse ne ha di nuovo per Dio. A pranzo capisce di essere come un fagiolo in meno all’interno di una latta di salsicce e fagioli: nessuno potrebbe notare l’assenza di un tipo come lui all’interno della società. All’ennesimo pranzo e all’ennesima latta, la preghiera: Signore, benedici questo cibo”, eppure Dio non ha il senso dell’umorismo, altrimenti questo l’avrebbe fatto ridere. L’universo è solo tristezza”. Queste le sue ultime parole prima di aprirsi le vene con il coperchio affilato. Ultima immagine: una pancia enorme per terra, le mutande, i due grossi coglioni, una pozza di sangue.

Jeanine invece ha un tono dolceamaro più allegro, si chiude dopotutto con un uomo sulle scale che dice soddisfatto: Jeanine è una donna meravigliosa” dopo essere stato preso a schiaffoni e buttato fuori di casa. Una protagonista controversa, è sorpresa di non avere una cattiva reputazione nel quartiere quando il proprietario del bazar cui si rivolge per comprare un prodotto contro gli insetti non riesce a indovinare la tipologia di bestiola che le crea problemi (ovviamente, ancora una volta, la piattola).

Jeanine non è solo gag prive di pudore ma anche un monumento alle battaglie per i diritti delle donne, soprattutto per la loro indipendenza ed emancipazione. Non solo è libera dagli uomini (ne è un delizioso esempio la tavola – politicamente scorrettissima – dove la si vede ospitare un africano in casa per poi cacciarlo dopo pochi giorni unicamente per scandalizzare i vicini: Con un negro, adesso! Dopo aver fatto tre bambini! Presto sarà Harlem! Quando cominciano ad arrivare, il valore delle case crolla!”), ma anche dai bambini, nonostante ne abbia appunto tre: fantastica l’immagine di lei che prende il sole a seno nudo sul terrazzino, criticata dalla vicina intenta a preparare il pranzo per la famiglia (Mi domando cosa darà da mangiare ai suoi bambini quando torneranno da scuola!”), per poi vedere arrivare i figli tutti contenti ed entusiasti di avere la madre abbronzatissima, la più bella del quartiere.

Le faccio sempre della stessa dimensione degli uomini. Tutto qui. È importantissimo. È l’ABC del disegno politico. Allo stesso modo è sempre un errore piazzare un grosso padrone vicino a un operaio piccino. Certo: le donne e gli operai possono essere dei bastardi come tutti gli altri” (J.-M.R.).

[…]

***

Cinzia ha fatto un buon lavoro, me ne compiaccio, potrebbe migliorare la scrittura – troppe parentesi, frasi lunghe – e le dico di dare un’occhiata anche a Vive les femmes!, in cui è eclatante quel trittico di vignette in apertura che illustra un nuovo rifugio per donne maltrattate creato a Parigi: Perdonami cara, ritorna!” fa lui dalla strada, Sei sincero?” si affaccia lei, con l’occhio nero. E quindi il potentissimo No!” di lui, accompagnato da un forte pugno in pieno volto. Fine. O ancora, la fitta storiella in due tavole dove si vede una moglie svegliarsi, preparare la colazione, lavarsi, preparare i bambini, portarli a scuola, andare in ufficio, lavorare, fare la spesa, riprendere i bambini, cucinare, lavare i bambini. L’unica battuta è pronunciata dal marito nell’ultima vignetta, lui seduto in poltrona davanti alla TV mentre lei lava i piatti, nessuna spiegazione: Con me, è semplice. Se mi tradisci, ti ammazzo!”.

«Ma queste non hanno bisogno di spiegazioni, professore».

«Hai ragione, Cinzia, hai ragione». (Ma nemmeno tutte le altre).

«Ne ho una io, più sottile ancora, sempre da Vive les femmes!».

«Non amo quando i miei studenti prendono l’iniziativa, ma ascolto».

«C’è quella del tale che compra un robot da cucina alla moglie, per la festa della mamma».

«Sì, ho vaghe reminiscenze, continua».

«Ci si infilano dentro due uova, carote, robe così, e cosa viene fuori…?»

«Topolino, se ricordo bene».

«Al venditore, sì, gli viene fuori Topolino. A lui invece, al tale, davanti alla moglie viene fuori una schifezza, un topo con gli occhi fuori posto, le orecchie storte».

«Giusto».

«E insomma lei prende l’affare, lo scaraventa sul muro, inizia a dire che ne ha abbastanza di questo tipo di regali, che vorrebbe dei fiori, dei baci, urla sempre di più, se ne va di casa, lo lascia con il bambino piccolo, ad arrangiarsi».

«Mmm, capisco cosa vuoi dire, Cinzia, Reiser nelle sue vignette mostra comunque la donna capace di reagire».

«Non solo. Ricordi? Le donne e gli operai possono essere dei bastardi come tutti gli altri”, l’ho scritto proprio qui, alla fine del capitolo, l’ha detto Reiser stesso».

«E quindi?»

«E quindi nel finale della storiella si scopre che il bambino che ora l’uomo deve arrangiarsi ad accudire è di colore, mentre sia la madre che lui sono bianchi. Dice il tale, perplesso:D’accordo, fare un Topolino con due uova sode non ha niente di poetico. Ma lei… farmi un piccolino nero con due bianchi, avrei anche io qualcosa da ridire”».

«Di questi tempi, una battuta del genere non passerebbe».

«Eh no. Però questo voleva dire Reiser: pur mostrando senza alcun abbellimento tutti i soprusi che le donne masticano ogni giorno, della donna riesce a esaltare la maggior intraprendenza e, la sua capacità di essere bastarda. Parità in tutti i sensi. In quel “Viva le donne” è racchiuso il grande amore dell’autore per l’altro sesso. Ricordiamoci anche che è una donna sola che l’ha tirato su, durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra».

«Non conoscerà mai suo padre».

«Non saprà mai chi era il padre».

«Reiser era il cognome di lei».

«Mi raccomando la pronuncia: Resèr, non Raizer».

«Alla francese».

«Non alla tedesca».

«Il padre era un soldato tedesco?»

«Secondo la madre era un soldato francese».

«Secondo quel che lei ha sempre raccontato a lui».

«Secondo quel che sappiamo noi».

«Pettegolezzi».

«A Reiser non piacerebbero».

«Ci vediamo la settimana prossima, portami un altro capitolo».

© Nicola Galli.

In realtà, Cinzia e io siamo amanti selvaggi e con ogni probabilità ci vedremo anche questa sera. La sera discutiamo di tante cose, soprattutto di come si potrebbe un giorno salvare il mondo, ma ogni tanto si parla anche della tesi.

Oggi ci divertiamo a parlare di Phantasmes, che in francese non sono i fantasmi ma le fantasie, le fantasie sessuali. Quelle di Reiser e le nostre.

L’apertura del libro è intensa: c’è l’uomo medio, ci sono le urla del capo, le risate dei colleghi, una mensa affollata, una metro ancora più affollata, una corsa sotto la pioggia, i rimproveri di un poliziotto, una rampa di scale che sembra non finire mai e quindi: lei. Lei già nuda sul letto, accogliente, pelosa in abbondanza, lui che salta e sembra quasi entrare con la testa nel suo organo sessuale, lui che lecca, urla, lei che gode, e quindi sul pianerottolo un altro uomo ancor più medio, la ventiquattrore in mano, l’orecchio teso, incollato alla porta, estrae il suo membro, accompagna le gesta della coppia, li ascolta mentre nell’amplesso vengono pronunciate cose inaudite, sporche, parole di culo e parole di merda, parole di mestruazioni e parole di tampax, parole d’odori di carogna: ecco nella stanza l’orgasmo ed ecco sul pianerottolo il vomito copioso. I paralleli di Reiser.

Poche pagine più in là emerge il lato animalista dell’autore, piuttosto importante nella sua produzione: qui una storiella ancora più scabrosa, un grosso cane che viene attratto dalla padrona in camera da letto e comincia a fotterla, il marito li sorprende insieme, spara al cane, lo uccide. La moglie guarda il marito: Bah, sarebbe stato un ingombro per le nostre vacanze”, e quindi il perdono finale, incondizionato. Girando pagina, stessa tematica: un cinghiale sodomizza un cacciatore: Hai ucciso mia moglie, adesso la rimpiazzi!”.

Stasera io e Cinzia giochiamo al cinghiale e al cacciatore, lei indossa il berretto tipico, io ho qualche pelo di troppo sulle spalle, devo prendere appuntamento dall’estetista, ma mi diverto a grugnire, lo faccio bene, lei alla fine ride, in ogni caso sembra appagata.

Mi guarda, dice che per fortuna non ce l’ho piccolo come quel tale in Phantasmes.

«Ti riferisci a quel trittico di tavole con il tizio che si taglia la mano?»

«Sì, quello».

«Uomo generoso».

«Ce l’aveva piccolo».

«E allora procede all’amputazione con un’ascia».

«Ma non del pene».

«No, appunto, della mano».

«Ricordi il perché?»

«Certo, per avere un moncherino con il quale scoparla e farla finalmente godere per bene».

«Reiser».

«Reiser».

***

In ufficio guardo il disegno incorniciato che tengo sulla scrivania, un originale dell’agosto 1980, copertina di Charlie Hebdo che illustra il rialzo del prezzo della carne in Polonia, motivo di collera e di scioperi seri. Polonia, una speranza! Presto la carne nei negozi”, un cannone fumante, una vetrina in frantumi, ossa e cadaveri e una pozza di sangue.

Cinzia interrompe i miei pensieri di rivoluzione entrando senza bussare, un vestitino a fiori molto corto di sicuro indossato a pelle, il solito fascicolo in mano che crolla come sempre ai miei piedi. È il capitolo sette della sua tesi. Lo raccolgo, metto insieme le pagine, poco importa l’ordine, si tratta del lavoro di una studentessa, roba impubblicabile. Lo leggo con lei che continua a camminare su e giù per la stanza, esaltata, di certo contenta di come sta procedendo il suo lavoro.

© Nicola Galli.

Capitolo VII – Il Reiser giornalista di cronaca

[…] Di certo Jean-Marc non si definiva un fumettista, ignorava le convention del settore e per poco non avrebbe rifiutato perfino il Grand prix di Angoulême – praticamente il Nobel del fumetto – che gli fu assegnato nel 1978.

Si considerava piuttosto un cronista. Le sue copertine su Charlie Hebdo, Hara-Kiri Hebdo e l’Hebdo Hara-Kiri facevano vendere da sole l’intera tiratura di questi settimanali nell’epoca d’oro della satira francese.

Attenzione: quasi mai politica interna, Reiser se ne disinteressava, al massimo, ogni tanto, geopolitica. Famosa la vignetta con la bara che cammina: Franco sta meglio, è andato al cimitero a piedi”, pubblicata nel luglio 1974 all’inizio dei gravi problemi di salute del dittatore spagnolo che lo portarono alla morte nel novembre 1975. Lo stesso disegno che, nove anni, dopo, la redazione di Hara-Kiri utilizzò per un numero speciale pubblicato subito dopo la morte di Reiser stesso, con la didascalia Reiser sta meglio, è andato al cimitero a piedi”.

Sempre micidiali quelle relative alla società, ai diritti: nel 1972 copertina con un poliziotto che dà un colpo di manganello in testa a una donna cui per reazione cade un feto per terra: Divieto di abortire”. Nel 1975: Una donna nuda in copertina fa sempre vendere”, con un ciccione baffuto nudo a quattro zampe che commenta: Questo, io l’ho sempre detto”. Altro ciccione baffuto e nudo per una vignetta contro il razzismo del 1973: I razzisti hanno il cazzo piccolo”, e l’uomo – miseramente dotato – Proprio così!”. Semplice quanto efficace. Nel 1969: Il concorde fa male?”, con disegnata la punta dell’aereo super veloce che inchiappetta una donna dall’espressione quantomeno sorpresa.

[…]

***

«E l’infanzia, Cinzia, non hai scritto ancora niente sull’infanzia».

«Di Reiser?»

«No, non direttamente, mi interessa di più la sua satira a tutela dei bambini. Di animali abbiamo già parlato».

«Ma prof, qualcosa ho detto, a proposito di Jeanine e dei suoi figli. Sta nel capitolo IV».

«Ma lì Reiser usava i bambini per fare satira a difesa della donna, ora vorrei del materiale a difesa dei più piccoli».

«Les oreilles rouges».

«Ad esempio, sì, Les oreilles rouges. Brava. “Orecchie rosse”».

«Mi piacciono gli esempi».

«Anche a me».

«Raccolte in quel libro ci sono quella del coniglio, e anche quella dei disegnini».

«Raccontamele».

«Quella del coniglio è atroce. La vuoi sentire lo stesso?»

«Dilla».

«Il ragazzino ha un bel coniglietto, ci gioca, lo adora. A cena, il padre per scherzo dice alla madre che potrebbero cucinarselo per pranzo. Il ragazzo se ne va indignato, prende il roditore e se lo porta nel letto. Mentre dorme sorridente abbracciato al coniglietto, i genitori prendono l’animale e lo nascondono, quindi vanno dal macellaio e ne comprano uno già pronto per essere cucinato. Al mattino il ragazzo cerca il suo amichetto, ma in cucina vede quello che stanno cucinando i genitori. Si dispera, spacca tutti i piatti che trova sulla tavola imbandita per l’occasione, si prende uno schiaffone, e allora ruba la pentola, scava una buca in giardino, ci mette i resti dell’animale, piange. Ora i genitori sono arrabbiatissimi, rivelano lo scherzo, lo prendono per le orecchie e gli mostrano che il suo coniglio è ancora vivo, nascosto in una cesta. Il ragazzo salta di gioia ma il padre prende l’animale, gli dà un colpo alla nuca e insieme alla madre lo scuoia di fronte al figlio. Un disegno di disperazione come forse solo Munch saprebbe rendere meglio. Fine».

«…»

«Non hai niente da dire?»

«Non ho niente da dire, Cinzia. È troppo anche per me».

«Vuoi quella dei disegnini?»

«Mi deprimerà come questa del coniglio?»

«No, e ha una morale ancora più diretta».

«Allora sentiamo».

«Il solito ragazzo: ora spia la madre mentre si veste. Ne fa un disegno, una specie di palla con le tettone e un mucchio di pelo tra le gambe. Poi spia il padre. Disegno: palla con i baffoni e un pisellone gigante. Il padre scopre i disegni. Schiaffone e bastonate. La madre chiede cosa succede. Vede i disegni. Pugni e sberle. Bambino con naso pieno di sangue, fa le scale, va in camera. Disegna».

«E cosa disegna?»

«Carri armati. Bombe. Case in fiamme. Aerei che cadono. Soldati».

«…»

«Sono d’accordo con te».

«Allora questo materiale va bene, per il capitolo sull’infanzia. Scrivilo pure».

«Consideralo già pronto, prof.»

© Nicola Galli.

«Potremmo parlarne ancora per venti capitoli, vero?»

Me lo chiede Cinzia a ricevimento, per la laurea in corso mancano poche settimane.

«Sì, su Reiser potremmo dirne tante. Ma non c’è tempo».

«La sua passione per l’energia solare».

«Certo, e per l’architettura intelligente e d’avanguardia, come quella dello svizzero Mario Botta».

«I ricchi e i poveri».

«In vacanza, I ricchi si abbronzano, i poveri prendono i colpi di sole. I figli dei ricchi imparano una lingua straniera, i figli dei poveri vomitano in macchina.”»

«Proprio così. E Quando i ricchi si drogavano, era pittoresco. Quando i poveri si drogano, è una piaga nazionale. Quando i ricchi mangiavano pollo tutti i giorni, era un lusso. Quando i poveri mangiano pollo tutti i giorni, è uno schifo.”»

«On vit une époque formidable».

«Puoi dirlo davvero».

«E poi gli amori di Reiser. Quelli importanti, tre».

«E la malattia, e la morte».

«Il disprezzo e la presa in giro della malattia e della morte».

«Anche su questo argomento c’è qualche vignetta molto poco politicamente corretta che si potrebbe descrivere. Reiser non si faceva problemi: a maggior ragione quando stava soffrendo in prima persona».

«Io dico basta con le descrizioni».

«Il lettore interessato può andare a cercarsi le opere da solo».

«Qualcuna l’abbiamo messa in nota».

«E se il lettore interessato non sa il francese?»

«Se le procuri in italiano».

«Mi sa che la roba che c’è è tutta fuori catalogo».

«Così è ancora più divertente».

Gabriele Esposito nasce a Venezia nel 1983; eclettico naturale: dopo un dottorato in economia e un post-doc in scienze comportamentali ottiene un diploma da cineasta. Il suo romanzo sperimentale “Giocattolosa” è stato pubblicato, in venti puntate, dalla rivista letteraria “Malgrado le mosche”. Suoi racconti sono o saranno su “Malgrado le mosche”, “Suite italiana”, “Altri Animali”, “Verde”, “Crack”, “Sulla quarta corda”, “Il mondo o niente”, “Micorrize”, “Pastrengo”, “Narrandom”, “Risme”, “Quaerere”, “Bomarscé” ed “efemera”.

Nelle foto di Nicola Galli l’atto di toccare è un incidente. Le mani sono i resti di una conversazione a cui non abbiamo accesso, solo intuita, nella quale la dimensione narrativa, a un primo sguardo esplicita, è in realtà costantemente spostata altrove e perciò inaccessibile.

Anche l’ambientazione, che richiama nei dettagli gli anni Settanta, è finzione scenica dietro la quale si rivelano le luci e gli specchi di un set fotografico. Un teatro di proiezioni in cui, di volta in volta, le mani si fanno artigli o carezze, i palmi rivoltati simbolo di resa a una comunicazione mancata o mancante, i polsi e gli avambracci icone di una fragilità simulata.

Nicola Galli. Il desiderio artistico lo porta a sperimentare la propria sensibilità in maniera eclettica. Dal gusto raffinato esplora una dimensione estetica nuova e inusuale, dove i soggetti evocano racconti. Le composizioni sono seducenti e plastiche, nella loro semplice apparenza chiederanno sempre all’osservatore un ulteriore sguardo, per potersi incontrare a un livello più profondo e inconscio con il messaggio dell’artista. Le sue collaborazioni nell’ambito professionale vantano le grandi firme della moda (Giorgio Armani, Bulgari, D&G, Moschino, Roberto Cavalli etc…) e con i più prestigiosi magazine internazionali (Vogue, Marie Claire, GQ, Wired etc…).

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